(Foto di Ansa) 

Whitman e Dostoevskij, una prospettiva speculare sulla viziosa Europa

Alfonso Berardinelli

I massimi universalisti letterari di Russia e America nonostante le diversità sono stati entrambi "scrittori di frontiera". Hanno cercato di capire e rappresentare il presente, cosa che, secondo loro, l'occidente non riusciva più a fare

Sia gli americani che i russi si sono presto messi in testa, entrando da giganti nel mondo moderno, di essere i “salvatori del mondo”, cioè una guida necessaria per ogni altro popolo. Ebbero però subito a che fare, per prima cosa, con l’impero inglese esteso, fuori dall’Europa, in tutte le zone del pianeta, dal Canada all’Australia, dall’India all’Africa. E hanno ereditato la mentalità imperiale dagli inglesi, i quali a loro volta cercavano di ragionare come i Romani antichi: “Parcere subiectis et debellare superbos”, non far male a chi si sottomette ma debellare i superbi riottosi (Virgilio). E anche: “Fecisti patriam diversis gentibus unam”, di molti popoli hai fatto una sola patria (Rutilio Namaziano). Un vero guaio universale, anzi universalistico: il che nobilita qualunque espansione del potere da una nazione più forte ad altre più deboli.


Storia lunga ma con un passato recente e tipicamente novecentesco, nel corso del quale l’impero inglese si è indebolito e frantumato e l’intero continente europeo ha perso le sue colonie, dopo il catastrofico delirio imperiale tedesco che sognò per un momento di colonizzare in Europa sia gli “inferiori” slavi che i “superbi” francesi (si dice che Hitler abbia differito o evitato l’invasione dell’Inghilterra perché la sentiva maestra).

 

So per esperienza personale che la generazione italiana dei nati negli anni Quaranta si è sentita poco italiana perché dopo il fascismo l’Italia sconfitta quasi non esisteva se confrontata con i due contendenti mondiali che erano l’America e la Russia. E’ nata allora quell’alienazione, non solo italiana, che ci rende schizoidi e ci fa idolatrare da colonizzati gli Stati Uniti salvo scoprire poi di odiarli immaginando che la Russia sia stata, dal 1917 in poi, l’alternativa a un impero difettosamente imperiale come l’America, che ci domina soprattutto facendoci sentire americani senza però capire gli americani: Ok e Wow!


Questo prologo macropolitico è ingannevole, benché ovvio e necessario, perché sto leggendo due piccoli libri dedicati a quelli che forse sono i massimi universalisti letterari di Russia e America, voglio dire Whitman e Dostoevskij. Tutti e due avevano in testa l’Europa come presupposto da cui imparare, da cui allontanarsi e soprattutto, alla fine, da superare. Entrambi vedevano l’uomo europeo come non più degno del presente e del futuro, come inadeguato, infido e insufficientemente umano sia come essere sociale ingeneroso e iniquo che come artista letterario troppo raffinato per essere in sintonia con il popolo. Nessun’altra cultura nazionale è stata così fideisticamente e orgogliosamente populista come quella americana e quella russa, fonti ispiratrici di un Mondo Nuovo che la viziosa Europa occidentale era incapace di concepire. 


Scrittori peraltro opposti, Whitman e Dostoevskij: espressione della vita sana e della virtù democratica il primo, analista e diagnostico della vita malata, del vizio antiumano e omicida il secondo. 
L’editore De Piante ha pubblicato una raccolta di interviste a Whitman (questo il titolo: Non esiste diavolo peggiore dell’uomo, pp. 238, euro 20), mentre per Amos Edizioni è uscito un saggio dello slavista e filosofo russo Vladimir Kantor intitolato Dostoevskij in dialogo con l’Occidente (pp. 152, euro 15). I due grandi classici sono entrambi considerati “scrittori di frontiera” nel senso, soprattutto, che hanno ragionato in vista del superamento del confine che sentivano di avere dentro e di dover varcare fuori (le frontiere del West e della Siberia); e il confine con l’Europa, che era presente tanto nella New York di Whitman che nella Pietroburgo di Dostoevskij. 


Quasi coetanei (Whitman nato nel 1819, Dostoevskij nel 1821) i due sono opposti per genere letterario e per temperamento. La poesia epico-individualista di Whitman dilata l’io dell’autore in una forma di estroversione sconfinata (un io che si sente massa popolare). Il romanzo psicosociale e ideologico di Dostoevskij tocca invece il culmine dell’introspezione raggiunto dalla narrativa occidentale. In tutti e due i casi la posta in gioco era saper capire e rappresentare il presente, cosa che l’Europa, secondo loro, non riusciva più a fare e che ormai sembrava sfuggire alla sua cultura: il vero genio moderno solo i russi e gli americani sarebbero stati capaci di sintetizzarlo. Il che significa universalismo di una umanità nuova e futura, americana o russa, che finalmente contenesse e riassumesse tutte le altre presenti nella storia: qualcosa come una nuova Roma sia imperiale che cattolica, dotata di una ferma fede religiosa nel potere salvifico della propria illimitata espansione. 


Quando nel suo Diario di uno scrittore Dostoevskij parla di Pushkin, padre della letteratura russa, una tale idea prende corpo nel modo più esplicito: “Lo affermo categoricamente, non c’è stato un altro poeta che abbia avuto la stessa rispondenza mondiale come Pushkin; e poi non si tratta soltanto della sua rispondenza mondiale, ma della sua sorprendente profondità, della capacità del suo spirito di fare proprio lo spirito dei popoli stranieri e reincarnarli in sé quasi perfettamente. In nessun luogo, in nessun poeta del mondo si è ripetuto un simile fenomeno (…) sì, la missione dell’uomo è incontestabilmente paneuropea e universale. Diventare un vero russo, diventare completamente russo, forse, significa soltanto (infine, notate bene questo) diventare fratello di tutti gli uomini, uomo universale, se volete”. Senza trascurare che “mai un poeta russo, né prima né dopo Pushkin, si è unito come lui così intimamente, cuore e sangue, con il suo popolo”. Universalità del popolo russo, o russificazione degli altri popoli? Quando dalla poesia si passa alla politica, succede spesso qualcosa di losco.


E ora sentiamo Whitman: “Penso che il Canada, Cuba e il Messico graviteranno verso di noi. Potremmo conquistare il mondo intero, se fosse il caso, ma non è così. Non c’è pericolo nell’espansione (…) La grandezza e vitalità americana sono nel nostro popolo e non certo nell’aristocrazia, come nel Vecchio Mondo (…) Altre nazioni contano sulla vitalità dei pochi, di una classe, mentre in noi è nel popolo”. E infine: “Credo nel darwinismo e nell’evoluzionismo dalla A alla Z. Per soddisfarmi ci deve essere una convergenza tra la scienza moderna e una teologia più nobile e più profonda di qualsiasi altra mai esistita in passato (…) Non penso che l’America e questa epoca si rendano conto delle proprie ineguagliate virtù, pressoché vicine alla perfezione”.