Salvador Dalì, Spectre Du Soir Sur La Plage, 1935 

Elogio del  senso comune che ci tiene saldamente ancorati al mondo

Sergio Belardinelli

Una nozione tra le più controverse della filosofia e oggi ancora più polimorfo grazie alle tecnologie dell'informazione. Fin dall’inizio stigmatizzato come il luogo del pregiudizio che grazie alla scienza può e deve essere smascherato. 

 

Oggi e domani, l’Università degli Studi di Napoli Federico II ospiterà il IV Convegno Nazionale SISSC-Società scientifica italiana sociologia, cultura, comunicazione, dal titolo “Qualcosa è cambiato? La trasformazione dei saperi”, che si terrà presso il Dipartimento di Scienze Sociali (Vico Monte della Pietà, 1) e nella prestigiosa sede del Complesso dei SS. Marcellino e Festo (Largo San Marcellino, 10). Pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento di Sergio Belardinelli nella tavola rotonda d’apertura su “Senso comune, saperi istituzionali e controsaperi”.


 

In filosofia la nozione di senso comune è una delle nozioni più controverse, vuoi perché mutevole (il senso comune di oggi non è certo quello di ieri), vuoi perché ritenuta di ostacolo alla vera conoscenza. Tuttavia, anche a seguito della dinamica che oggi si è messa in modo tra saperi, controsaperi e pseudosaperi, il senso comune potrebbe riguadagnare una fondamentale centralità. A tal proposito vorrei prendere le mosse da una citazione dagli Analitici primi di Aristotele:

 
“Tocca all’esperienza – dice Aristotele – fornire i princìpi riguardanti i vari oggetti (della conoscenza scientifica). Intendo dire, cioè, che è l’esperienza astronomica, ad esempio, ciò che fornisce i princìpi della scienza astronomica, nel senso che, una volta stabiliti esaurientemente i fenomeni, si possono escogitare su questa base, le dimostrazioni astronomiche. E  così stanno le cose riguardo a qualsiasi altra scienza o arte”.

  
La frase aristotelica sembra semplice e lineare, ma in realtà è un abisso. Noi comunque stiamo in superficie. Ci viene detto in estrema sintesi che c’è un’esperienza della realtà (aliquid est avrebbero detto più tardi gli scolastici) che è originaria e sulla quale si basa ogni scienza e ogni sapere. Nella tradizione del pensiero classico aristotelico, il senso comune ha a che fare con questa fondamentale esperienza, ma oggi sappiamo che non è più così. Tra i saperi e l’esperienza comune c’è una frattura, un’estraniazione sempre più marcata. E su questo vorrei fare qualche considerazione. 

  
Già con Platone, e prima ancora con Parmenide, emerge una certa difficoltà a identificare il senso comune come una forma di sapere affidabile. Fin dall’inizio insomma, non certo a partire da oggi, il senso comune viene anche stigmatizzato come il luogo del pregiudizio che grazie alla scienza può e deve essere smascherato. Una linea di pensiero che troverà la sua espressione più radicale nel dubbio cartesiano e nella presunta assoluta certezza del “cogito ergo sum”. Come dirà Hannah Arendt, “L’alienazione dal mondo (…) e non l’alienazione da sé, come pensava Marx, è stata la caratteristica dell’età moderna”. Poi verranno le sociologie critiche, le quali, in aperto contrasto col mondo che abbiamo sotto i nostri occhi e la sua obbligante ovvietà, porranno l’accento sulle “realtà alternative” e quindi su qualcosa d’altro, possibilmente, come auspicavano i francofortesi, “totalmente altro”. Si potrebbe anche citare il ruolo svolto dalle epistemologie anarchiche del XX secolo. Ma soprattutto citerei le tecnologie dell’informazone. Grazie ad esse l’essere umano oggi è capace di vivere in molti ambienti paralleli e compresenti fra loro. Possiamo vivere l’ambiente reale in cui esistiamo fisicamente e, nel contempo, i molti ambienti virtuali ai quali le suddette tecnologie danno l’accesso. Ovvio quindi che, mentre i saperi umani si confrontano con saperi prodotti da macchine, anche il senso comune si stia facendo sempre più polimorfo.

 

L’importante, almeno per me, è che tutto questo non diventi pretesto per esaltare un radicale depotenziamento della realtà e dell’idea stessa che esista ancora qualcosa di comune. Credo infatti che più i saperi si differenziano tra loro, sia come saperi umani che come saperi prodotti da macchine, e più occorre fare in modo di sottrarli alla loro autoreferenzialità collegandoli al loro nucleo unificante: l’uomo e il mondo che tutti abitiamo… 

  
Qui ovviamente non è in gioco soltanto lo sganciamento dei saperi da un’idea di giustizia e di bene comune che rappresenti in qualche modo un criterio in base al quale discutere le conseguenze sociali del loro sviluppo; è in gioco la destrutturazione stessa della realtà e della verità, ridotte a semplici pretesti sui quali esercitare il nostro potere per diventarne “padroni”. Se dovessi dire la mia a proposito del senso comune, non lo difenderei tanto in quanto forma di sapere originario; è forse anche questo, ma non mi sembra l’aspetto decisivo. Sulla scorta di Hannah Arendt, lo difendere piuttosto come una sorta di sesto senso che ci tiene saldamente ancorati al mondo, a qualcosa che non dipende da noi, qualcosa che conosciamo sempre soltanto in parte, che possiamo sempre mettere in discussione come fanno le teorie critiche, ma non fino al punto di negarlo in toto, qualcosa che in qualche modo ci accomuna, ci rende partecipi di una medesima condizione umana con le sue inevitabili zone d’ombra e i suoi inevitabili veli d’ignoranza.

  
Già che siamo a Napoli, credo che Giovan Battista Vico ci dica una cosa molto importante in proposito: “Come la scienza nasce dalle cose vere e l’errore dalle false, così il senso comune si origina dalle verosimili, infatti sono quasi in una posizione di mezzo tra le vere e le false: così che quasi sempre sono vere, molto raramente false”. Il senso comune non come qualcosa che si oppone alla vera scienza, bensì come la piattaforma concreta, sociale, storica sulla quale la scienza si costruisce e attraverso cui può farsi prudente, vicina alla concretezza della vita, e quindi “umana”. Per certi versi, siamo già alla Lebenswelt di Alfred Schuetz e a quel sapere della “vita quotidiana” che per Berger e Luckmann “costituisce il tessuto dei significati senza il quale nessuna società potrebbe esistere”…

  
Se il senso comune ha a che fare col “tessuto dei significati senza il quale nessuna società potrebbe esistere”, è evidente che i diversi saperi hanno ciascuno una relazione particolare col senso comune. Ogni sapere richiede un’intermediazione particolare col senso comune, grazie alla quale potersi sedimentare nel senso comune e trasformarlo. Intermediazione che è tanto più importante quanto più i saperi si specializzano, allontanandosi inevitabilmente sempre più dal senso comune. Non si può pretendere infatti che l’uomo della strada abbia dimestichezza con la teoria della relatività o con la natura dei sofisticatissimi materiali di cui è fatto un telefonino e degli algoritmi che ci consentono di gestire miliardi di informazioni che nessun cervello umano sarebbe in grado di gestire. Non possiamo escludere, ad esempio, che la diffusione di macchine sempre più intelligenti, capaci di produrre a loro volta nuovi saperi, possa stravolgere la nostra convinzione di senso comune secondo la quale i saperi sono comunque e sempre saperi umani. Ma proprio per questo il problema di sottrarre i saperi alla loro autoreferenzialità diventa socialmente e umanamente rilevante, proprio per questo diventa rilevante il collegamento dei saperi con l’uomo e con la società, “col tessuto dei significati senza il quale nessuna società potrebbe esistere”. Il rischio è che si perda precisamente il senso della realtà e della verità e con esso anche la giusta comprensione dei saperi, a vantaggio di controsaperi che il più delle volte si basano soltanto su irresponsabili semplificazioni, facilitate anche, dobbiamo riconoscerlo, da certe inadeguatezze riguardo al modo di presentare i cosiddetti “saperi istituzionali”. La pandemia ci ha offerto in proposito innumerevoli esempi…

  
Il crescente carattere controintuitivo delle teorie scientifiche, che induce qualche epistemologo a parlare di scienza come “uncommon sense”, non significa che il senso comune può essere ormai soltanto di ostacolo al dispiegarsi dei diversi saperi; significa piuttosto la necessità, per la scienza e  per il senso comune, di tenere aperto un canale che consenta loro di illuminarsi reciprocamente, nella reciproca consapevolezza della loro diversità epistemologica. Voglio dire insomma che se è vero che la scienza si evolve smascherando spesso i pregiudizi del senso comune; è pur vero che altrettanto spesso quegli stessi pregiudizi si sono radicati anche con la complicità della scienza. Per non dire del fatto che, come recita un aforisma di Nicolás Gómez Dávila, qualche volta “sono proprio i pregiudizi che ci difendono dalle idee stupide”.

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