(foto Ansa)

Perché la guerra in Ucraina è un tuffo nel Novecento

Giovanni Belardelli

Cosa ci manca per accettare la morte in guerra: un’idea, una fede, un valore

Di fronte alla determinazione degli ucraini di resistere con le armi contro l’invasore russo a difesa della loro libertà e indipendenza, c’è una domanda che probabilmente ha attraversato la mente di molti di noi: ove ci trovassimo nella loro condizione, ne saremmo capaci? E’ da presumere che la risposta sia stata negativa, perché da tempo in Italia, come in gran parte delle democrazie europee, giudichiamo magari legittimo in linea di principio imbracciare le armi contro l’aggressore, ma in pratica non ci consideriamo più in grado di farlo. Questo ci mette di fronte a una delle più profonde trasformazioni culturali avvenute in questa parte del globo, sulla quale non ci siamo mai interrogati a sufficienza, forse nella convinzione che Marte avesse abbandonato per sempre i nostri lidi. Neppure le guerre nella ex Jugoslavia avevano scalfito questa convinzione.

I due conflitti mondiali del Novecento, e soprattutto il secondo con le sue decine di milioni di morti tra civili e militari, hanno molto contribuito a generare nei paesi dell’attuale Unione europea un particolare orrore per il ricorso alle armi. Nella sua essenza la guerra consiste nel mettere in gioco vite umane, dunque nell’uccidere e nel morire. Per accettare l’una cosa e l’altra bisogna potersi appoggiare a un valore condiviso, che trascenda la vita del singolo. Questo valeva per le truppe di Enrico V d’Inghilterra che si apprestavano a combattere ad Azincourt durante la Guerra dei cent’anni (spronate dal celebre discorso di san Crispino immaginato da Shakespeare) così come valeva per i patrioti che durante il Risorgimento tentavano, magari illudendosi, di sconfiggere con un’insurrezione armata gli Asburgo o i Borboni. Non a caso Mazzini, nemico feroce della Chiesa cattolica, dava però alla sua predicazione politica un connotato religioso tale appunto da giustificare la perdita della vita.

Un secolo fa o poco più, in Italia migliaia di giovani vollero partire volontari per la guerra, con l’obiettivo di strappare all’Austria territori abitati da popolazioni di nazionalità italiana. Quei giovani sarebbero stati in ogni caso chiamati alle armi e dunque al fronte sarebbero dovuti andare comunque; ma non volevano aspettare e in tanti si affrettarono a partire, spesso trovando la morte. Certo erano una minoranza che apparteneva alla borghesia colta, di ispirazione liberale-risorgimentale; ma erano una minoranza che aveva dei valori sufficienti a dare un senso alla propria morte, sicuramente messa nel conto. E gli esempi potrebbero continuare, naturalmente: dalle Brigate internazionali durante la guerra di Spagna alle formazioni partigiane di vario colore (ma anche a molti giovani combattenti dalla parte sbagliata, quella della repubblica di Salò) nell’Italia del 1943-45.

Ecco, un’idea, un valore, una fede per cui valga la pena morire (e uccidere, non dimentichiamolo) da tempo non li abbiamo più. O almeno abbiamo idee, fedi, valori troppo debolmente sentiti per giustificare la perdita del principale bene individuale: la vita. Qualcuno forse ricorderà cosa fa dire a Pisacane, approdato sulla costa campana con l’idea di liberare il Mezzogiorno dai Borboni, l’autore della Spigolatrice di Sapri: a quest’ultima, che gli chiede cosa sia venuto a fare nella sua terra, risponde “vengo a morir per la mia patria bella”. Parole che avranno ancora commosso i giovani volontari della Prima guerra mondiale, ma che penso oggi facciano sorridere i più tra i loro pronipoti. Per molte ragioni, a cominciare naturalmente dalla torsione militarista e aggressiva che l’idea di nazione ha assunto per colpa del fascismo, i riferimenti patriottici – decisivi in una guerra difensiva  – sono ormai percepiti debolmente. Sono anzi guardati con sospetto da democrazie che, come la nostra, si fondano su un’ideologia dei diritti universali che vede i cittadini quali membri di una democrazia che abbraccia l’intero globo e non deve essere condizionata, si ritiene, da anguste limitazioni nazionali.

Nel processo di secolarizzazione, particolarmente rapido, che ha interessato l’Italia repubblicana, non solo si sono svuotate le chiese ma si è scolorito, nonostante i lodevoli sforzi di qualche presidente della Repubblica, il sentimento di appartenenza nazionale. Il benessere, arrivato a partire dagli anni del cosiddetto miracolo economico, ha fatto il resto, ha riempito la nostra vita di beni e comodità diventati presto irrinunciabili, rendendoci poco disponibili – sia detto come constatazione e senza alcun giudizio moralistico – a sacrificare l’esistenza in una guerra ancorché di difesa.

Del resto, non stiamo parlando di un fenomeno solo italiano. Perfino per una grande potenza militare come gli Stati Uniti diventa sempre più difficile accettare che i propri cittadini muoiano in guerra. E’ questa difficoltà che ha alimentato negli ultimi anni l’idea delle guerre casualty free, a zero vittime, perché combattute con mezzi militari ipertecnologici (o magari da contractors di fatto apolidi). Le notizie che arrivano dall’Ucraina ci riportano invece indietro a una guerra molto più tradizionale, di tipo novecentesco, in cui l’unico paese democratico tra i due in conflitto può combattere come sta facendo solo perché è ancora animato dall’idea che la propria libertà e la propria terra vadano difese a ogni costo.

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