Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti

L'assurdo come sentimento limite di ogni società sviluppata

Michele Silenzi

L’uomo assurdo non può fare altro che tutto esaurire, ed esaurirsi

In economia, la definizione trappola del reddito medio descrive un paese che si trova bloccato in una certa fascia di reddito non riuscendo più a crescere oltre un determinato livello, a innovare, a creare nuovi mercati. E visto che tutto ciò che ha vita detesta l’immobilità, un tale paese rischia prima o poi di decadere o di sfaldarsi dall’interno. 

   
L’equivalente filosofico-esistenziale della trappola del reddito medio potrebbe essere il senso dell’assurdo così come l’ha delineato Albert Camus.

 

L’assurdo come sentimento-limite di ogni società sviluppata. Per Camus la condizione assurda è lo stato metafisico dell’uomo cosciente. La nostalgia di unità di un uomo che sente una separazione tra la sua esistenza e ogni possibile raggiungimento di senso in questo mondo tanto più quanto il mondo viene spiegato e sezionato dalla scienza attraverso la tecnica. E se la ragione non è in grado di andare oltre la coscienza della propria impotenza nel dare un senso alla vita umana, Dio tace. Nell’accettazione di questa doppia perdita, di Dio e della ragione, sta l’atteggiamento del saggio. Un saggio, l’uomo assurdo che prende coscienza della propria condizione, di tipo stoico, ma infinitamente attaccato alla vita, che trova la sua felicità nell’accettazione di questo destino senza piagnistei.

 

Una vita posta in un orizzonte umano troppo umano che non può indirizzarsi verso altro se non verso il “cuore”, l’arte, un certo edonismo e un po’ di cura verso il prossimo, una vita che duri, nonostante tutto, nonostante l’assurdità e le difficoltà della nostra condizione umana, il più a lungo possibile, perché il tempo della nostra vita è tutto il tempo che abbiamo.  

 

Camus dà forma a una peculiare metafisica dell’uomo, un ossimoro intellettuale, un inconciliabile, una rivolta evanescente. Una metafisica che dopo l’uomo trova solo l’uomo e che, quando tutti i processi esistenziali si saranno esauriti, non avrà più assolutamente niente in mano se non assenza di speranza (visto che la speranza implica un avvenire), indifferenza e attesa di una fine che non è più neppure attesa perché non c’è più nulla da attendere. L’uomo assurdo non può fare altro che tutto esaurire, ed esaurirsi.

  
Anche nell’augurale, poetico e metafisico sogno risolutivo nietzschiano dell’eterno ritorno, come unico modo per risignificare la vita nel momento in cui Dio è morto, ci ritroveremmo sempre e comunque a questo limite, all’assurdo dell’uomo che si trova di fronte a se stesso e, in coscienza, circondato da benessere, diritti e civiltà, non sa più dove andare.

  
Alla fine il dilemma rischia di essere sempre il medesimo, ma in modo crescentemente dirompente: tradizione o rivoluzione. Come tradizione, non si può immaginare in chiave reazionaria un ritorno a un qualche “prima”, oltre che impolverato letteralmente distrutto dall’abitudine di ciò che sappiamo. Tradizione, piuttosto, nel modo in cui Kojève pensava ai riti della società giapponese: una sorta di immobilità che ha a che fare con la formalizzazione del rito e quindi con la sospensione del tempo (ovvero un rito che vale per sé, come pura forma, spogliata da ogni contenuto che indica un’altra direzione di “salvezza”, come ricorsività cerimoniale del rito stesso, il suo porsi fuori dal tempo). L’alternativa, rivoluzionaria-faustiana, è la tensione hegeliana, tutta temporale e progressiva, verso l’Uomo-Dio.
    
Un’ulteriore possibilità, in realtà, pure c’è, meno filosofica delle altre due ma più concreta, ed è forse quella verso cui siamo in cammino, di cui possiamo intravedere i primi gioiosi tratti: la dissoluzione di qualsiasi volontà, ovvero di qualsiasi azione umana e di qualsiasi individualità, nella totale indistinzione. Bisognerebbe allora parlare di ecologismo e gender theory, ma questo è un altro discorso. 
 

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