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Di cosa parliamo quando parliamo di libertà, liberalismo, libero pensiero

Alfonso Berardinelli

Tre libri che ci aiutano a riflettere sugli eterni, insuperabili ma anche ambivalenti princìpi della nostra modernità e civiltà occidentale, in pericolo e in crisi perpetua

Su libertà, liberalismo, libero pensiero. Ho fra le mani tre libri che mi costringono a pensare ancora una volta a questi eterni, insuperabili ma anche ambivalenti princìpi della nostra modernità e civiltà occidentale, in pericolo e in crisi perpetua. A forza di riorganizzare e riformare le nostre società cambiando adeguatamente la macchina statale, nonché sincronizzando sempre di più le nostre scoperte scientifiche con le tecniche di produzione industriale, abbiamo conquistato il mondo espandendo dovunque la nostra presenza culturale e il nostro potere politico. Quella che una ventina di anni fa venne definita “l’occidentalizzazione del mondo” ha costretto infine il nostro Occidente a inglobare i problemi di un mondo occidentalizzato solo in superficie. Questi problemi ormai li abbiamo in casa, ci stanno addosso, ci indeboliscono e provocano di continuo le nostre capacità di gestione e di controllo.

 

Per rappresentare e mettere in scena la nostra cultura politica e sociale Francis Fukuyama, forse il più criticato politologo del mondo per via del suo famoso libro La fine della storia e l’ultimo uomo, ha scelto ora di scrivere Il liberalismo e i suoi oppositori (Utet, pp. 186, euro 19). Si tratta soprattutto (l’autore lo precisa subito) del “liberalismo classico”, radice della stessa democrazia perché riconosce un uguale diritto alla libertà e autonomia a ogni individuo, indipendentemente dalla sua appartenenza a un gruppo sociale identificato non importa come: classe e ceto, reddito, appartenenza etnica, sesso, livello di istruzione, fede religiosa, convinzioni politiche… Proprio in questo senso radicale, il liberalismo classico non può e soprattutto non deve essere considerato “superabile” da nessun’altra categoria politica: democrazia, socialismo, comunismo, nazionalismo, anarchismo. Ogni altra ideologia deve anzitutto realizzare i principi del liberalismo classico, che sono: individualismo (primato morale della persona), egualitarismo (tutti gli esseri umani hanno lo stesso status morale), universalismo (unità morale della specie umana al di là di ogni differenza), migliorismo (tutte le istituzioni sociali e strutture politiche possono essere corrette e migliorate per la realizzazione dei precedenti valori).

 

Il liberalismo non è il neoliberismo, dice Fukuyama: niente a che fare con la svalutazione neoliberista dello stato come regolatore dell’economia né con l’enfatizzazione dei liberi mercati come agenti sia di crescita che di allocazione di risorse. Il capitolo conclusivo del libro mette comunque in conto le insoddisfazioni varie e i risentimenti antiliberali, riconoscendo le loro ragioni. Il liberalismo, come la democrazia, ha deluso le aspettative sociali e individuali a vari livelli: disoccupazione, cattiva gestione dell’ordine pubblico, carenze della politica sanitaria, problemi migratori, tassazione, regolamentazione di internet. Infine inefficienza e paralisi istituzionale. La “crescente polarizzazione politica”, per fare un solo esempio, indebolisce l’intero Occidente: “Se non risolvono i loro problemi strutturali, gli Stati Uniti non saranno in grado di competere efficacemente con le potenze autoritarie in ascesa a livello planetario”. Per salvare il liberalismo da critiche distruttive di destra e di sinistra, il problema da risolvere è quello della “qualità del governo”, della sua reale capacità di agire “con risorse umane e materiali sufficienti a fornire alla popolazione i servizi necessari”.

 

Qui mi fermo e apro il libro a due voci di Massimo Teodori e Angelo Panebianco, che con il titolo La parabola della Repubblica parlano di “Ascesa e declino dell’Italia liberale”, un sottotitolo che meritava di essere il titolo (Solferino, pp. 247, euro 17). Il tema polemico, la recriminazione e il rimpianto, toccano il punto dolente della storia politica sia italiana che mondiale del secolo scorso: la divaricazione fra sinistra comunista e sinistra non comunista, fra rivoluzionarismo marx-leninista con esiti dittatoriali e riformismo liberaldemocratico o liberalsocialista.

 

All’Italia è andata male per due ragioni: non solo perché nei lunghi decenni di guerra fredda Usa-Urss il partito comunista in Occidente non poteva governare, ma anche perché, come sottolineano Panebianco e Teodori, il duce Mussolini colpì a morte quelli che considerava i suoi più pericolosi avversari, i leader variamente liberali e riformisti: cioè Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli. L’uccisione di quattro leader così straordinariamente dotati creò un vuoto tale nella vita politica italiana del post-fascismo che l’intera area liberale e riformista ne fu danneggiata. Già nel giugno 1946 i partiti di tipo liberale erano minoritari rispetto a Dc, Pci e socialisti. Più tardi, dice Teodori, “la storiografia del dopoguerra a lungo ha sottovalutato i partigiani non comunisti”. E’ vero che ebbero un ruolo rilevante Ferruccio Parri, Benedetto Croce e Luigi Einaudi, ma nel decennio successivo al 1945 “la storia dei liberali fu travagliata fra un’ala democratico-riformatrice che guardava al centro-sinistra laico, e una moderata che tendeva ad allearsi con la destra qualunquista e monarchica”.

 

Da allora in poi e fino a oggi, in un miscuglio di culture politiche sia impoverite e irrigidite che rese camaleontiche dalla competizione elettorale perché prive di una vera identità, un ingrediente imprescindibile come quello liberale è rimasto sempre insufficiente. La conclusione lapidaria del libro è questa: “Di tanto avanza il populismo, di altrettanto arretra la democrazia liberale”. Se le democrazie si sono rivelate in crisi è perché l’ascesa dei populismi di sinistra e di destra contiene più o meno apertamente una pulsione autoritaria e antipluralista. Forse è comparsa recentemente un’inversione di tendenza. Resta intatta tuttavia l’insoddisfazione sociale dovuta alle troppe promesse non mantenute dai governi a causa della loro “cattiva qualità” sia politica che tecnica, sia decisionale che morale.

 

Che cosa manca? Manca un discorso sui cittadini, sulla loro cultura, sulla mentalità di massa. Per cavarmela velocemente e perché di politica capisco poco, devo cedere alla tentazione di autocitarmi: “Il mercato favorisce le forme culturali più rozze. Le forme culturali più rozze favoriscono la stupidità. La democrazia non può alimentarsi di sola stupidità. Quindi il mercato culturale minaccia la democrazia”. E’ per questo che mi interessa il Manifesto del libero pensiero scritto da Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (La nave di Teseo, pp. 127, euro 10). Al centro del manifesto-pamphlet c’è qualcosa che nel corso del Novecento un paio di grandi critici della cultura hanno riassunto così: “C’è la libertà di pensiero, ma dov’è il pensiero?”.

 

Mastrocola e Ricolfi fanno di nuovo ricorso alla critica del “politicamente corretto”, ma non è un’insistenza gratuita. Il fenomeno non invecchia, non regredisce, anzi si estende e si ingigantisce anche a causa di una microconflittualità invasiva e quotidiana di tipo sempre più isterico o paranoide. Si reagisce ad avversari spesso immaginari, senza aver capito cosa hanno detto, prima di aver capito. In mancanza di sostanziale identità, si inventano identità puramente gestuali. Si teatralizza il conflitto e la materia del contendere, spesso ridicolmente esigua. Si moltiplicano i gruppi, gli schieramenti, le categorie opinionistiche, i fanatismi, le sette. Il caro e rimpianto Massimo Troisi lo aveva detto e la sua frase compare in epigrafe al manifesto: “Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu”. Oggi la parola nei social è “degradata, abusata, stravolta, strumentalizzata, incattivita” e soprattutto “usata a sproposito”. C’è però dell’altro. Da tempo la sinistra non è meno censoria della destra. Essendo debole e frastornata, ha il terrore di contaminarsi con i fenomeni sociali. Ubbidisce e vuole piacere a un ceto culturale che crede di essere “riflessivo” ma è solo autoreferente.