Profezie della catastrofe

Siegmund Ginzberg

2034: la Terza guerra mondiale inizia, manco a dirlo, con l’affondamento di una nave militare nel Mare cinese meridionale. Il racconto da brivido in un libro di fantascienza pubblicato l’anno scorso in America

La nuova guerra mondiale inizia non con il superamento di un confine di terra, ma con l’affondamento di una nave da guerra. Succede così in non pochi conflitti reali. Ma soprattutto in quasi tutte le guerre mondiali immaginate, da un secolo e passa a questa parte. In genere a colare a picco, e a mettere in moto un inarrestabile meccanismo di rappresaglie e controrappresaglie, non è una nave qualsiasi, ma l’ammiraglia, l’orgoglio della flotta.
Succede anche nell’ultimo romanzo di Future war fiction che ho letto. L’incidente che porterà a una guerra nucleare avviene non nel Mar Nero ma nel Mare cinese meridionale. Un ammiraglio (anzi un’ammiraglia, la parità di genere ha fatto passi da gigante nella Us Navy) decide di abbordare un peschereccio cinese apparentemente in difficoltà. L’intenzione è di prestare assistenza. Insospettisce l’ostinazione eccessiva con cui il capitano del peschereccio rifiuta che lo aiutino, anzi si oppone violentemente ad un’ispezione sottocoperta. Entra in scena dal nulla una portaerei cinese e ingiunge alla squadra americana di lasciar andare il peschereccio. Quelli rifiutano, con una punta di arroganza. Qualcosa di più pesante del medio puntato contro la Moskva che figura nell’ultimo francobollo emesso dalle Poste ucraine, andato pare a ruba. Spuntano siluri in arrivo. Nessuna delle contromisure con le quali un incrociatore americano potrebbe difendersi da un attacco del genere funziona. Tutta la sofisticatissima elettronica di cui è dotata la Us Navy è inspiegabilmente in blackout. Affondano nel giro di pochi minuti, con tutto il loro carico umano, le due cacciatorpediniere di scorta. Poi, dopo una lunga agonia per i danni subiti, anche l’ammiraglia, gioiello della flotta del Pacifico. 

 
Incidente, ammiraglia, unità navale coinvolte sono di fantasia. L’ammiraglia è la USS John Paul Jones. Jones aveva combattuto nella Guerra d’indipendenza a fianco di George Washington. Viene considerato il fondatore della Marina statunitense. Poi era passato in Europa, al servizio della zarina Caterina II. Si offende qualcuno se diciamo che faceva il mercenario? Comunque non era molto stimato dal suo superiore, il principe Potëmkin, che lo giudicava capace tutt’al più di fare il pirata. Stiamo parlando di un romanzo. Ma il guaio è che, da qualche tempo a questa parte, la realtà supera i romanzi, l’inimmaginabile supera la fantasia, l’orrore delle immagini supera l’orrore degli incubi. La situazione si deteriora rapidamente, sfugge di mano alle potenze interessate, sfocia in una guerra nucleare.

 

Cinesi e russi contro americani, l’Europa assente. A salvare la situazione e fermare i contendenti, a sorpresa intervengono gli indiani

 

La John Paul Jones viene affondata il 13 marzo. Il presidente degli Stati Uniti autorizza l’uso di armi nucleari tattiche per affondare la portaerei cinese da cui è partito l’attacco. Ben due squadre di portaerei americane le danno la caccia. Non riescono a trovarla. I cinesi padroneggiano nuove misteriose tecnologie, basate sull’Intelligenza artificiale, che gli consentono di essere invisibili ai nemici e al tempo stesso di paralizzare l’elettronica degli avversari. Il 18 giugno invadono Taiwan. Gli Americani reagiscono attaccando con le atomiche la base navale da cui è partita l’invasione. Dieci milioni le vittime collaterali tra la popolazione cinese della regione costiera. I cinesi rispondono distruggendo Galveston in Texas e San Diego in California, le due grandi basi navali Usa. La rappresaglia sarà l’annientamento di Shanghai. La Russia ne approfitta per sabotare i cavi sottomarini che collegano l’Europa all’America, paralizzare Wall Street e riprendersi l’Ucraina. L’Europa è paralizzata e non fa assolutamente nulla. A salvare la situazione e fermare i contendenti sul ciglio della distruzione reciproca, e dell’intero pianeta con le rispettive armi strategiche, intervengono gli indiani. Senza dare nell’occhio si sono fatti una tecnologia superiore sia a quella cinese che americana. Per farli smettere danno un colpo al cerchio e una alla botte: affondano la portaerei cinese e distruggono un’intera squadra di bombardieri strategici americani…

 
Tranquilli, succede nel 2034, non nel 2022. Ci resta ancora un po’ di tempo. O forse no. Il romanzo è intitolato: 2034. A Novel of the Next World War. E’ stato pubblicato da Penguin l’anno scorso. E’ stato scritto a quattro mani da un addetto ai lavori, l’ammiraglio in pensione Jim Stavridis, già comandante dell’Us Southern Command e Comandante supremo alleato della Nato, e da Elliot Ackerman, ex marine in Iraq e in Afghanistan, diventato scrittore. Com’è ovvio per un libro scritto da un ammiraglio americano nel 2021, i cattivi principali sono i cinesi. I cattivi comprimari i russi e gli iraniani. In questo preciso ordine. I buoni – anche se parecchio ingenui, anzi decisamente stupidi – sono gli americani, e, a sorpresa, gli indiani. Evidentemente l’ammiraglio non si aspettava che a iniziare le ostilità fosse la Russia di Putin e non la Cina di Xi Jinping. Né che l’India di Narendra Modi si collocasse a mezza strada, al pari della Cina. Altra sorpresa per l’ammiraglio, che pure li deve aver conosciuti bene da comandante supremo della Nato, si sono rivelati gli europei. Nel romanzo nemmeno esistono. Un’altra cosa interessante, ma forse non sorprendente per un pensionato, è che tutti i personaggi del romanzo, buoni o cattivi che siano, non vedono l’ora di andare in pensione.

Gli autori sono ex militari. Tutti i personaggi del romanzo, buoni o cattivi che siano, non vedono l’ora di andare in pensione

Mi trovavo a Pechino, facevo il corrispondente dell’Unità in Cina, quando quarant’anni fa un’amica in visita mi lasciò la sua copia de La Grande fuga dell’Ottobre rosso di Tom Clancy, l’inventore del techno-thriller militare. L’aveva letto e finito nel lungo viaggio in aereo. Stavridis dovrebbe essere uno che ne sa qualcosina di più di Clancy & Co. Lui i piani che prevedono elaborate escalation e counter escalation in caso di conflitto li conosce, probabilmente ha contribuito a elaborarli. Conosce i gradini attraverso cui si arriva ai diversi livelli di utilizzo delle armi nucleari. 

 
Putin fa lanciare il suo nuovo missile intercontinentale Sarmat (oltre 10 testate nucleari, più 24 veicoli ipersonici in grado di ingannare le difese anti-missile). Dice che dovrebbe “far riflettere i nemici”. Il capo della Cia di Biden, William Burns, non esclude che “per disperazione” Putin le atomiche possa anche usarle. C’è poco da stare allegri. Da qualche tempo non è più un argomento tabù, gli esperti discutono anche pubblicamente della possibilità di fare ricorso a “piccole” atomiche tattiche, senza che necessariamente questo porti a lanciarsi l’un l’altro le grosse atomiche da fine del mondo. La fine del mondo era un deterrente che ha funzionato per oltre mezzo secolo. Se non è più la fine del mondo, allora magari è concepibile si possano usare. L’idea è: facciamo sempre in tempo a smetterla prima che finisca in distruzione reciproca. Ma le guerre, tutte le guerre, si sa come cominciano, non si può mai sapere chi coinvolgono né dove e come finiscono. Si sapesse come finiscono non ci sarebbe bisogno di cominciarle. Sun Tzu (V-IV secolo a.C.) insegnava che le guerre si vincono senza farle. Speriamo che Xi Jinping ne faccia tesoro. Quanto a Putin, altro che Sun Tzu, non è chiaro neppure se abbia letto del Kutuzov di Tolstoj. 

 
Il problema non è che se ne parli e se ne fantastichi. E’ che le fiction di guerre future spesso sono state profetiche. A cavallo tra Ottocento e Novecento c’era stata una fioritura di romanzi di fantascienza che prevedevano guerre mondiali provocate dal Pericolo Giallo, dalla protervia cinese, anzi dall’orgoglio ferito cinese. Esemplare, ricchissimo di trovate, è The Yellow Danger: The Story of the World’s Greatest War, di Matthew Pipps, in arte M. P. Shiel, pubblicato nel 1899. Vi si immagina una guerra mondiale provocata dai cinesi, anzi da un solo leader cinese, perfido e vendicativo, nella quale gli europei si affondano le rispettive flotte e poi si sterminano gli uni e gli altri. Anche con la peste, il colera e altre malattie contagiose. Nel 1911 avrebbe fatto seguito il racconto in cui Jack London immagina una guerra batteriologica con cui l’occidente stermina i cinesi, tutti i cinesi. La Guerra dei mondi di H. G. Wells, dove sono i marziani a invaderci, è di prima ancora, del 1897. 

 

Sun Tzu insegnava che le guerre si vincono senza farle. Speriamo che Xi  ne faccia tesoro. Quanto a Putin, non è chiaro neppure se abbia letto Tolstoj

 

La Guerra mondiale ci sarebbe stata davvero, di lì a non molto. Con tanto di uso dei gas. Quella batteriologica è ancora da venire. Il nemico cambia secondo le circostanze. Ultimamente tutti d’accordo a ritenere inevitabile una guerra tra Cina e America. Con tanto di richiamo a Tucidide che dice inevitabile la guerra tra Atene e Sparta. Ma le guerre che si danno per sicure non è detto che poi si facciano davvero. Mentre c’è da guardarsi da quelle “inimmaginabili”, “impossibili”: mettiamo tra Russia ed Europa o tra Russia e Nato. Darle per scontate aiuta forse in qualche modo a scongiurarle. Non c’è mai stata, ad esempio, la Terza guerra mondiale tra America e Unione sovietica. Quando lasciai nel 1987 la Cina alla volta degli Stati Uniti le librerie di New York erano piene di volumi che preannunciavano The Coming War With Japan, l’inevitabile ripetizione di quel che era successo dal 1941 in poi. Mi avevano –  devo confessare – convinto. Ne avevo scritto. Si sbagliavano, mi sbagliavo. Non se ne parla neanche più: il Giappone non ha mai riarmato, come molti davano per scontato, non si è fatta l’atomica, anche se qualcuno in Giappone ne aveva una voglia matta; il declino demografico e la stagnazione economica nei decenni successivi hanno fatto il resto. Niente è inevitabile, se non si fanno errori clamorosi. Un po’ di studio dovrebbe aiutare a non farne o non rifarne. 

 
La fantaguerra, la guerra immaginata al futuro, è un argomento che mi affascina da sempre. La bibliografia è sterminata. L’edizione sui miei scaffali di Voices Prophesying War di I. F. Clarke, il massimo esperto e catalogatore della materia, è stata pubblicata dalla Oxford University Press nel 1992. E’ sottotitolata: “Guerre Future 1763-3749”. Si è immaginata ogni tipo possibile di guerra, contro ogni tipo di nemico, in difesa dell’Inghilterra da un’invasione tedesca, o da un’invasione francese, o da un’invasione russa, o della Francia da un’invasione britannica, e così via in tutte le combinazioni fantasticabili. Combattuta con ogni tipo di armi, ma soprattutto sul mare e dal mare, o dall’aria. Fino a Star Wars, e a Starship Troopers (“Fanteria dello Spazio”) e anche ben dopo, le AstroNavi, le Spaceship, sono appunto navi ammiraglie, mega incrociatori galattici, invariabilmente distrutti da agili caccia. Infinito anche il campionario dei nemici, da quelli spassosi di Barbarella che, incarnata da Jane Fonda, allietava la generazione di giovani americani che venivano sorteggiati per andare in Vietnam, agli orrendi umanissimi rettili di Alien. Ero già in America, trasferitomi direttamente dalla Cina, quando mi capitò di seguire in diretta un efficacissimo discorso di Ronald Reagan che invitava i sovietici – quegli stessi che aveva definito “Impero del Male”-  a unirsi agli americani, a collaborare come se l’umanità dovesse affrontare un comune nemico extraterrestre. 

  
Ho letto che nei negozi di giocattoli chic sull’Arbat sono tornati in vetrina modellini di tank, cannoni, missili autotrasportati e soldatini. I giocattoli mi sono serviti spesso per annusare l’aria che tira. Nella mia prima visita a Mosca, nel 1988, al seguito di Reagan che incontrava Gorbaciov, avevo notato una fila lunghissima davanti a un negozio. Mi avevano spiegato che non era per il pane, ma perché si era diffusa voce che fosse arrivata una partita di giocattoli. Ne dedussi che quel socialismo lì non poteva durare. A New York invece, da FAO Schwarz, all’angolo tra Fifth Avenue e Central Park, quell’anno dominavano i giocattoli da Guerre stellari. Ma accanto a una scelta sterminata di altri giochi, un campionario incredibile di peluche, Meccano, Lego, trenini.

  

Ci avevano promesso guerre del futuro, asettiche, intelligenti, come  i videogiochi. Quella in Ucraina è più sporca della Seconda guerra mondiale

 

Le guerre stellari non ci sono state. Lo Scudo spaziale di Reagan non ha mai funzionato. C’è chi sostiene che ha contribuito ad affondare l’Unione sovietica senza che ci fosse bisogno di alcuna guerra. Ci sarebbe da farci la firma se andasse di nuovo così. Ma la cosa che più mi fa impressione nella guerra in Ucraina non sono le nuove armi, presenti o minacciate, in cantiere o immaginate. E’ la stridente contraddizione tra le guerre “pulite”, le armi “intelligenti”, mosse dall’intelligenza artificiale, o tutt’al più da un bottone schiacciato a grandissima distanza che ci vengono promesse da decenni, e le immagini e la realtà di una guerra sporchissima, sanguinosa, crudele. Neanche da Seconda guerra mondiale, da Stalingrado e grande battaglia dei carri armati di Kursk. Piuttosto da assedio, da sale sparso sulle rovine, da terra bruciata, da torture e campagne di stermino medievali. 

  
Ci avevano promesso, sin dai tempi dell’Iraq e dell’Afghanistan, guerre del futuro, asettiche, intelligenti, vinte come i videogiochi, sugli schermi dei computer, tecnologie miracolose capaci di rivoluzionare “la natura di fondo della guerra”. Le guerre sembravano essersi trasferite in rete. Poi ci siamo accorti che due missili sparati da un camion bastano a affondare il Superincrociatore. Ci avevano predetto che le battaglie del futuro sarebbero state combattute e vinte da robot e droni, senza sacrificare piloti e vite umane. Men che meno civili innocenti. I droni in effetti ci sono, sono già più numerosi dei velivoli guidati da umani. C’è Matrix e ci sono i Terminator. Ma le vittime sono sempre gli umani, costretti, bambini compresi, a vagare e rovistare tra rovine, rottami e cadaveri, rifugiarsi in immondi scantinati… 

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