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la recensione

Falso progresso, alienazione e divertimento come solo scopo: ma in nome di cosa?

Alfonso Berardinelli

Critica all’ultimo saggio di Raffaele Simone. Si perde lo stile da "libero saggista" in favore di una scrittura quasi manualistica. Ma la seconda e la terza parte sono più nuove e necessarie

Oltre che ben noto linguista, Raffaele Simone è un ispirato e dotato moralista, un critico della cultura sociale che ripetutamente e soprattutto in età matura è uscito dai confini della sua disciplina con libri come “L’università dei tre tradimenti” (1993), “Il paese del pressappoco” (2005), “Il mostro mite” (2008), “Presi nella rete” (2012). Ma da saggista Simone resta prudentemente professorale peccando (se peccato è) di intemperanze bibliografiche.

 

Per affrontare vaste e ramificate questioni, non smette di citare in nota autori su autori, rinunciando a quello “spirito di conversazione” che è proprio del saggista. Anche nel suo ultimo libro, “Divertimento con rovine” (Solferino, pp. 174, euro 16), tanto per cominciare Simone cita Eschilo, Sofocle, Lucrezio, Vico, Ortega y Gasset (sempre presente), Tocqueville, Condorcet, Comte, Polanyi, Bacone, Pascal, Leopardi, Hegel, Baudelaire, Dostoevskij, Nietzsche, Valèry, Engels, Melville, Zimmel, Benjamin... E mi limito ai classici maggiori tacendo di studiosi e contemporanei.

 

È vero che il tema della prima parte del libro è niente meno che l’idea di progresso, pilastro della cultura moderna contro cui si sono scagliati invano i più tipici e grandi scrittori e pensatori moderni antimoderni. Chi discute l’idea di progresso sprofonda in un’impresa pressoché enciclopedica, che resta tuttora, o sempre più, di attualità (l’alternativa è liquidare la faccenda in una sola battuta). Ma nella sua saggistica non professionale, Simone, per sentirsi al sicuro, deve presentarsi comunque in veste di autorevole professore. Come critico della cultura, il suo limite è l’eccessivo rispetto per le autorevolezze istituzionali.

 

Resta un professore: e tale era in essenza Simone già a vent’anni, quando lo conobbi alle lezioni di Tullio De Mauro, un maestro che lui in seguito, come linguista, superò per capacità teoretiche. Quello che spesso mi delude negli scritti sociomoralistici di Simone è che non smette di recitare “da studioso” anche quando sarebbe meglio e più opportuno che scrivesse in uno stile da “libero saggista”, senza mascherare la parzialità soggettiva e polemica dei propri moventi e delle proprie valutazioni. La cosa era particolarmente evidente nel suo libro “Come la democrazia fallisce” (2015), un argomento su cui si sono scritti centinaia se non migliaia di volumi, quasi tutti, però, di sociologi e politologi. Mi accorgo solo ora che Simone, dopo quel premiato libro, ne ha scritto subito un altro intitolato “L’ospite e il nemico. La grande migrazione e l’Europa”, nel quale non riesco a credere che possa aver detto qualcosa che fosse stato già detto.

 

In “Divertimento con rovine”, la prima parte dedicata al progresso è quasi manualistica, cioè utilmente, maneggevolmente bene informata. Non posso che condividere l’affermazione di saggio buon senso con cui Simone conclude il suo discorso e che continua a essere disastrosamente trascurata: “Ogni forma di progresso ha un prezzo”, cioè se si acquista una cosa, se ne perde un’altra. 

 

A questo punto mi rendo conto che le due parti successive del libro sono le più nuove e necessarie. La bibliografia in questo caso è molto meno abbondante perché si tratta di trasformazioni dell’identità personale nell’epoca dei desideri che si moltiplicano, intesi come diritti da legalizzare, mentre l’infosfera o “mediosfera” sono un “territorio perfetto per l’inganno e la menzogna”. Quando l’identità umana si frantuma fino a passare da solida a liquida, allora si impone l’idea che sia progresso tutto ciò che pluralizza, fluidifica l’identità e la libera, anche, dal peso della responsabilità individuale.

 

La terza e ultima parte del libro, quella sul divertimento, appare allora come la chiave di tutto. Progresso è potersi divertire di più, anzi uscire sempre di più da se stessi e sempre meno dalla dimensione del divertirsi e distrarsi. Questa è una bella idea che è sempre piaciuta molto agli artisti (che però in passato erano molti di meno e si ammazzavano di vero lavoro per produrre vere opere), un’idea che può piacere anche ai neobuddisti che si stanno moltiplicando, mi pare, fra i pubblicitari (ma il vero buddista non si distrae un momento). Resta da ricordare la solita cosa ovvia: il divertimento è un’industria, è economia, è il famoso sfruttamento economico non solo del tempo di lavoro ma anche del tempo libero. Che si tratti di turismo, di sport, di moda, di musica pop, di stupefacenti chimici o mediatici, è sempre l’economia che lo vuole perché ne ha bisogno. Falso progresso, libertà di alienarsi e divertimento come solo scopo della vita libera: caro Raffaele, a noi queste tre cose non possono piacere. Ma in nome di che cosa? 

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