Margherita la pazza, “Dulle Griet”, di Pieter Bruegel il Vecchio, 1562 (Wikipedia) 

Il fantasy secondo Joe Abercrombie. Come fondere "Game of Thrones" con Hugo e la Brexit

Edoardo Rialti

Populismi e rivoluzioni nelle pagine dell'autore de "La Prima Legge". La nuova trilogia "L'Età della Follia" mette in discussione la perennità di strutture e costumi nei fantasy più semplicisti, mostrando i cambiamenti grandi e piccoli che intercorrono tra le generazioni

Un’antica sala consigliare, prestigiosa sede di privilegi aristocratici, adesso insozzata e sfregiata, trasformata in tribunale del popolo, tra il vociare della gente comune nelle gallerie, fogli svolazzanti, panche luride di birra versata. Gli uomini e le donne del vecchio regime sussultano, piangono, si accusano a vicenda mentre una ex-prostituta strilla l’unico responso possibile. “‘Colpevoli!’ gridò Giudice, battendo le ammaccature sull’Alto Desco col martello da fabbro che usava per intimare silenzio. ‘Colpevoli, colpevoli, fottutamente colpevoli!’. Non c’era bisogno di pronunciare una sentenza. Gli unici esiti qui erano l’assoluzione o la Torre delle Catene. Hildi fissava esterrefatta Giudice, Grosso, Sarlby, e gli Incendiari tinti di rosso che scherzavano dalla tribuna pubblica”. Tra gli astanti c’è anche il re deposto e adesso in gabbia, che contempla quel mondo sottosopra assieme alla sua attendente. “‘Sono dei mostri’ Orso la sentì sussurrare. ‘Vorrei quasi che lo fossero’ mormorò lui. ‘Sarebbe più facile. Ma sono solo persone’. ‘Sono le persone peggiori che abbia mai conosciuto’. ‘Certo che lo sono. Abbiamo impiccato tutte le migliori. Quelle che avrebbero potuto aiutare, che avrebbero saputo scendere a compromessi, che avrebbero potuto costruire ponti, le abbiamo lasciate appese sulla strada per Valbeck. Certo che costoro sono crudeli, e avidi, e brutali. Sono la lezione che abbiamo impartito. L’esempio che abbiamo dato’”.

Questa duplice constatazione, l’accenno di sorriso sghembo che strappa la sua equanime, sporca verità, è un elemento costante della scrittura fantasy di Joe Abercrombie, dagli esordi con la trilogia La Prima Legge all’ultimo capitolo del suo universo, La Saggezza delle Folle (Mondadori). Al pari del cinema, i generi letterari hanno i loro John Ford, che paiono quasi omerici, primigeni nel delineare i netti contorni epici del loro immaginario, cui seguono i Sergio Leone, che quello stesso immaginario lo impolverano, mostrando le chiazze di sudore sotto le ascelle, i rutti, ne fanno scricchiolare e cigolare le giunture morali eppure, proprio in tale abbassamento picaresco, trovano nuove strade, più grigie, per raccontare un eroismo meno idealista ma non meno intenso, e infine i Quentin Tarantino (o, in tono minore, i Guy Ritchie), i cui personaggi si vedono per così dire dall’esterno, sono consapevoli degli stereotipi narrativi in cui sono immersi, li commentano e analizzano con ironia citazionista. Se J. R. R. Tolkien è certamente il Ford del fantasy e G. R. R. Martin il suo Leone, per più aspetti Abercrombie è proprio il Tarantino dell’epica fantastica.

 

“Sono le persone peggiori che abbia mai conosciuto”. “Certo. Abbiamo impiccato tutte le migliori”. Il sorriso sghembo è una costante di Abercrombie

 

Fin dal successo de La Prima Legge, che di fatto ripercorreva con umorismo dissacrante proprio Il Signore degli Anelli fondendolo con L. A. Confindential, e presentava un torturatore dell’Inquisizione reale che nei suoi pensieri quasi scoccava sguardi al lettore stesso, parlandogli come il Frank Underwood di House of Cards, o mostrava cosa effettivamente succeda a frequentare guerrieri berserk come quelli che si incontrano nelle antiche saghe e la cui vita trascorsa ad affettare gente rende ben più simili a psicopatici scarsamente gestibili che a nobili paladini propensi a cantare davanti al focolare, o come in fondo non ci sia persona più pericolosa di un mago che, al pari del celeberrimo Gandalf, ritenga con certezza adamantina di essere il rappresentante del bene e del progresso civile, e si riveli tanto micidiale nei suoi sortilegi quanto nell’invenzione e gestione dell’incantesimo più potente e divorante che si possa immaginare: gli istituti bancari, gli assegni e i prestiti. 

 

Al pari di Dumas, la nuova trilogia L’Età della Follia è una sorta di Vent’anni dopo, ambientata nel corso di una vorticosa rivoluzione politica che vede le antiche e sclerotiche istituzioni dell’Unione – e Abercrombie ha ben appreso da Tolstoj come raccontare le idiozie delle gerarchie militari – travolte dal malcontento popolare. Uno dei grandi problemi dei fantasy più semplicisti è la perennità di strutture e costumi, migliaia di anni vi possono trascorrere senza che armi, lingue, istituzioni subiscano effettivi cambiamenti. Come ha notato lo storico dell’Economia Francesco Ammannati, invece Abercrombie già nelle opere precedenti aveva saputo mostrare come tra una generazione l’altra intercorrano sempre piccoli e grandi cambiamenti in tutti gli aspetti della vita collettiva, e il suo universo sostanzialmente medieval-rinascimentale veniva già scosso dalla progressiva introduzione delle armi da fuoco, o appunto dalla progressiva privatizzazione delle risorse pubbliche, un tempo sotto l’egida della corona o dei feudatari, a vantaggio di mercanti e banchieri.

 

In questi nuovi tre capitoli, Abercrombie spezza ulteriormente l’immobilismo sociale e tecnologico del fantasy e gli fa compiere lo stesso salto compiuto dall’Europa sulla soglia della Modernità. Macchine tessili, industrie che imbrigliano l’energia dei fiumi, le prime ferrovie spalancano nuove possibilità di ascesa, contestazione, rovesciamento, ma anche per la manipolazione, lo sfruttamento delle persone e delle risorse naturali, la retorica, l’idiozia. E la follia. Perché quando la pressione dei nuovi torti sommati ai vecchi si fa intollerabile e il malcontento popolare esplode, le giuste rivendicazioni di chi invoca “Il Grande Cambiamento” generano un’onda che travolge tutto e tutti, senza più criterio o distinzioni. 

 

Se J. R. R. Tolkien è certamente il Ford del fantasy e G. R. R. Martin il suo Leone, Abercrombie è proprio il Tarantino dell’epica fantastica

 

“Era troppo tardi. Era troppo tardi già quando erano finiti sul banco degli imputati. C’era un’unica vera cospirazione, laggiù. Trovare persone da incolpare, e che fossero tutti complici”. Con puntuale aderenza a quanto si è visto accadere con le rivoluzioni industriali, le reazioni luddiste e i moti rivoluzionari che vanno dal ’700 e ’800 francese fino all’ottobre russo del ’17, ma anche – se non più – ai sussulti che scuotono l’occidente contemporaneo, Abercrombie racconta l’abbattimento delle statue dei vecchi padroni e rappresentanti dei privilegi aristocratici e coloniali, rigurgiti razziali, le spinte isolazioniste e separatiste à la Brexit, la lettura complottista del mondo che alimenta populismi vecchi e nuovi: “Sempre nuove cospirazioni. Sempre più sinistre. Sempre più elaborate, diaboliche, impossibili a smentirsi. Intrighi che in qualche modo coinvolgevano Styriani, Gurkish e Nordici, tutti insieme. Complotti per cui i nemici del Grande Cambiamento sarebbero dovuti essere imperscrutabili burattinai e idioti totali allo stesso tempo”. 

 

I rituali mummificati del regime monarchico cedono il passo alle assemblee popolari, ma il moltiplicarsi dei voti e degli interventi non introduce maggiore razionalità ed equilibrio, semmai amplifica solo le piccole vanità, le seduzioni della retorica, la violenza: “Si erano svolte votazioni in tutti i distretti di Adua, a quanto pare. Il voto di ogni uomo nato nel Midderland, per quanto meschino e ignorante, si era tradotto in una compagine di rappresentanti, a giudizio di Orso, altrettanto meschini e ignoranti. Voti. Poteva solo immaginare come sua madre avrebbe reagito a tutto ciò. La tirannia della maggioranza. A tempo debito i rappresentanti sarebbero stati eletti anche in altre città dell’Unione, ma quei banchi erano ancora vuoti mentre l’Assemblea dibatteva le regole generali. Bisticciavano persino più di quanto avesse fatto il Consiglio Aperto, se possibile. Ogni singolo punto. L’ordine stesso dei punti. Il metodo di discutere l’ordine stesso di ogni singolo punto. Uno dei compari di Risinau scandì con grande enfasi: ‘Cosa siamo? O… cosa dovremmo essere?’. Tutto veniva declamato con grande enfasi. Le osservazioni più banali diventavano profonde rivelazioni, proteste strappalacrime, dichiarazioni appassionate”. 

 

Il problema dei fantasy semplicisti è la perennità di strutture e costumi. Qui si mostrano piccoli e grandi cambiamenti tra una generazione e l’altra

 

Come nei processi popolari cinesi o sui social, la censura si fa una nebbia impalpabile, onnipresente, dove persino pensieri e parole diventano eresie, braccate dai dogmi progressisti del momento: “Meglio non menzionare le cose se non si era sicuri di quale fosse il linguaggio corretto. Ogni giorno presentava nuove parole sbagliate da evitare. Nuove idee in contrasto col Grande Cambiamento. Ognuno adesso era libero di dire ciò che voleva, naturalmente. Bisognava solo stare attenti a non finire impiccati”. Tutto questo viene raccontato da una sarabanda di punti di vista, dove i protagonisti principali (un’affarista spezzata dalle conseguenze della sua avidità e della violenza altrui, una giovane guida del nord barbaro e magico, un ex-eroe di guerra ossessionato da un’immagine così limpida di se stesso da farlo ulteriormente sprofondare nelle acque grigie e stizzite del cinismo, un giovane monarca deposto, che cela sotto un temperamento languido e disincantato una imprevedibile volontà di ferro…) si alternano a veterani ubriaconi, che tanto più vorrebbero evitare il male quanto più vi si trovano invischiati come unico linguaggio possibile e desiderabile (“Nel farlo lui piangeva, forse. Almeno all’inizio. Ma questo non significa che non lo stesse comunque facendo… ecco la triste verità: se davvero non vuoi qualcosa, non devi continuare a ripetertelo”), e spie voltafaccia: “La verità era che lei non sarebbe mancata a nessuno. Se ne era assicurata. Mai restare in un posto che non si possa lasciare senza voltarti indietro. Mai possedere qualcosa che non si possa mollare sul posto. Mai farsi un amico che non si possa abbandonare. Una vita che non lascia segni. Ci pensò, come per la prima volta. Le persone che aveva ingannato, tradito, abbandonato, e si chiese: una vita che non lascia segni è davvero una vita?”. 

  

E poi puttane, bambini operai, soldati. Ognuno con la sua verità a sovrapporsi e cozzare. Perché la liberazione di qualcuno può sempre essere la rovina di un altro: “C’erano altri prigionieri tra la folla. Amministratori. Burocrati. Impiegati. Un paio di soldati. Ammassati come animali. Pungolati con le lance. Un cocchiere sorridente li colpiva col frustino, facendoli ululare e mugolare. Ettenbeck riconobbe il volto insanguinato di un uomo, ma il suo nome gli era scomparso dalla mente. Tutti i loro nomi erano scomparsi. ‘Profittatori!’ qualcuno stava urlando con voce rotta. ‘Sfruttatori!’. Un tizio dalla pelle scura veniva preso a calci lungo la strada, si rialzava barcollando, e veniva preso a calci di nuovo, su tutto il corpo. Ettenbeck pensò che fosse l’ambasciatore di chissadove. Kadir, forse? Un uomo affascinante e colto. Ettenbeck l’aveva sentito parlare in modo molto commovente alla Società Solare a proposito d’una più stretta cooperazione attraverso il Mare del Circolo. Ora gli avevano fatto volare via il berretto e gli stavano sputando addosso. ‘Bastardo!’ ringhiava un uomo in abiti da soldato che si era tolto la giubba, la camicia macchiata di sangue. ‘Bastardo!’. E calpestò la testa dell’ambasciatore.” Abercrombie fonde così Tempi difficili e I Miserabili col Gattopardo perché “a volte, per cambiare il mondo, dobbiamo prima bruciarlo”, solo per ritrovarlo identico a prima, con gli stessi privilegi che sopravvivono con nomi diversi, e in fondo neppure poi tanto camuffati. 

 

Un cinismo malinconico che esige di strappare l’eroismo a qualsiasi idealizzazione, per ficcare le mani nella melma grigia del compromesso

 

Come notava Camus, “nel secolo scorso, l’uomo abbatte i vincoli religiosi. Eppure, appena liberato, se ne inventa di nuovi, e intollerabili. La virtù muore, ma rinasce ancora più intrattabile. Grida a tutti i venti una frastornante carità, e quell’amore del lontano che fa dell’umanesimo contemporaneo un’irrisione. A questo grado di fissità, può operare soltanto devastazioni. Viene il giorno che s’inasprisce, si fa poliziotta e, per la salvezza dell’uomo, s’innalzano ignobili roghi”. Come in Leone o Tarantino, il cinismo malinconico di Abercrombie nega la possibilità della dedizione e perfino dell’eroismo, ma esige di strapparlo a qualsiasi idealizzazione, a qualsiasi limpida facile narrazione, per ficcare le mani nella melma grigia del compromesso: “E’ una consolazione, dirsi che esiste una grande cosa giusta, da qualche parte là fuori. Che puoi andare a cercare qualche vecchio saggio bastardo sulle montagne che abbia tutte le risposte. Allora non ci sarebbe bisogno di dubbi e rimpianti”. Guardò di sbieco, la luce del sole che luccicava sull’occhio di metallo. “Ma per quanto ne so, non è così semplice. Cose giuste, cose sbagliate, be’... è tutta una questione di punti di vista. Ogni scelta è buona per alcuni, cattiva per altri. E una volta che sei il capo, non puoi fare solo ciò che è bene per te, o per coloro che ami. Devi trovare ciò che è meglio per i più. Il peggio per i meno… Dubbi e rimpianti sono il prezzo da pagare per gettare ancora un’ombra. Le uniche persone senza di essi sono i morti”.

 

In un suo romanzo precedente, un vecchio mercenario voltagabbana agonizza dopo aver salvato la vita a una sua pupilla, che pure aveva ingannato mille volte. E mentre lei piange e riconosce che lui era sempre stato alle sue spalle, a proteggerla, lui sorride con la bocca insanguinata e ammette che era solo una scusa per guardarle il culo. Ancora una volta, anche nelle segrete scelte individuali, le due cose stanno assieme.

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