Foto Ansa

Il Foglio del weekend

Ricchi e fricchettoni

Michele Masneri

C’è chi si fa da sé, chi insegue i blasoni, e chi va all’aperitivo in elicottero. Indagine sulle classi alte italiane: un libro

L’ascensore sociale, in Italia, non è che abbia mai funzionato molto. Nel film più bello mai fatto sui ricchi italiani, “Il vedovo”, Alberto Sordi, imprenditore fallito romano, le prova tutte per emanciparsi dalla moglie Elvira (Franca Valeri), invece valente capitalista milanese che lo chiama “cretinetti”. Fallisce come costruttore di ascensori, allora progetta di farla fuori, in un incidente d’ascensore. 

  

In generale siamo sempre sospettosi su chi fa i soldi, e anche per questo preferiamo chi non li ha, o chi li ha da sempre. Una ricerca di qualche università americana qualche tempo fa prendeva in esame le cinque famiglie più ricche di Firenze nel Millecinquecento e si scopriva che erano le stesse di oggi. Le polemiche sul guadagnare, in Italia, sono sempre lì, tra senso di colpa e cafonaggine che sembra il contraltare obbligato, l’unica vera tassa da pagare. Uno dei self made men italiani di massimo successo, Flavio Briatore, è ormai protagonista quotidiano delle cronache estive, tra pizze “alto di gamma”, nomine bizzarre (il figlio dodicenne Nathan Falco già “ceo” di qualcosa)  e dichiarazioni sgangherate – “i poveri non hanno mai creato nulla” – come se fosse ben consapevole che essere tamarri è appunto il prezzo da pagare, per essere accettati come ricchi in Italia. 

 

In generale siamo sempre sospettosi in Italia su chi fa i soldi, e anche per questo preferiamo chi non li ha, o chi li ha da sempre    

 

Nella commedia all’italiana c’è sempre un povero che tenta di cambiare classe, di diventare ricco, e viene sempre punito, tra le risate, e fatto tornare al suo stato iniziale (Sordi nel “Conte Max”, o in “Una vita difficile”, Gassman nel “Sorpasso”, ecc.).

 

Così i ricchi si nascondono. O si nascondevano. Ma poi cos’è un ricco italiano? Quando qualcuno propone una patrimoniale sui ricconi, dopo violentissime polemiche contro il neoliberismo, salta fuori che la soglia per entrare in questo paradiso sibaritico sono quattromila euro al mese. 

  

Se si guardano le dichiarazioni dei redditi, poi, tre quarti del paese vive in povertà, eppure, signora mia, non si sono mai viste così tante Jaguar e Mercedes e vacanze lunghissime. Così si è deciso di indagare, senza pretese di scientificità, questo mondo dei ricchi, vecchi, nuovi, chi sono e cosa fanno, in un libretto che raccoglie alcune delle Dinastie già apparse qui sul Foglio ma poi aggiornate e riviste, e altre invece nuove. Inseguendo un po’ quei libroni che andavano di moda negli innocenti anni Ottanta, “Dinastie” di Enzo Biagi, appunto, cose così. Qui le famiglie e famigliole indagate sono divise per città: a Milano i Prada, i Moratti, i Ferragnez, i meno ricchi ma ugualmente rilevanti Boeri. Poi, a Roma, città dove la borghesia non è che si sia mai espressa tantissimo, abbiamo i Malagò, i Calenda, una vera dinastia, i Ludovisi già principi di Piombino (chissà oggi col rigassificatore) e il massimo stilista romano-globale odierno, Alessandro Michele, che fa dinastia a sé. A Torino ci sono ovviamente gli Elkann e i De Benedetti. E poi una specie di sterminata provincia globale, fatta di Silvio Scaglia che passa dalla fama al carcere a una serie Netflix con la moglie ormai ex Julia Haart; i Panini delle figurine modenesi; i Beretta delle pistole, gli Agnelli quelli delle pentole, che non nutrono alcun complesso verso gli omonimi torinesi ormai trasformati in Elkann. 

 

Insomma un viaggio tra i ricchi italiani, cosa fanno, che case abitano, cosa mangiano, che dicono, se dicono qualcosa. Intanto qui si cerca di mettere insieme delle “linee”, delle “tendenze”, una specie di rapporto Kinsey (dei poveri, ovviamente). 


Sicuramente un primo aspetto che salta all’occhio è che rispetto al passato oggi sembra finita qualunque divisione in classi. Sembra. A partire dagli strati più alti, l’aristocrazia fa sorridere, e nessun finanziere o banchiere o anche imprenditore di provincia vorrebbe che sua figlia finisse impalmata dal visconte col castello impolverato o dal marchese coi tic atavici dovuti agli incroci frequenti tra consanguinei. I ricchi si sposano sempre più tra di loro; cambiano anche i luoghi di ritrovo, e se magari trent’anni fa alle cacce e ai matrimoni si creavano delle occasioni, oggi il luogo di incontro pare soprattutto l’università, che è, al 100 per cento, estera. Se vi capita di andare a cena in qualche magione appena un po’ “su”, la conversazione verterà esclusivamente su come si trova il rampollo o la rampolla nel suo “dorm” a Yale, Princeton, Brown, e c’è sempre una mamma molto liquida italiana che prende su per andare a consolare il figlio in crisi per un amore fallimentare magari con una compagna di corso (mai per un esame, però. Inopinatamente questi rampolli nelle università americane in genere severissime vanno sempre benissimo). Lì la divisione in classi fintamente disattesa salta fuori in tutta la sua virulenza, perché il povero o non povero anche parlante bene inglese (anche il figlio di marchese non liquido) col cavolo che potrà affrontare le micidiali rette. Ma, una volta assicurati contro il declino del sistema paese (un figlio mandato a studiare in America “di default” non è un clamoroso “short” contro la povera Italia?), i genitori ricchissimi o solo ricchi generalmente subiscono una specie di mutazione. E’ come se, assicurata la prosecuzione ad alto livello della specie, si rilassino e si abbandonino agli istinti più primordiali. In particolare i social. I social delle classi alte sono un tema pazzesco. Più si va su, più si guarda giù per ispirarsi. 
 

Ormai è tutto un inseguire, se fossimo nella moda si direbbe lo street style. Non solo il ricco non guarda più all’aristocrazia per trovare modelli cui ispirarsi, ma ben volentieri guarda in giù, annoiato, felice di mischiarsi con quello che fa la maggioranza. Un “format” molto amato dall’aristocrazia e dall’alta borghesia, il necrologio, per esempio, è oramai imploso e completamente disintermediato. Una volta, posto che sui giornali si dovesse andare due volte, quando si nasceva e quando si moriva (l’inferno in terra, secondo i canoni di oggi), il primo caso non riguarda più nessuno, si preferisce una bella foto col bebé, il prima possibile, volentieri anche l’ecografia e l’amniocentesi del nascituro che non saprà di trovarsi in un Truman Show de noantri. Ma nascere ricchi oggi  è già problematico, come sanno bene quelle mamme abbienti che prenotano la suite al San Raffaele, bisogna fare poi molta attenzione perché venendo al mondo in una certa ala della maternità dell’illustre ospedale milanese si risulterà poi nati a Segrate, e niente al mondo ve lo toglierà dai documenti. 

 

Per il fine-vita, invece, è tutto un variare su forme che tirino fuori l’ego non del defunto ma del vivente. Chi ancora sceglie la formula del cordoglio dei giornali non sa di contribuire a mantenere in vita uno dei pochi cespiti profittevoli per il mondo della carta stampata. E certo in occasione di morenti grandiosi, come Gian Marco Moratti, si arrivò all’overbooking necrologico; ma ormai molto più ambito, immediato, è il selfie col defunto, lo si è visto in occasione di morti recenti, da Raffaella Carrà a Eugenio Scalfari a Piero Angela; appena il defunto decede, è una corsa ad accaparrarsi il prezioso reperto foto o cinematografico, in cui possibilmente si sia venuti bene, si sia riconoscibili, poco importa che il de cuius abbia un occhio chiuso o la mascella pendula o abbia una macchia sulla cravatta. L’importante siamo noi, i vivi. Anche qui, come direbbero nella Silicon Valley o a Milano, il sistema è “scalabile”, cioè ognuno ha un selfie col defunto meglio dell’altro; e in occasione della morte della regina Elisabetta, è chiaro, la finta mancanza di divisione in classi sociali viene meno. Se una foto con Raffa è (quasi) alla portata di tutti, quando l’avete incontrata per strada o in un camerino Rai o al supermercato, quella con la Regina è difficoltosa. Ma nulla vieta al postante di rango di mostrarla. Ecco allora ambasciatori, politici e non. Pasquale Terracciano, già ambasciatore a Londra, oggi direttore generale della nuova Direzione generale per la diplomazia pubblica e culturale italiana, posta una bellissima foto di lui che consegna le lettere credenziali alla sovrana (quando un ambasciatore prende posto, si consegnano appunto al capo di Stato, che da qualche parte è ancora un monarca). E che fai, non la tuitti? La “caption” o didascalia: “con la Regina Elisabetta scompare una figura impareggiabile. Profondo cordoglio a tutti gli amici britannici. E’ stato un privilegio conoscere un grande Capo di Stato. La personificazione del #softpower”. Più su ancora ecco Carla Bruni che immediatamente posta foto e video del già leggendario viaggio di lei e del presidenziale marito coi suoi “plongeon” o “curtsy” perfetti imparati probabilmente a Torino. Poi c’è chi non avendo – maledizione – selfie col defunto posta solo frasi sapienziali, e certo se Mick Jagger ne ha ben donde, e ne avrà decine, di foto reali, preferisce una frase: “Per tutta la mia vita, lei c’era, quando ero piccolo ricordo il suo matrimonio in tv; poi la ricordo bellissima madre, poi nonna della nazione. La mia più profonda partecipazione alla famiglia reale”; già ma non tutti possono, allora Beppe Sala posta foto reali e la scritta: “Un ricordo da un tuo ammiratore”. Lo scavalca il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano: “la Regione Puglia rende omaggio alla Regina Elisabetta ed è vicina ai suoi familiari, al popolo del Regno Unito e del Commonwealth”. Pure del Commonwealth!

   

Poi per carità non ci sono solo utilizzi di abitudini delle classi “basse”, qualcuno delle classi alte volentieri adotta usi e costumi un tempo dei super ricchi, ma generalmente non lo vuole far sapere, oppure quando si scopre non va tanto bene. Così, nello scorso fine settimana a Cernobbio, allo storico raduno Ambrosetti dove un tempo si riuniva il fior fiore dell’industria italiana, tra stormire di elicotteri di Agnelli e Berlusconi e tanti altri, i più anziani partecipanti compiangevano quei tempi, alla vista dell’eliporto deserto, mentre l’hotel Villa D’Este che ospita da sempre l’eventone offre sul suo sito possibili tour del lago di Como, magari per andare a prendere aperitivini come poi Chiara Ferragni. Ed era probabilmente lei su un elicottero rosso che planava sulle teste delle securities di vari paesi lì assiepate a compiangere il passato, quando guardando in su dicevano: “Ma il protocollo non prevede elicotteri”, un po’ commossi per i velivoli che li riportavano ai fasti del passato. Dunque, era forse l’influencer in volo verso il suo prosecchino in quota – è stata criticata, proprio in un momento in cui in questa campagna elettorale sgangherata che si avvia finalmente verso la fine irrompeva la sgangheratissima polemica sull’uso degli aerei privati. La proposta, di abolirli, è di Nicola Fratoianni (e di chi, sennò). Per il segretario di Sinistra italiana, il singolo volo di un jet privato che normalmente dura poche ore “inquina quanto tutti gli spostamenti di quattro persone in un anno”. Luigi Marattin, di Italia Viva, precisa che sono solo 133 i jet privati registrati in Italia. Ma Fratoianni va avanti: “Li usano per andare a fare l’aperitivo”, e forse è l’unica volta che ha azzeccato una previsione, o forse è lo spin doctor segreto dei Ferragnez, perché una settimana dopo i suddetti Ferragnez hanno preso non l’aereo ma l’elicottero proprio per fare l’aperitivo (o sarà stato addirittura apericena?).

 

I Ferragnez, si sa, sono la nostra informale Royal Family, essendo all’apice di un sistema di classi che sono ormai social, non sociali. Ma se loro sono i nostri Reali, sotto si pone tutta un’aristocrazia, e poi valvassori e valvassini, e poi borghesia, grande e piccola, che li imita. Le contaminazioni sono a volte spassose. Certo c’è il caso di scuola di Gianluca Vacchi, che in un sistema normale avrebbe consolidato il suo ruolo di gran borghese, in altri tempi addirittura con un matrimonio dinastico. Venendo da una famiglia di solidissime sostanze, con aereo di proprietà e molta sobrietà, i Vacchi di Bologna, invece il rampollo ha gettato alle ortiche tutto per trasformarsi in un fenomeno instagrammatico da social coi suoi balletti, in cui coinvolge volentieri anche il personale di casa, con domestici, filippini e non, schierati come coreografie di Milleluci. Il problema del dirazzare, un tempo, atterriva vecchie mamme preoccupate per la presentabilità futura della stirpe, anche se loro stesse magari avevano dirazzato non poco, e con profitto (allora diventavano le più feroci conservatrici della purezza della stirpe). L’incubo a un certo punto divenne: “Sposerà un calciatore”, detto di figlie magari tirate su nei migliori collegi svizzeri o veneti (poi, con l’evolversi del calciomercato, degli ingaggi e delle estetiche, l’incubo è diventato sogno). 

 

La finta mancanza di divisioni in classi sociali salta quando si mandano i figli all’università. Tutti in America (e i genitori, sui social)     

 

Ma se il caso di Vacchi rappresenta un esempio abbastanza classico di abbassamento percepito, ce ne sono altri più di nicchia ma non meno interessanti come le nobildonne sui social, in particolare anziane. La più clamorosa è Christine Camerana, scicchissima vegliarda che dal suo balcone di Gstaad non perde occasione per danzare a ritmi rock, ormai un classico e finita tra il catalogo delle damigelle di “Le più affascinanti di Milano”. Affascinante è anche Umberta Gnutti Beretta, che ha un capitolo dedicato nel nostro libretto, discendente di due prosapie abbientissime bresciane, gli Gnutti dell’acciaio e i Beretta della Beretta, dinastia risalente al Cinquecento, villa neogotica a Gardone Valtrompia e appunto isola privata nel lago (già monastero).  Seimila dipendenti, 1,5 miliardi di fatturato (si è appena comprata una concorrente svizzera), per anni la Beretta ha rappresentato l’understatement bresciano, quello dei Bazoli, dei Montini e di altre prosapie, magari floridissime che si imponevano però vite al limite del masochismo forse per espiare le enormi fortune (ma Beppe Sala, il sindaco più instagrammatico d’Italia, ha documentato su Instagram ai primi di settembre il trasloco dal suo appartamento di single e il trasferimento a casa della fidanzata Chiara Bazoli con una frase semplice, secca, così: “adieu”). 

 

C’è poi Carlo Gussalli Beretta, belloccione con l’aria da attore losangelino, da personaggio di Bret Easton Ellis, occhio d’acciaio, che scorrazza, con una pistola Beretta tatuata, sui social e sulle riviste di gossip. Lo si vede sempre con modelle e modelline, influencer e starlette, da Dayane Mello a Giulia De Lellis, che il nostro insegue a Dubai, a St. Moritz, al Forte, con tutto l’armamentario di questa speciale classe sociale, i rich kids che sono anche un po’ influencer (150 mila followers). Dunque Mercedes Serie G almeno opaca, yacht normali e super, valigie monogrammate o leopardate, ciabatte con pelo inestimabili. E poi un touch identitario, una mitraglietta e via. 
 

Un altro che ha completamente stravolto i canoni classici, la morfologia della fiaba dei ricchi è Silvio Scaglia, una storia da fiction (l’hanno fatta, ma in quella lui è solo co-protagonista). Lui, infanzia molto normale, prima di inventarsi Fastweb che lo renderà uno dei pochi billionaire italiani, sposa una compagna di scuola, e lì infanzie come si diceva micidiali zaino in spalla. Poi viene arrestato per errore, va in carcere, in una assurda vicenda giudiziaria. Quando esce non è più lui. Sposa l’ebrea americana Julia Haart, le compra l’agenzia di modelle Elite e il brand di intimo La perla, comincia a viaggiare solo su aerei privati, vacanze a Miami, eccetera. Lei fa una serie Netflix su se stessa (“My Unorthodox Life”) in cui si dice scappata da una comunità talmudica severissima, si pone a simbolo di femminismo ecc. mentre lui sembra nascondersi tra le tappezzerie, poi finirà malissimo: la solita maledizione di chi si è fatto da sé, in Italia.

 


  

In libreria e negli store online da martedì 13 settembre “Dinastie”, il nuovo libro di Michele Masneri (Rizzoli, 192 pp., 17 euro). “Da Prada ai Ferragnez, ritratti della vera nobilità italiana. Quella senza blasone” il sottotitolo. Un viaggio alla scoperta dei ricchi vecchi e nuovi. Una parte di questi testi, ora sostanzialmente riscritti, è apparsa per la prima volta sul Foglio.

Di più su questi argomenti:
  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).