Joe Abercrombie

Il mestiere di scrivere - Conversazioni con scrittori, sullo stato della narrativa

"Toccati da Madre guerra", il fantasy secondo J. Abercrombie

Edoardo Rialti
“Senza letteratura, potremmo forse conoscere le leggi della vita, ma certo non la sua giurisprudenza” (A. Finkilelkraut)

Una collina battuta dal vento, con pochi guerrieri a tenere testa ad una moltitudine urlante. E tra quei combattenti laceri, che cantano a sfida dietro il muro di scudi, a colpire “come la tempesta, sempre in movimento”, c’è una ragazzina. “Mezzo Mondo”, il nuovo romanzo di J. Abercrombie, che molti considerano il vero erede al trono del fantasy, su cui siede incontrastato G. R. R. Martin, affronta proprio cosa accada quando sia una donna ad essere “toccata da Madre Guerra”. Una provocazione alle ragazze di oggi, audace come il romanzo precedente, che fu originato da un dettaglio notato al parco, come ci racconta lo stesso Abercrombie. 

 

ER: A Lucca Comics raccontasti che la prima immagine all’origine de “Il Mezzo Re” e del personaggio di Yarvi fu vedere un bambino dalla mano malformata intento a giocare. Ed in quel romanzo abbiamo anche la primissima fugace visione di Thorn, a bordo del quadrato d’armi, intenta a guardare proprio Yarvi. È stata davvero quella scena l’origine per questa nuova storia, o si è trattato di qualcosa di esterno e differente, come fu quel bambino? 

 

JA: Proprio come dicevi, la prima ispirazione per “Il Mezzo Re” fu notare un bambino con una mano malformata- cominciai a pensare quanto sarebbe stato difficile crescere con quel genere di disabilità in un mondo che ricordi quello vichingo o anglosassone, dove impugnare uno scudo nel muro di scudi, e proteggere l’uomo al tuo fianco non fosse solo il modo principale di fare la guerra ma anche ciò che quella cultura si aspetti da un uomo, specialmente uno provvisto di sangue reale che debba esemplificare i valori maschili. Yarvi, incapace di impugnare uno scudo ed essere un guerriero, viene disprezzato, sottovalutato, e in un certo senso sospinto forzatamente nelle sfere tradizionalmente femminili-per questa cultura-di conoscenza, astuzia e diplomazia. Deve fare pace con sé stesso, imparare in un certo senso a trasformare la propria debolezza in forza, e usare il suo ingegno per avere la meglio su avversari fisicamente più forti. La natura di Yarvi è detta la natura della sua cultura, del mondo a cui appartiene, della storia cui partecipa. Ma la natura di Yarvi detta anche quella di Thorn, perché, in un certo senso, lei è il riflesso speculare di Yarvi. È una ragazza che per inclinazione naturale e desiderio di vendicare il padre amatissimo è assolutamente determinata a ficcarsi a forza proprio nella sfera maschile della guerra, e diventare una grande guerriera. Tuttavia, perché ciò accada, le occorre l’aiuto da un diverso genere di emarginato-Yarvi-. Tutto questo fu concepito come una trilogia, perciò mentre stavo pianificando “Il Mezzo Re” stavo già pensando alla direzione che avrei potuto prendere con “Mezzo Mondo”, e quale sarebbe potuto essere il personaggio principale. Mi sembrava calzante che ne “Il Mezzo Re” si dovesse già scorgere Thorn, con i semi della sua vicenda già piantati negli sviluppi di quella di Yarvi, opposti ma collegati. 

 

Le donne nel fantasy, le donne del fantasy 

 


ER: “Ma io non sono un uomo” è certamente la battuta di Eowyn- mentre fronteggia il Re degli Stregoni- che ogni lettore tolkieniano ricorda. E proprio quella battuta riecheggia nelle parole della Regina Laithlin su Thorn, in un contesto differente e dopo un viaggio molto diverso. Non si tratta dell’inattesa presenza di una donna coraggiosa su un campo di battaglia, ma di un lungo, difficile addestramento, come il silenzioso affilare di una spada. E poi incontriamo Rin, e Skifr, e Laithlin, e Madre Scaer e Gran Madre Wexen, e l’Imperatrice… quanto in “Mezzo Mondo” costituisce una tua sfida artistica agli stereotipi sui doni femminili, nel nostro stesso mondo, nella letteratura e anche nei romanzi fantasy? Ritieni che le donne siano state ancora raccontate con troppi clichés?  

 

JA: Penso che le donne siano sottorappresentate nella maggior parte dei media e che ci siano problemi e schemi nel modo in cui vengono rappresentate. Negli Avengers c’è una sola donna ed è quella meno dotata di superpoteri. Magari si tratta di un problema particolare del fantasy epico, che spesso rappresenta una versione ultra-patriarcale del passato, in cui i ruoli per le donne sono molti limitati. Non ci sono molte donne ne “Lo Hobbit”, per esempio. Comunque cerco perlopiù di concentrarmi sul mio lavoro, l’unica cosa che posso davvero controllare, e puntare a scrivere i libri migliori ( e ciò include le donne migliori) che posso. “La Prima Legge” costituiva in gran parte una mia versione del fantasy epico e parodiava il genere di mondo patriarcale che noti spesso in libri simili, e, sebbene sia soddisfatto di alcuni personaggi femminili, a ripensarci ho la forte sensazione che non siano a sufficienza, sia al centro che sullo sfondo. Con i romanzi autoconclusivi della “Prima Legge” volevo fortemente spingere alcune donne in ruoli più centrali; ma quando poi si trattò di tratteggiare un mondo completamente nuovo, allora volli che fosse uno dove avere le donne in ogni genere di ruolo sembrasse totalmente naturale. A questo punto penso che avere una gamma variegata di donne nel tuo cast sia semplicemente un gran bene, senza riserve- contribuisce ad avere un mondo più ricco, più vivido e una maggiore varietà di interazioni. Contribuisce a creare un mondo più simile a quello nel quale viviamo davvero, e ciò è semplicemente buona scrittura. Perciò nel “Mare Infranto” la guerra e il lavoro sono generalmente sfere maschili, ma la conoscenza, i beni, il commercio e il denaro sono generalmente femminili. Un re è un capitano di guerra ma ha una ministrante esperta al suo fianco, a urgere cautela e diplomazia, mentre la regina amministra le finanze dello stato. In questo libro si assiste a una regina che cambia il mondo con le sue capacità finanziarie, contrasta da un’onnipotente Ministrante donna. Ci sono donne che sono spietate capitani navali, mercanti, burocrati, consigliere, artiste. In una sceNa di “Mezzo Mondo” una ragazza fabbro e una guerriera lavorano insieme per creare l’acciaio d’una spada. Non avrei mai scritto una scena del genere dieci anni fa. Sono molto felice di averla scritta adesso. 

 

Stile e struttura 

 

ER: Questo romanzo, così come il precedente, inizia e finisce nello stesso luogo; con la variante stavolta di due punti di vista diversi, quello di Thorn e quello del giovane Brand. Possiamo dire che, oltre alla scoperta del proprio vero io, e dei propri veri doni, una tema già trattato nel viaggio di Yarvi, qui racconti anche le difficoltà e le gioie inattese dell’ “essere visti” dagli occhi di qualcun altro, specialmente di qualcuno che ti ami?  

 

J.A: Effettivamente tutti e tre questi libri si aprono e chiudono nello stesso posto, ma con i protagonisti profondamente cambiati, che hanno scoperto se stessi e sono cresciuti, facendosi carico della propria vita. Sono sempre stato un grande  appassionato di tale struttura circolare. L’idea è sempre stata quella di iniziare con un unico punto di vista-un’unica vicenda portante, altamente focalizzata, semplice, ma con un secondo volume che allargasse fino ad avere due punti di vista, e un terzo che arrivasse a tre. Penso che, arrivato al secondo volume, si sia già fatto molto del lavoro che allestisce il mondo e presenta molti comprimari e culture; perciò hai la libertà di introdurre altri personaggi e magari una struttura più complessa. E naturalmente due punti di vista ti offrono la possibilità di osservare da vicino la relazione centrale, il modo in cui entrambi i personaggi si sentono rispetto all’altra persona, gli errori e gli equivoci, le differenze con cui si guardano o sono guardati dagli altri. Un aspetto importante nell’esperienza di crescere, che effettivamente non veniva trattato nel “Mezzo Re”, era l’elemento romantico. Con questo libro volevo affrontarlo, ma spero con altrettanta onestà e imprevedibilità di tutto il resto.  

 

Ferite, e cicatrici 

 

ER: Ne “Il Mezzo Re” la mano rattrappita di Yarvi gioca un ruolo importante. Qui invece abbiamo le guance sfregiate di Thorn, le braccia di Brand, il viso di Fror, i vecchi segni sul collo di Yarvi…questo romanzo è intessuto di cicatrici. “Segni di grandi imprese”. Cicatrici che raccontano storie segrete, come la vita, il tempo e le scelte ci cambino. E sono molti i personaggi più adulti nei tuoi romanzi precedenti che portano tali marchi di gloria o d’infamia. Qui invece si tratta di un ragazzo e una ragazza. È una voluta variazione per un pubblico più giovane, che magari stia scoprendo che la vita ci ferisce molto presto? 

 

J.A: Immagino di essere stato un po’ frustato dalla mancanza di cicatrici nei fantasy, fisiche o emotive, espressione d’una generale carenza di conseguenze, forse. Spesso c’è qualche soluzione magica per le ferite. Nel fantasy tendi anche a trovare un sacco di eroi estremamente perfetti- dentro e fuori. Ho sempre voluto offrire un mondo provvisto di conseguenze, un mondo di persone in lotta con le proprie disabilità, le proprie tenebre, le proprie cicatrici, le conseguenze delle proprie azioni. In altre parole, un mondo come il nostro. Perciò Thorn può crescere, imparare, e compiere grandi gesta, ma non senza cicatrici. Un segno esterno di lezioni interiori, forse.  

 

Cosa vuol dire epico. Per davvero 

 

ER: A proposito dell’epica. Molto spesso-troppo stesso- la si è ritenuta semplicemente lo scontro immane di milioni di comparse, mentre serie come “Vikings” mostrano che può essere epica un’imboscata che non coinvolge più di venti persone. È una questione di ritmo, tensione, realismo e al tempo stesso di poesia. Come la tua battaglia sul fiume, quando i personaggi cominciano a cantare la Canzone di Bail. Quali sono gli elementi che costituiscono l’anima di una scena davvero epica? 

 

JA: Penso che nel fantasy epico la parola “epico” abbia finito troppo spesso per indicare maggiore vastità senza necessariamente comportare maggiore profondità. Sembra esserci una tendenza verso dimensioni sempre più enormi. “Il Signore degli Anelli”, che quando ero ragazzo veniva considerato una serie spaventosamente grande, adesso pare decisamente snello rispetto a tanta roba in giro. Epico a arrivato a significare immensità di cast, immensità di scala, immensità del numero di pagine. E lunghissime serie di libri enormi posso diventare pesanti, possono rischiare di perdere quel legame personale con poche figure centrali che effettivamente motiva un lettore all’interno di un libro. Volevo che i libri del “Mare Infranto” fossero un’epica breve, per così dire. Volevo che avessero intensità. Volevo che facessero avvertire un grande mondo, un grande dramma, grandi temi, e soprattutto grandi viaggi intrapresi dai protagonisti, con enormi questioni in gioco, vasti nell’evoluzione personale e nel coinvolgimento emotivo. Volevo che il lettore sentisse di aver compiuto un lungo cammino insieme a loro, senza essere esausto a forza di voltare pagina. 

 

Scrivere nell’era di twitter e facebook 

 

ER: Tu sei molto in contatto con i tuoi lettori grazie a social media come twitter o facebook: quali sono gli aspetti migliori e peggiori di questa possibilità di dialogo nell’era digitale, secondo te? 

 

JA: In certo senso gli aspetti migliori e peggiori sono gli stessi- che la gente può contattarti con facilità, all’istante e che finisci circondato da un diluvio di reazioni al tuo lavoro. Scrivere è una professione solitaria, perciò è davvero grandioso parlare con persone che apprezzino quello che fai, accorgersi di avere un pubblico là fuori, sentire che per certe persone non sei stato solo gradevole ma persino commovente e importante. Ma al tempo stesso è facile diventare drogati di reazioni, concentrandosi sulle voci negative e ignorando quelle positive, finendo magari per smarrire il tuo giudizio negli assalti furibondi delle opinioni altrui. Poche voci davvero estremiste spesso riecheggiano molto forte nella camera a eco di internet, mentre la maggioranza viene di solito si sente a malapena. Devi cercare di non farti trasportare da nessuna critica particolare.   Identità di genere  
ER: Recentemente, dopo il romanzo di Ishiguro con i suoi orchi e draghi, c’è stata una controversia sul valore di definire un libro a seconda del genere o no, come se dire “Questo è un noir” o “Questo è un fantasy” potesse diminuirne il valore, o chiuderlo in gabbia. Non è una disputa nuova. Qual è la tua opinione? 

 

[**Video_box_2**]JA: Dopo aver visto questo dibattito continuare ad avvitarsi ancora e ancora fin da quando sono stato pubblicato, non me ne curo più di tanto, onestamente. Le definizioni sono sempre vaghe, spesso assai arbitrarie, risultato della reputazione dell’autore, della storia dell’editore, o di quella particolare congiuntura temporale così come del contenuto del libro. L’unica definizione davvero utile è quella che mette in contatto un libro con il più vasto numero di lettori possibile, e di lettori che  lo possano maggiormente apprezzare. Per il resto, trovo che le lamentele esprimano più i pregiudizi di chi si lamenti che qualcosa sui libri stessi. Mi ha divertito vedere che nel sistema bibliotecario USA “Mezzo Mondo” è stato catalogato in “ragazze adolescenti” e “storie d’amore”, e in fondo perché no? in quel libro c’è molto altro, ma anche quelle cose.    

 

Scrivere mentre le biblioteche bruciano 

 

ER: Una volta Orwell notò come la volontà di comandare non corrompa come la volontà di obbedire, di delegare la propria capacità critica. E viviamo in tempi in cui, a diverse latitudini e climi ideologici, la violenza contro le persone è- come sempre-legata alla violenza contro la cultura. Le biblioteche vengono ancora bruciate. Pensi che un buon romanzo, una grande storia, abbia un qualche potere che costituisca una minaccia per ogni bigottismo e ottusità, interna o esterna? Senti che l’arte e la narrazione-in ogni sua forma- possa giocare un ruolo di primo piano in questo nostro tempo complesso, o che stiamo semplicemente affrontando quello che è stato vissuto da ogni generazione passata?  

 

JA: Il mondo è sempre stato complicato e difficile, con infiniti punti di vista conflittuali, e non ci sono risposte semplici. C’e sempre altro da fare ma perlomeno penso che in epoca moderna siamo generalmente di mentalità più aperta. Tuttavia ritengo sia all’opera una forte attrattiva a spengere la capacità critica, e accettare così una narrazione semplicistica, dove sia facile definire i noi e i loro, il bene e il male. Dove occorra solo stare dalla parte giusta e fare come ci viene detto. Per me un grande racconto- si tratti di libri, film, o qualsiasi altro medium, ci obbliga a camminare nelle scarpe di qualcun altro, a vedere le cose dal suo punto di vista. Magari di qualcuno molto diverso da noi. Un buon libro ci fa vedere come la nostra non sia l’unica esperienza possibile, e non l’unico punto di vista. Una buona narrazione, come un bel viaggio, allarga la mente. Penso che ciò eserciterà sempre un ruolo vitale.

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