(Foto di Ansa) 

Tradurre significa tradire

Parole mobili, ma non per tweet. E finché c'è da tradurre c'è speranza

Sergio Belardinelli

Il linguaggio esclude due assoluti: la trasparenza e l’incomunicabilità. La prima renderebbe inutile qualsiasi discussione, la seconda lo cancellerebbe come tale. Esso si mette in moto quando c'è qualcosa da comunicare

Chiunque si sia cimentato con la traduzione di un testo sa quanto sia faticoso rendere nella propria lingua ciò che viene detto o scritto in un’altra. Ad eccezione del cosiddetto linguaggio scientifico e di certe difficoltà traduttive che nascondono in realtà veri e propri errori di comprensione e quindi di traduzione, ogni testo presenta invero una serie di opacità più o meno profonde, a seconda di quanto esso evoca in termini di stile, storia, sentimenti, emozioni di colui che parla o scrive. Tradurre è anche un po’ tradire, come sanno bene i traduttori. E in effetti, specialmente quando si tratta di letteratura o di poesia, una certa dose di “tradimento” o di parafrasi appare persino inevitabile. Soltanto in rari casi le parole sono tutt’uno con le cose; il più delle volte assomigliano all’aria di cui sono fatte, sono mobili, mutano di significato a seconda di chi le usa, a seconda del contesto e del tempo in cui vengono usate. Ma questa loro volubilità non deve in alcun modo indurre a pensare che la loro traduzione sia impossibile. 


Il linguaggio umano non è semplicemente uno strumento convenzionale per esprimere significati mentali ai quali si ha accesso soltanto in prima persona; è piuttosto la sola articolazione possibile di quegli stessi significati, i quali, per loro natura, possono essere compresi o no, ma non perché vediamo o non vediamo ciò che c’è dietro. Il linguaggio umano è per sua natura intersoggettivo, serve a comunicare, a trasmettere dei significati, come dire: i significati non sussistono indipendentemente, non sono isolati, da una loro possibile trasmissione. Il fatto che non vediamo i pensieri dei nostri interlocutori, che ognuno di noi può pensare quello che vuole e tenerselo gelosamente per sé, oppure mentire spudoratamente a chiunque; questo fatto, dicevo, non è un argomento per dire che le parole sono soltanto suoni dietro ai quali bisognerebbe vedere i veri significati, né un argomento a favore dell’inaccessibilità dell’altro. Al contrario: qualche volta ci teniamo certi pensieri per noi proprio perché sappiamo benissimo che se li esternassimo l’altro li capirebbe. Voler vedere i pensieri di un altro è come voler saltare sulla propria ombra, ma ciò non toglie che i significati siano quelli che vengono detti o pensati. Quanto alla traduzione linguistica, essa, come dice il mio amico Luigi Cimmino, è un tentativo di “rendere al meglio significati manifesti, non di tra-durre, di trasportare da una lingua a un’altra, fuochi fatui mentali misteriosamente connessi ai suoni e ai segni che esprimiamo”. E questo vale non soltanto per la traduzione di una lingua straniera, ma anche quando ci sforziamo di comprendere ciò che sentiamo dire nella nostra lingua madre, dove la traduzione in alcuni casi potrebbe rivelarsi persino più difficile. Si pensi a certe discussioni che abbiamo con nostra moglie. 


Di una cosa possiamo tuttavia essere ragionevolmente certi: il linguaggio esclude sia l’assoluta trasparenza che l’assoluta incomunicabilità. Un’assoluta trasparenza renderebbe qualsiasi discussione inutile, un’assoluta estraneità lo cancellerebbe come tale. Il linguaggio si mette in moto soltanto quando c’è qualcosa da comunicare e qualcosa da comprendere. Quando i significati sono evidenti, la comprensione è immediata e la comunicazione scorre senza problemi; quando non lo sono, la comunicazione s’inceppa e, se vogliamo cercare di comprendere, dobbiamo sforzarci di tradurre. In questo senso, la traduzione può essere più o meno difficile, diciamo pure “parziale”, ma è sempre all’opera quando due persone vogliono comprendersi e, soprattutto, non è “indeterminata”, come pensano i fautori dell’intraducibilità. Non dobbiamo tradurre nulla di ciò che nostra moglie ha scritto nella lista della spesa. E’ facilissimo da tradurre in italiano la lista della spesa di una famiglia inglese, tedesca, francese o brasiliana. Ma lo spessore semantico di un’espressione anche banale, tipo “Questa è la lista della spesa”, può essere enorme se il tono di chi la pronuncia dà a vedere la noia di dover preparare ogni giorno quella lista, il fastidio nei confronti di un marito che negli anni non ha imparato nulla in tal senso né si sogna di voler imparare qualcosa e via di seguito. In questi casi, per comprendere, occorre cercare di mettersi al posto dell’altro, tradurre, anche se si tratta della nostra stessa lingua. D’altra parte le lingue sono realtà viventi che si sviluppano in modi diversi nei diversi individui che le parlano; esse acquistano spessore (ma anche opacità) a seconda di quanto  vengono coltivate, contaminate, sollecitate a esprimere ciò che può apparire inesprimibile. Per questo, anche nei contesti d’uso più banali, le nostre parole possono assumere significati difficili da comprendere, diventare cassa di risonanza di sentimenti, emozioni, storie, acquistando una forza imprevedibile. E se questo accade nel più banale linguaggio ordinario, figuriamoci che cosa può accadere con la letteratura e la poesia


La strutturale natura pubblica del linguaggio non esclude l’unicità di certe “proposizioni”. Ma tale unicità, lo ripeto, non dipende dal fatto che il significato di un verso poetico è accessibile soltanto al poeta in prima persona, bensì dall’insostituibilità di certe parole per dire quel significato. Come il poeta avverte la sproporzione tra ciò che sente e lo strumento espressivo di cui dispone nel linguaggio, allo stesso modo il lettore avverte la sproporzione tra le parole del poeta e la propria capacità di comprenderle e tradurle. “Meriggiare pallido e assorto”: quanta fatica per il poeta mettere insieme queste parole e quanta fatica per noi dispiegarne il senso. Di certo esse appaiono come parole insostituibili, dentro le quali, come direbbe Leopardi nel suo Zibaldone, “si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme”; parole forse difficili da tradurre, ma non intraducibili; parole che ci costringono a pensare e quindi a crescere, ad arricchirci, preservando in questo modo il nostro linguaggio, sia pubblico che privato, dallo squallore piatto dei tweet e degli sms. Insomma finché c’è da tradurre c’è da faticare, senza essere nemmeno sicuri che tutto sia traducibile. Ma c’è anche speranza. 

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