Mosca d'autore. Quando il piccolo, banale, insetto è un protagonista letterario
C’è quella descritta da Virginia Woolf e quella amata da Montale. Nella sua presenza minima è capace di destabilizzare, è il punto focale intorno al quale si stratifica un nuovo modo di sentire
Lily Everit si trova a una festa della signora Dalloway: ci sono molti invitati, ma lei non si comporta affatto come una qualsiasi giovane a un party. Se ne sta da sola in disparte, non si diverte, non parla con gli altri. E’ la stessa signora Dalloway a porgerle la mano e a toglierla dall’angolo dove si è messa. Che sensazione prova Lily? E’ eccitata e timorosa; vorrebbe essere lasciata in pace e insieme prova la voglia di buttarsi nei turbolenti abissi della vita. La protagonista di questo racconto di Virginia Woolf – La presentazione – vive dentro a una sproporzione: quella tra la sua vita interiore – i suoi pensieri, le sue riflessioni – e il suo essere nel mondo. E’ una donna che studia, Lily Everit, in un’epoca in cui le donne che studiavano non erano molte. Ha appena scritto un saggio su Swift che ha ottenuto il plauso del suo professore e lei è orgogliosa e fiera di questo traguardo: il saggio su Swift è una specie di grumo solido, una certezza del suo animo. Però una volta arrivata alla festa quel grumo di certezza inizia a sciogliersi.
La signora Dalloway vuole presentarle qualcuno, ma lei esita, rimane un po’ indietro, vuole evitare il gorgo. Che poi il gorgo consiste nella vita, nelle relazioni con gli altri, ma soprattutto nell’essere una donna: “questa fragile e bella creatura, dinanzi alla quale gli uomini s’inchinavano, questa creatura limitata e circoscritta che non poteva fare ciò che voleva, una farfalla con migliaia di sfaccettature negli occhi e un piumaggio delicato, e innumerevoli difficoltà, sensibilità e tristezze”. A lei tutto questo non appartiene, lei non è così: è abituata ad affrettarsi, a correre, a camminare. A Lily Everit piace stare da sola. Invece a quella festa i ruoli sono già decisi, già definiti, e a lei – in quanto donna – tocca solo di arieggiare e abbellire (non certo dominare o asserire): di recitare quello che gli altri si aspettano da una donna. Davanti a tutto questo, lei può solo opporre il suo saggio di Swift. Intanto la signora Dalloway le presenta il signor Brinsley. Ma il signor Brinsley, col suo sguardo comprensivo, rimpicciolisce ulteriormente Lily; l’orgoglio per i suoi studi davanti a quell’uomo avvizzisce. Il suo talento non scalfirà in alcun modo i pregiudizi di Brinsley. Tanto più che lui non si cura se non superficialmente di lei: ha afferrato una mosca, le sta strappando le ali, traendone un distratto divertimento. E per Lily quello è un gesto gigantesco, molto più grande di quello che possa apparire ad altri.
Le mosche tornano sempre, tornano spesso. Per Emily Dickinson il ronzio di una mosca annuncia il letto di morte; per James Joyce il ronzio della mosca è lì a dire a Leopold Bloom che quel pomeriggio sua moglie è stata a letto con un altro uomo. Nella sua presenza minima la mosca è capace di destabilizzare, è un’epifania che spalanca le porte a un nuovo sentire.
Virginia Woolf scrisse il suo racconto nel 1925. Lei e suo marito Leonard erano tornati a vivere a Londra. Sono i tempi in cui comincia a pianificare Gita al faro. La sua amica Katherine Mansfield è morta da due anni, ma loro due hanno fatto comunque in tempo a condividere tantissimo. Da quel primo incontro a Cornwell, in cui la scrittrice neozelandese le era sembrata uno strano animale introverso, con qualcosa di così ordinario da respingerla, la progressiva conoscenza le aveva fatte invece diventare inseparabili. Pochi giorni dopo il loro incontro, Mansfield le aveva scritto una lettera intensa nella quale le diceva di considerarla come un’amica, qualcuno con la sua stessa passione per la scrittura, qualcuno con il quale sentirsi liberi come tra le vie di una grande città. Parlare di scrittura con Katherine infatti era un’esperienza completamente nuova. L’amicizia con l’autrice di Preludio (secondo titolo pubblicato dalla Hogarth Press, la casa editrice dei Woolf) fu una fonte di ispirazione per entrambe.
Un anno prima di morire, Mansfield aveva scritto un racconto che s’intitola La mosca. L’insetto è – come nella poesia di William Blake – un modo per affondare nel mondo materiale e insieme in uno metafisico. Il protagonista del racconto è un uomo d’affari avanti negli anni. L’uomo riceve nel suo ufficio un dipendente che lo riporta al ricordo del proprio figlio. Quando il dipendente se ne va, l’uomo d’affari rimane perso nei suoi pensieri: è sopraffatto dal dolore per il figlio morto nella Prima guerra mondiale, ritratto in una fotografia che tiene sulla scrivania. Ripercorre i ricordi della loro vita insieme, i sacrifici per crescerlo in un ambiente sicuro e stabile; ripensa alla personalità del ragazzo che era sempre stato gioioso e amabile. E mentre rievoca il figlio, l’uomo si accorge di una mosca rimasta intrappolata nell’inchiostro del calamaio. In uno slancio di generosità, affonda la punta della penna nel calamaio e salva l’animale appoggiandolo delicatamente sulla carta assorbente. Osserva la mosca che a fatica si asciuga le zampette, ne elogia lo spirito di sopravvivenza; soffia sul corpo dell’insetto per aiutarla ad asciugarsi più in fretta. L’attenzione del protagonista è congiunta agli sforzi del piccolo insetto, fin quando non si accorge che negli sforzi della mosca c’è qualcosa di timido e debole, di troppo fiacco. Con un istinto contrario alla pietà dimostrata poco prima, la inonda d’inchiostro e ripete l’azione fin quando la mosca non affoga definitivamente con le zampe posteriori appiccicate al corpo. Con lo stesso disinteresse di Brinsley nel racconto di Woolf, l’uomo getta il cadavere nel cestino. Tuttavia, quando torna alla sua scrivania non riesce a ricordare cosa stesse pensando inizialmente. Il ricordo del figlio è svanito nel nulla, a nulla è servito rievocarlo.
Entrambi i racconti, quello di Woolf e quello di Mansfield, nascono dall’esperienza della guerra e dal nuovo equilibrio emotivo e assetto valoriale che ogni uomo e ogni donna è chiamato a trovare dopo quell’esperienza traumatica. La piccola, banale, mosca: è il punto focale intorno al quale si stratifica un nuovo modo di sentire. Straniamento e senso di impotenza, è questo ciò che provano i personaggi: quello stentare a ricostruirsi su solide basi, dal momento che le solide basi non esistono davvero, non sono mai stabili fino in fondo.
Mansfield non era soddisfatta del lavoro di revisione sul racconto che stava scrivendo. Il 16 novembre del 1919 scrive una lettera a Middleton Murry, suo marito. Per lei non è una questione di contenuto, di trama o di stile. E’ una questione di rappresentazione di un cambiamento emotivo radicale. Gli uomini che avevano vissuto la Prima guerra mondiale non potevano tornare ai vecchi valori; le persone erano morte e ora tornavano a vivere nuovamente. Ma non poteva trattarsi della stessa vita. Questo era l’oggetto della rappresentazione, questo movimento interiore, questo danno irrimediabile. Per entrambe le autrici, la distruzione portata dalla guerra non può causare un esilio dalla vita, ma la necessità di rappresentare con più verosimiglianza possibile una nuova emotività che segna un cambiamento rispetto ai valori precedentemente condivisi. La vita è come intensificata, illuminata da un’altra prospettiva, porta continuamente con sé la sua elegia, il senso della morte che non si può evitare. La vita e la sua ambiguità.
In epoca più recente, lo scrittore francese Christian Oster ha scritto il romanzo Lontano da Odile (in Italia edito da nottetempo) che si presenta come un diario, sebbene non lo sia propriamente: non ci sono né date, né incipit diaristici. Eppure si tratta di una narrazione in prima persona, quasi priva di dialoghi, distaccata quanto razionale. Un monologo brechtiano, un’autoanalisi discontinua. Le prime pagine sono dedicate alla descrizione della convivenza coatta di Lucien con una mosca, inspiegabilmente longeva e impossibile da cacciare di casa o da eliminare in modo definitivo. Non rimane che fuggire in montagna, il più lontano possibile. Ma il ronzio rimane.
Il protagonista (un uomo senza amici, senza compagna e lavoro), immerso fino al collo nella melma della noia, ha perso contatto con la vita, ma anche con il tempo, con il passato, ovvero con la capacità di attribuire valore al proprio quotidiano. Il senso della vita di Lucien, infatti, non sembra aggrappato a nessuna immagine. Padrona incontrastata dei ricordi più recenti è solo la mosca. La sua è una vita non-vita che produce un ronzio destinato a non abbandonarlo mai.
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto a ogni gradino”. Eugenio Montale ha dedicato molte poesie e un’intera raccolta, Xenia, a Drusilla Tanzi, uno dei grandi amori della sua vita, diventata sua moglie nel 1962 e soprannominata Mosca per via degli occhiali spessi che indossava dovendo correggere una forte miopia. La Mosca è una presenza costante anche dopo la morte, forse ancor di più vivida nella sua assenza: nel suo non esserci richiama alla vita.
Le mosche della guerra di Mansfield e Woolf, al contrario, sono testimoni di un ridimensionamento – una irrimediabile trasformazione – dell’amore nell’animo dei personaggi. Il protagonista della Mosca, il racconto di Mansfield, davanti al ricordo del figlio perduto si rende conto di non riuscire a piangere; non riesce a provare quello che dovrebbe provare, è lì che cerca di rianimare la compassione che ci rende umani, ma non sente alcun movimento dentro di sé. Le vecchie sensazioni non ci sono più, al loro posto c’è una strana, inaspettata, alternanza tra sentimento e sadismo. Per un attimo, davanti alla mosca agonizzante, assume il punto di vista dell’insetto; la immagina chiedere aiuto, ne imita il grido disperato. La loda per il suo coraggio, come se fosse un piccolo soldato, usa la lingua della guerra; e poi la uccide. In questo magistrale racconto, non c’è solo il dramma di un uomo, ma di una generazione di adulti, corresponsabili della morte di un’intera generazione di giovani. Alla fine l’uomo prende il suo fazzoletto e se lo passa intorno al collo, non si ricorda più a cosa stava pensando. L’amnesia è la sua salvezza.
Nel racconto di Woolf è la protagonista a identificarsi con la mosca: lei lì a quella festa con la voglia di essere all’altezza di quegli invitati, ma la sensazione continua di sentirsi inferiore. Neanche i traguardi intellettuali rinforzano Lily, perché i traguardi intellettuali non vengono riconosciuti a una donna, e perché una donna non si sente legittimata a quei traguardi anche quando li ha raggiunti davvero. Non è un pensiero razionale, è più una sensazione. Woolf non fa un esplicito riferimento alla guerra, ma Lily è lì con una nuova visione della vita che travalica i valori patriarcali e i ruoli assegnati per genere. E’ una donna contemporanea, forte della sua necessità di autodeterminazione; ma davanti alla realtà, alla vita vera che sfila davanti ai suoi occhi, le sue certezze si rivelano inefficaci tanto quanto il volo cocciuto, instancabile e folle di una mosca.
T. H. Lawrence, che era amico sia di Virginia Woolf che di Katherine Mansfield, si affida a una mosca nel suo romanzo Canguro, a una mosca ideale. In un capitolo, Harriet e Richard tornano a casa dopo un giorno al mare. Il capitolo segue quello in cui Richard ha dovuto violentemente affrontare il trauma della guerra. In queste pagine l’atmosfera è più pacata, Richard legge il giornale, affonda nei suoi pensieri, cerca una spiegazione al non senso, alla follia umana, al suo stesso dolore e si sente una mosca. La mosca è lì a dire dello sguardo ironico dell’autore contro gli sforzi per trovare un senso all’esistenza.
Woolf, Lawrence, Mansfield come scrittori sentono l’esigenza di rappresentare le emozioni che si agitano nel cuore delle persone a qualche anno dalla distruzione che la guerra mondiale ha portato con sé. Scrivere significa raccontare cosa vuol dire essere umani, ma non si è umani sempre nello stesso modo. La Storia ci determina, e c’è bisogno di un’epifania. Mansfield lo chiamava “change of heart”. Come cambia il cuore davanti all’orrore e alla distruzione? Come cambia la vita di ognuno di noi anche nei momenti ordinari? Come ci riconosciamo ancora umani? Domande esistenziali e letterarie, mai come oggi attuali.
Intervista a Gabriele Lavia