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Ci stiamo arroccando su una lingua incapace di tradurre alcunché

Sergio Belardinelli

Ogni uomo (un po’ come ogni cultura) è unico e irripetibile, ma non si realizza in solitudine. Ma invece che riporre nell'incontro con l'altro l'arricchimento, ci stiamo abituando a un'idioma piatta e superficiale

A partire dai totem, le maschere arcaiche, fino al concetto greco di “theoria”, l’uomo ha imparato a prendere le distanze da se stesso, a guardarsi, a mettersi al posto dell’altro, a decentrarsi da sé e dal mondo; ha scoperto insomma quella che il biologo Helmuth Plessner ha definito la sua “eccentricità”, la sua trascendenza, l’irriducibilità alle condizioni materiali e culturali della sua esistenza. Si tratta di una caratteristica antropologica che trova forse nella cultura europea il suo livello di consapevolezza più alto, ma che interessa tutti gli uomini, rendendoli per questo animali culturali. Non vi sarebbe cultura, se l’uomo non potesse mettersi a distanza dalla realtà e da se stesso, se, unitamente alla sua dipendenza dalla realtà, non potesse vedere le cose in universale e se stesso come dipendente e indipendente, quindi libero, rispetto alla realtà. 


E’ grazie a questo trascendersi che l’uomo incontra l’alterità come suo elemento costitutivo; scopre non soltanto l’alterità degli altri e del mondo in cui vive, ma anche quella di se stesso. D’altra parte veniamo al mondo senza averlo chiesto, portiamo un nome che altri hanno scelto per noi, parliamo una lingua che impariamo dagli altri e che conosciamo soltanto per sentito dire, la hegeliana dialettica del riconoscimento ci dice che ci specchiamo continuamente negli occhi degli altri. In questa condizione è assai difficile essere compiutamente presso se stessi. A nessuno di noi è data la completa trasparenza del nostro io, dei nostri modi di comunicare, della cultura nella quale viviamo. Di conseguenza, checché ne dicano gli adoratori dell’identità culturale, nessuno di noi appartiene completamente alla propria cultura. L’alterità è in qualche modo dentro di noi, non fuori.


Questa consapevolezza può portare con sé una certa inquietudine, spingere a troppo facili conciliazioni o addirittura a pericolose forme di assimilazione, ma costituisce in ogni caso il presupposto della nostra “apertura”. La natura umana è plastica, non è rigida come la natura degli altri esseri viventi. Ogni uomo (un po’ come ogni cultura) è unico e irripetibile, ma il nostro telos non si realizza in solitudine; ha bisogno degli altri; dipende dagli altri e dalla nostra libertà. E’ questo il principio antropologico universale che sta alla base dell’identità europea, che ha consentito all’Europa di inglobare gli elementi culturali più disparati e di pensarsi, non come una realtà geografica o etnocentrica, bensì intrinsecamente plurale. Non a caso, indebolitosi questo principio, sembra che in molte parti d’Europa sia diventato difficile anche il riconoscimento del valore della pluralità, ridotta ora a relativismo, ora a un pericolo da combattere in nome di un’astratta unità del popolo o della nazione. Anziché riporre nell’incontro con l’altro la vera condizione che rende possibile l’arricchimento di se stessi, ci stiamo arroccando su una lingua, incapace di tradurre alcunché. D’altra parte che cosa c’è da tradurre in una lingua che si va facendo sempre più piatta e superficiale, espellendo tutto ciò che non è politicamente corretto come un’estraneità che non merita alcuna comprensione? 


A questo punto è persino inutile precisare che sono le lingue vive a sentire più forte il bisogno di comprendere e di tradurre. Lo stesso vale per le culture. Sono le culture vive che sentono di più il contrasto con la diversità e sono quindi più impegnate a una sorta di continua ridefinizione di se stesse. Ciò è riscontrabile sia a proposito delle diversità “interne” alla stessa cultura, sia a proposito di quelle “esterne” provenienti da culture differenti. In entrambi i casi si tratta in ultimo di mettere in atto procedure di comprensione-traduzione, che rendono quanto mai plausibile, come vado dicendo e scrivendo da molti anni, l’assunzione della traduzione linguistica come modello di dialogo intra e interculturale. Pur senza identificare la cultura con la lingua (la cultura è molto di più), dire che l’uomo è un animale culturale equivale anche a dire che è un animale linguistico; cultura e lingua esprimono entrambe una natura, quella umana, caratterizzata da trascendenza e “unicità”. Il fatto che esista una innumerevole pluralità di culture e di lingue assai diverse tra loro rappresenta forse l’espressione più emblematica dell’individualità umana, la riprova dell’unicità irripetibile di ciascuno di noi, del fatto che non esistono due esseri umani uno identico all’altro. 


In quanto animali linguistici, siamo sempre proiettati oltre noi stessi. Per questo l’universalità umana si dà sempre in una pluralità di forme linguistiche e culturali storicamente determinate; per questo le lingue e le culture cambiano continuamente nel loro tentativo di concettualizzare e di venire a capo dell’infinita ricchezza del mondo; per questo, infine, ogni forma culturale porta con sé il principio della sua comunicazione universale. Pur con tutte le differenze e incomprensioni, nessuna differenza tra la propria lingua e quella altrui (anche di chi parla la stessa lingua) potrà mai considerarsi in linea di principio incolmabile, se non addirittura un pretesto per chiuderci nel nostro “particulare”. Vale piuttosto il contrario. La determinatezza storica di ogni cultura rappresenta precisamente la condizione che ci apre all’alterità, consentendoci in questo modo di arricchirci, di crescere e di sviluppare al meglio le nostre potenzialità.

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