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L'utopico bisogno di eguaglianza assoluta sta assumendo le vesti di un inquietante destino dell'uomo. Un libro

Michele Silenzi

Nel nuovo paradigma in base al quale si misura il bene e l’accettabilità di ogni azione, prende forma il nuovo Assoluto: la vittima

L’idea che polemos sia padre di tutte le cose è sapienza antica quanto l’uomo che pensa. Polemos, ovviamente, non è soltanto la guerra. Polemos è anche la tensione conflittuale esistente in tutto ciò che ha vita a voler mostrarsi, a voler venire ad essere con fatica e dolore, dividendosi dall’originario indistinto attraverso un lento processo che porta ciascuno a individuarsi come essere cosciente di sé e di ciò che è intorno. Ci si apre così al mondo come individualità e, allo stesso tempo, come una sequenza di separazioni e unioni, di relazioni, di scambi che portano ciascuno a crescere, evolvere, determinarsi, e infine a scomparire per lasciare spazio ad altri e ad altro.

 

 

 Rifiutare questo processo fatto di conflitti distruttivi e creativi, doloroso come le doglie di un parto continuo, significa rifiutare il mondo, alienarsi da esso e ripiegarsi su di sé, pensando che il ripiegamento sia l’unica strategia che consenta di trovare una verità attraverso cui dar senso alla propria vita. Deprivati ormai però di qualsiasi fede o credenza religiosa, come pure di cornici sociali ed esistenziali stabili e autorevoli che consentano di accettare e dar senso a questa dinamica conflittuale, scopriamo che questa nuova verità si riduce alla ricerca del puro benessere psicofisico, che poi altro non è che il radicale rifiuto di ogni forma di dolore. Ma rifiutando il dolore, connaturato all’esperienza conflittuale, ci si sgancia dal mondo che è strutturalmente polemos. Emerge così una nuova forma di esistenza il cui paradigma è riassumibile nell’espressione “sento dunque sono”, un sentire che deve essere depurato da qualsiasi forma di sofferenza. La verità del sentire e dell’emozione si afferma in tal modo come l’unico orizzonte in cui l’agire trova il proprio senso, un agire il cui solo scopo è ridurre il dolore generato dal semplice fatto di stare al mondo.
Se la tendenza al ripiegamento può essere individuata in ogni epoca di crisi o di passaggio, la specificità del tempo attuale è data dalla percezione dell’esaurimento di ogni possibile prospettiva. Tutto sembra già superato, anche ciò che deve ancora venire a es- sere. Ogni cosa appare conosciuta prima ancora di esserlo. L’uomo “non ha più alcuna terra ove fissare la nostra dimora.

La nostra pretesa civiltà non ha alcuna stabilità, poiché si appoggia a situazioni e credenze ormai superate”. Dunque, adesso, quali idee? Quale ideologia? Quale utopia? Quale Dio? L’opposto del processo conflittuale, ossia del mondo come polemos, è ciò che si può chiamare processo di indifferenziazione. Esso ha come meta salvifica quella totalità indifferenziata da cui ogni essere emerge e in cui tutto si ridissolve eliminando per sempre la possibilità del dolore.
Il principio di indifferenziazione è fondato e durevole nell’uomo, si presenta come la manifestazione effettiva della tensione al dolce naufragare nel mare del tutto che è in ciascuno fin dall’inizio del pensare. Esso risuona da millenni nella nostra mente quando vengono meno la potenza dell’azione, dell’essere che si determina: è l’uomo che “si annega in un falso infinito perché non sopporta il ‘maledetto qui’”. Già molti secoli prima di Cristo, questo tipo di soluzione al dramma dell’esistenza si trova nella religiosità indiana. Viene puntualmente delineata nelle Upanisṣad, riprese, poi, a proprio modo, con influenze buddhiste, da Schopenhauer che identifica nel principio d’individuazione la radice di ogni dolore, ciò che alimenta nell’uomo la cieca potenza della volontà che tutto pervade, impedendo di tendere al compimento ascetico della noluntas, della salvezza trovata nella libertà del non-volere. Nel nostro tempo,

l’indifferenziazione emerge, invece, come forza sociale e politica globale. Non più come fiume carsico nichilistico o consolatorio, ma come soluzione. Si afferma infatti come bisogno di riconoscimento e di eguaglianza assoluti che si muove attraverso tre linee teoretiche e politiche: rifiuto delle diseguaglianze, teoria del gender, cambiamento climatico generato dall’uomo. Questa triade, nata da istanze positive, cioè dalla volontà di ridurre il disagio e la sofferenza di chi si sente discriminato, e da quella di preservare il nostro pianeta, viene a porsi come come cardine di un regime di verità e di una religione immanente il cui dogma è l’obbligo morale, che diviene anche politico, di sanare qualsiasi dolore e, soprattutto, di evitare qualsiasi azione possa generare dolore. Il bene e il male vengono quindi determinati a partire dall’intolleranza radicale verso il dolore, un’intolleranza che lo fa percepire come assoluta ingiustizia. Infatti, se non c’è nulla di ultramondano in cui credere, non è vero che tutto diviene lecito, ma, al contrario, nulla è lecito, perché ogni azione può portare dolore in quanto differenzia, sceglie, separa. Si stabilisce così il nuovo paradigma in base al quale misurare e decidere la bontà, la giustizia, l’accettabilità di ogni azione. In esso prende forma il nuovo Assoluto: la vittima, identificata con chi soffre per un qualsiasi motivo, sia esso psichico, fisico, spirituale, sociale.

Ogni azione, per propria natura, dice sì a una cosa e no a un’altra. Genera scelte, differenziazione, quindi dolore. Un mondo perfetto, il mondo senza dolore, è quello in cui non si dà divisione. Non a caso, molte forme del divino sono pensate come assoluta uguaglianza, come un Uno sempre identico a sé al di fuori del quale non si dà nulla, poiché esso è in tutto e omogeneo a tutto. Questa è la vita divina: condizione in cui non c’è divisione, distinzione, conflitto. Essa è ben descritta dal profeta Isaia quando scrive che, alla fine dei tempi, “il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue”. La conciliazione della contraddizione, il superamento definitivo delle differenze, è la fine dei tempi, la perfetta sovrapposizione tra legge di Dio e legge del mondo. Ogni cosa sarà infatti redenta, e Dio sarà tutto in tutti. Si raggiunge così la fine definitiva della storia, lo stato da cui non si riparte perché nulla può essere diviso.

Accade però che, perduto il divino, smarrito per sempre come ciò che è “totalmente altro”, la tensione verso l’indifferenziato si pone come l’utopica realizzazione mondana di una conciliazione salvifica nella quale, a spese della vita, si realizza sulla terra quella condizione di indifferenziazione un tempo localizzata nell’Altrove. Ciò che resta del divino appare in tal modo alternativo al darsi effettivo della vita umana, poiché la cultura, le civiltà, il regno dell’uomo, sono il frutto di separazioni, di distinzioni, di fratture. L’esistenza di una tensione verso l’indifferenziato che possa giungere a compimento conducendo l’ambiente umano verso una stasi omogeneizzata, un tutto indistinto in cui non c’è più conflitto, mostra che, trasposta in termini mondani, l’idea della fine della storia non è affatto peregrina. Tale espressione non indica qui niente altro che la fine del suo autore, l’uomo inteso come l’individuo che si autodetermina separandosi con il proprio agire dal tutto che è il mondo. La fine di questo individuo non coincide con la scomparsa dell’uomo ma, piuttosto, con la sua metamorfosi nell’abitante del nostro tempo: l’uomo indifferenziato.

Il testo che segue si propone di delineare i tratti salienti di questa tensione verso l’indifferenziato, cominciando dalla sua emersione, paradossale e forse necessaria, dal processo di razionalizzazione che ha portato allo sbalorditivo progresso economico, sociale e tecnico-scientifico degli ultimi secoli, che si è poi gradualmente trasformato nel proprio perfetto avversario. Si propone inoltre di mostrare come questa tensione sia emersa sotto le vesti di un bisogno di significazione e di redenzione immanente che si genera dalle ceneri di Dio, dal congedo da una ragione che ci è venuta a noia perché incapace di spiegare tutto, dalla riproposizione, in veste mondanizzata, dell’attesa escatologica del Regno dell’assoluta eguaglianza. Viene così in luce il fatto che l’indifferenziazione è il modo in cui si realizza ciò che si impone come il nuovo “Bene”, cioè la cancellazione del dolore, identificato come il “Male” attraverso le linee guida del nuovo regime di “Verità” che vede in ogni dolore un’ingiustizia da superare ad ogni costo. Questo obiettivo è raggiungibile solo demonizzando la sostanza stessa dell’azione, ossia il suo essere portatrice di squilibri, diseguaglianze, differenziazioni, distinzioni, quindi di dolore.

Si evidenzia, infine, come dal profilo culturale tracciato emerge il volto dell’uomo indifferenziato che, per timore di decidere, ossia per timore di soffrire o far soffrire, finisce per trasformarsi in un essere generico sociale all’interno di un mondo che tende a divenire, per dirla con Althusser, un processo senza soggetto. Dove non c’è più soggetto non c’è più dolore, ed appare così la Salvezza. Ciò è l’esatto opposto della vita, che si manifesta come realtà che si rinnova e si determina attraverso una dolorosa sequenza di individuazioni. La rilettura di alcuni classici, condotta secondo la prospettiva delineata in questa introduzione, sarà lo scudo dietro cui ripararmi, il bastone cui appoggiarmi, il propulsore di cui servirmi, per decifrare questo paesaggio culturale.
 

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