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Quando il cronista Tondelli scriveva con gli occhi e in tempo reale

Enrico Veronese

A Correggio il 16 dicembre 1991, trent'anni fa, moriva Pier Vittorio Tondelli, mentre esplodeva Ligabue e le stragi sono diventate quelle del sabato sera. Ancora oggi non è chiaro dove finisse il cronista e cominciasse il romanziere

Qualcuno, come i padri e i nonni in altre epoche, era stato chiamato al servizio militare lontano da casa, nei primi anni Ottanta, senza capire perché. Qualcuno allora era Giovanotto Mondano Meccanico, videoartista raggelato dalla luce dei faretti: sfogliava i fumetti di Igort, andava alle feste del mercoledì sera e a teatro quando c’erano i Magazzini Criminali. Chi, boccalone del riflusso, precipitava fuori corso leggendo ogni mese la rubrica Culture Club dentro Rockstar. Qualcun altro era libertino, flâneur dei rapporti a rischio nell’Italia contornata dal temuto alone viola. I giovani scrittori under 25, come Culicchia e Romagnoli, a cavallo delle decadi di scarto, prima del pulp. E la fauna degli aspiranti giornalisti, cresciuti nell’esempio di Marco Bauer, poi dispersi dentro i blog o a fatica nelle redazioni. Per tutti loro, Vicky Tondelli – Pier secondo i postumi – aveva una parola e anche più: nato e morto a Correggio, Emilia sognante fra l’oggi e il domani, se ne andava a soli 36 anni il 16 dicembre 1991, mentre esplode Ligabue e le stragi sono diventate quelle del sabato sera.

Cronista e romanziere (non è chiaro dove finisse l’uno e cominciasse l’altro), Tondelli era un provinciale forse non consapevole della propria avanguardia: formato da Celati – e si capisce – prediligeva il formato del racconto, mai tirato troppo per le lunghe. Scriveva con gli occhi, facendo fare alla lingua balzi in avanti irreversibili: gergale, locale, internazionale, il suo italiano era quello dello scout che notava il divenire delle cose in tempo reale, no future di un Settantasette vissuto quasi di straforo. Come Andrea Pazienza, molto l’autore è stato valutato dopo la sua morte da chi ne aveva poco conosciuto l’opera in vita: tutto un “Tondelli cosa scriverebbe”, generazioni successive che hanno smesso di esistere nei media quando si è smesso di raccontarle qui e ora, da nessun entomologo dell’Abbandono e del Postmoderno.

L’osservatore PVT indulgeva, senza giudicare, le innocenti evasioni altrui, mettendosi in mezzo senza schermare le proprie: fuggire dall’impegno diretto non ne faceva un cinico qualunquista, bensì un individuo che stava prendendo atto di come le grandi narrazioni novecentesche – proprio nella sua terra di cibo e motori, lusso e balere – stavano segnando il passo. Tanto valeva occuparsi di moda e di mode, grattare il gel delle figurine Fiorucci: non il sol dell’avvenir, ma le rivendicazioni pragmatiche dei “ragazzi dell’Ottantacinque”, di cui si sentiva fratello maggiore, o zio benevolo e un po’ invidioso. Dal camp di Arbasino, nella sua eredità il vocabolo fauna per identificare i perdinotte dark-wave seduti sopra il marmo di San Simeone a Venezia, come i pionieri che frequentavano Berlino pochi anni prima del crollo del Muro: “D’improvviso non mi sento più in guerra”, scriveva a metà della decade. “So che questo sentimento non ha a che vedere con il Natale né con il nord, che è sempre il sud di qualcos’altro, né con Berlino. È una cosa che ha a che fare con la mia vita, qualcosa di intimo e soffice che mi fa star bene, improvvisamente, in quella notte, solo sopra un autobus, avviato per le strade della mia metropoli”.

E poi lasciare tutto all’improvviso, legittimando le aspirazioni personali di una generazione mai prima artefice del proprio destino, al di là del disegno paterno: “Per anni avevo inseguito quelle luci, desiderando più di ogni altra cosa di essere io un faro. E invece ancora, a ventisette anni, dovevo accontentarmi di ammirarle da lontano, dall’altra parte, attraverso i cristalli di una finestra. Non brillavo da solo. E questo invece, da anni e anni, io desideravo. Volevo di più, molto di più per la mia vita, volevo essere là. Volevo il successo e volevo la lotta. Volevo infrangere quei cristalli e gettarmi dall’altra parte, fra quei bagliori, e bruciare. Sentivo che era l’occasione giusta”.

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