Lobbista o sottobraccista?

Dal Qatar al Transatlantico, che cos'è il mestiere del lobbista oggi? Intervista a Gianluca Comin 

Michele Masneri

Storia di un mestiere un tempo sulfureo ma oggi non più. Calenda come comunica? “Bene, dai, a parte quando gli parte il dito”. L’agenda di Giorgia? “Un’idea come un’altra”. Il Draghi silente

Tanti anni fa Nilde Iotti, presidente della Camera dei deputati, apostrofò piccata in Parlamento il Tg2 perché il giorno prima aveva mandato in onda un servizio dedicato ai lobbisti. Il servizio incriminato aveva osato sostenere che questa specie dannata frequentava con costanza il sacro suolo del Parlamento. Apriti cielo. Erano tempi rustici, il lobbista non osava ancora pronunciare il suo nome, era più che altro confuso con un faccendiere, o, per usare un bellissimo neologismo inventato dal deputato e giurista napoletano Gustavo Minervini, il lobbista era  il “sottobraccista”, perché prendeva sottobraccio deputati e senatori negli infiniti corridoi dei palazzi per convincerli a spingere una leggina, modificare un decreto, affossare un ddl…

  

Il mestiere del lobbista in Italia è stato sempre circonfuso da un alone sulfureo, il riferimento era Luigi Bisignani, gessati e zolfo e sorrisi obliqui. Come racconta Gianluca Sgueo in “Lobby e lobbismi”, i giornali narravano che i professionisti di questo misterioso mestiere tenessero in tasca uno speciale fazzoletto per asciugarle dopo aver stretto migliaia di mani, mani che si immagina sudatissime e pallide, stile “Il Divo”, o il più recente “Esterno notte”. E “lobby” è sempre un termine spregevole, spesso riferita a categorie nerborute che se la comandano, tipo balneari e tassisti anti-Pos (ma c’è anche la lobby dei caldarrostai e dei bancarellari. E tanti sono terrorizzati dalla lobby gay). E’ un mondo variegato quello dei lobbisti, c’è un’aristocrazia in cima alla cui piramide oggi sta Stefano Lucchini, capo relazioni istituzionali di Intesa, poi ci sono i lobbisti da diporto, in genere politici in disarmo. Lo fa l’ex ministro Angelino Alfano, si diceva che lo volesse fare pure Luigi Di Maio. Lo fa D’Alema, specializzato in paesi sudamericani. Renzi si è preso invece il Medioriente. I Cinquestelle li volevano vietare, i lobbisti, poi però accusavano il loro Casaleggio d’essere “schiavo delle lobby”. Vabbè. Però la cronaca di questi giorni mostra eurodeputati alle prese con mazzette e valigette di petrodollari e petro-eur provenienti dai più esotici emirati delle più losche lobby. In realtà i lobbisti nei parlamenti son sempre stati necessari. Già il presidente Kennedy sosteneva che “il lobbista mi fa capire in tre minuti quello che un mio collaboratore mi spiega in tre giorni”.  Oggi, tra traffico di influenze e influencer, il mondo è molto cambiato, in peggio, e il settore peraltro va benissimo, in meglio.

   

“Trovo incredibile che ancora oggi ci sono dei paesi che potrebbero usare professionisti e agenzie di livello mondiale e che invece usano ancora le valigette coi soldi. E’ stupefacente”, dice al Foglio, con riferimento al “Qatar gate”, Gianluca Comin, che ha fondato una delle più ricche società italiane di lobbying (ma oggi si dice “public affairs”). Nel servizio di copertina di Fortune Italia di questo mese dedicata a questo peculiare business, la sua Comin & partners è arrivata prima in classifica, realizzando oltre quattro milioni di euro di utili (per l’esattezza, 4.827.177 euro). Occupa una settantina di persone tra le sedi di Roma, Milano e Bruxelles. “Gli americani sono maestri del settore,  fanno il loro lavoro che è quello di convincere, minimizzando i rischi e valorizzando le opportunità”, dice Comin.  

 

Il far west però è in Italia. “Sono decenni che insisto che una legge è necessaria, come avviene in molti paesi e a Bruxelles. Una regolamentazione, un Albo, ci metterebbe nella condizione di distinguere i professionisti dai dilettanti. Oggi, se sei un bravo lobbista o meno, infatti, è il mercato a deciderlo. Ma ci sono in giro i soggetti più disparati. C’è gente che dice ‘ah, io ero a scuola col tale ministro, te lo presento io’”. E si fanno pagare. Ma a parte l’approccio goliardico, “questo lavoro non è fatto di presentazioni”, dice Comin. Niente mani sudate da stringere, insomma. “E’ fatto piuttosto di studio dei contesti, di capire dove si prendono le decisioni, di scrittura anche di provvedimenti”. "I decisori politici sono generalisti che si occupano di una serie di argomenti i più disparati, spesso non conoscono nello specifico la materia che trattano”. Insomma sta dicendo che i politici hanno bisogno di un maestro di sostegno? “No, ma nella complessità normativa unica di un paese come l’Italia il lobbista spesso può aiutare il politico a districarsi. A decodificare”. E nel districarsi e nella decodifica il lobbista fa gli interessi di un’azienda. “Serve a unire due interessi. Magari il tale politico non sa che la norma che sta varando porterà a cinquemila licenziamenti nel tale settore. Noi glielo facciamo presente, così sono contenti tutti, politico e azienda”. “D’Alema diceva, con una frase molto illuminante, che il dividendo delle aziende è il profitto, quello dei politici è il consenso. Noi mettiamo insieme le due cose”. Illuminante che il santo protettore dei lobbisti oggi sia proprio l’ex segretario del Pds. A proposito, si vocifera di una leggendaria chat di lobbisti italiani, capitanata da Claudio Velardi, ex braccio destro dalemiano e poi lobbista in proprio, in cui stanno dentro tutti, si chiama “Lobbisti per il mondo nuovo” (dal titolo vagamente massonico). Lei c’è? “Sì, ci sono, ma abbastanza silente”. 

 
Il lobbismo cambia come cambia il mondo, insomma, una volta c’erano le logge, oggi ci sono le chat. “Io ho voluto creare una società all’americana, in cui c’è il lobbying ma anche la comunicazione integrata”, dice Comin, cioè pubbliche relazioni, ufficio stampa, social, tutto quanto serve a un’azienda o a un politico o a chicchessia per fare bella figura. Dal Mose a Prada, dal Colosseo all’Esselunga, del resto, tutti si affidano a lui, il doge della comunicazione italiana. Veneziano, nato nel 1963, figlio di uno stampatore del Gazzettino, è specializzato soprattutto nella “comunicazione di crisi”. Ma che è mai la comunicazione di crisi? “Devi avere una capacità di reazione velocissima, in pochi minuti essere operativo; analizzare i fattori; avere la capacità di dare uno spin che arrivi prima degli altri”. Tra le crisi peggiori gestite? “Il ponte Morandi”. Come gestirebbe la crisi degli eurodeputati forse a libro paga del Qatar? “Mah, mi preoccuperei di più del Qatar stesso, che in questa vicenda esce, dal punto dell’immagine, molto negativamente”. Be’ certo, quelli hanno un sacco di soldi. Ma c’è qualche cliente che non accettereste mai? “I criminali, la mafia. Ma se un manager è accusato di qualche reato, i cosiddetti reati da colletti bianchi, sì”. 

 

E parlando di comunicazione, invece, chi è che comunica malissimo oggi? “Renzi. Ha sprecato il suo momento. E’ una persona che ha doti maggiori di quelle che le vengono riconosciute pubblicamente, ma nel periodo in cui era al governo ha perso una grande opportunità”. E Meloni? L’Agenda di Giorgia? Dopo l’agenda Draghi, sembra la pensata di un pubblicitario in acido. “E’ un’idea come un’altra. Le va dato atto che sta facendo un grande sforzo passando da una comunicazione di opposizione a una istituzionale. Eddai non mettermi contro il governo che ci devo lavorare!”. Ma questi politici non comunicano un po’ troppo? Tutti ‘sti tweet, post, e le micidiali “card”… “Draghi ci ha insegnato che il silenzio comunica più della parola. Però non puoi fermare il mondo. Puoi solo cavalcarlo”. Calenda? “Bene, dai, a parte quando gli parte il dito”. Il Papa? Sembrerebbe  un po’ confusionario. “No, lui comunica benissimo! E’ interessato alle masse di umili, mica a noi. E’ un modello”. Ah, ok, non siamo noi il target di riferimento.


Forse perché l’Italia, ma pure il mondo, è in crisi perenne, Comin è in espansione perenne ed è riuscito ad adattarsi a tutti i cambiamenti e le ondate. La società è stata fondata nel 2014, abbastanza casualmente, racconta al Foglio una dei soci, Elena Di Giovanni, “quando Comin uscì dall’Enel dove era responsabile della comunicazione e io uscivo dalla stessa esperienza all’Expo. All’inizio prendemmo una stanza nello studio legale Orrick, poi cominciarono ad arrivare i clienti, e i nuovi assunti, e tra noi e il fumo di sigaro toscano, che è la caratteristica principale di Comin, dopo un po’ ci cacciarono”. Il sigaro infatti è il tratto distintivo che preannuncia il gran lobbista-comunicatore, che compare tra le volute fumiganti del tabacco insieme ai gessati e alle cravatte di Hermès e alla parlata che tradisce la venezianità.   

 

Cronista parlamentare al Gazzettino, pare che il primo articolo che fece risale all’83/84 sul fondamentale tema: il trasferimento del mercato di frutta e verdura da Rialto a Tronchetto. Notizia di cui tutti i giovani giornalisti veneziani prima o poi si sono occupati (il mercato è ancora a Rialto. Tutto cambia, anche i lobbisti, tranne il mercato di Rialto). A Venezia faceva “l’abusivo” quindi quando entrava il direttore in redazione lui doveva uscire, racconta chi lo conosce da una vita. A Roma, va a fare il militare, ed essendo giornalista lo mettono all’ufficio stampa dell’Esercito, dove fa incontri fondamentali (Andrea Scarpa, Luigi Contu, il fotografo Antonio Parrinello). La mattina andava a via Venti Settembre e poi il pomeriggio in redazione. Giorgio Lago gli promise il praticantato e lo tenne a Roma, redazione in piazza San Silvestro. Poi primo salto di specie: va a fare il portavoce del veneziano e prodiano ministro Costa, ai Lavori Pubblici. Dopo due anni torna al giornalismo e lì “mi dicono: ‘la vacanza è finita’, mi trattano come se non avessi mai fatto un cazzo”, racconta. “Ma capisco che le notizie mi piace di più ispirarle che darle”. Quindi la decisione definitiva di tornare dal lato oscuro della forza, le aziende, nella Montedison di Enrico Bondi tagliatore di costi e di teste. “Io facevo il giornalista perché mi piaceva da morire, mio padre invece che era stato stampatore vedeva i giornalisti come una razza superiore, e quando andai alla Montedison ci rimase malissimo”, racconta lui. 


A Venezia è molto legato: è stato nel cda della Biennale, non perde occasione per andare alla Festa del cinema e alla mostra d’arte, ma soprattutto ha un passato rocchettaro: suonava da giovane nella band dei Dogi, tastiera e pianoforte elettrico in un gruppo di revival veneziano. 

 

A parte la Biennale poi l’arte contemporanea è la sua grande passione: i suoi uffici son sempre zeppi di opere e l’ultimo in piazza Santi Apostoli per conformazione sembra un piccolo Moma con le foto dei pretini di Giacomelli e di Tim Walker, oltre ai Pino Pinelli e alla poltrona Egg su cui alligna il Fox terrier Frida. Dopo Montedison, Comin passa a Telecom, sempre con Bondi, poi dodici anni all’Enel (l’ex ad Fulvio Conti è uno dei suoi legami più saldi, come l’altro ex numero uno, il veneto Paolo Scaroni), e poi quando finisce quell’esperienza la decisione di mettersi in proprio, abbastanza non comune. 

 

Gli altri partner oggi sono, oltre a Elena Di Giovanni, Giovanni Giansante, Lelio Alfonso, Federico Fabretti, che lo seguono nelle varie espansioni. Espansioni legate al talento, all’ambizione, alla fortuna anche, lo descrivono infatti come fortunatissimo, “più culo che anima” come si dice al Nord. Enorme capacità di adattamento ai tempi nuovi, per dire: dopo l’esperienza in Montedison, non essendo laureato, come tanti giornalisti di quella generazione, si mise sotto e in men che non si dica si prese la sua laurea in comunicazione, raccontano al Foglio. Oggi la insegna alla Luiss.

  

Casa al quartiere Coppedè, la moglie Daniela De Paoli, avvocato, romana, ne attutisce le spigolosità (Comin aveva carattere fumantino ed era celebre per le sfuriate, anche se col successo oggi dicono si sia addolcito); passione per la buona cucina, con cui lotta tra diete ferree e poi abbandoni. Due gemelli, Filippo ed Enrico, una figlia più piccola, Ginevra, che vivono tra Berlino e Londra e Roma. Uno dei due gemelli è fidanzato da anni con la figlia di Isabella Ferrari. Super trasversale, politicamente equidistante, ma comunque tendenza Ulivo-Pd, forse tentato dal calendismo, Comin ha un gruppo di amici abbastanza compatto tra cui il presidente della Biennale Roberto Cicutto col regista Piero Maccarinelli, Maite e Paolo Bulgari, la socia Elena Di Giovanni col marito super diplomatico Michele Valensise già segretario generale della Farnesina; questo è il “gruppo vacanze”, che generalmente sta in barca (Comin odia la spiaggia, ma ha casa a Talamone, dove tiene una celebrata festa di ferragosto orchestrata dall’altro grande amico Alberto De Sanctis detto “l’ultimo comunista”, formatore ma soprattutto maestro di barbecue. Poi ci sono l’architetto Carlo Lococo, la collezionista Flaminia Cerasi e la vedova di Mario Pirani Claudia Fellus).

  
Al mare ci va in barca, sul panfilo dei Bulgari oppure sul suo, a motore, poiché non è vittima del romanticismo della vela. Quando può corre in Toscana per i supertuscan e la caccia al cinghiale, sverna in Val d’Orcia a Radicofani ma si spinge col colossale Suv (ibrido) nella immancabile Capalbio. Senza però mettere piede in spiaggia, perché lì si sa che  si fanno soprattutto molte pubbliche relazioni e quindi gli toccherebbe stringere altre mani (sudate, molto sudate); oppure verrebbe addirittura preso, proprio lui, sottobraccio. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).