'Felicità', il graffito su una strada ad Amsterdam (Foto Unsplash)

Da Aristotele a Freud

Quant'è problematico parlare di felicità in questo nostro mondo

Sergio Belardinelli

Non c’è concetto che esprima e riassuma altrettanto bene le nostre aspirazioni, i nostri desideri, le nostre speranze. Un tema inattuale mai così necessario

Non c’è concetto che esprima e riassuma altrettanto bene le nostre aspirazioni, i nostri desideri, le nostre speranze, quanto il concetto di felicità. Eppure, come dimostra in modo eloquente la storia della filosofia, è assai difficile determinarne con precisione i contorni o darne una definizione che sia accettata da tutti. Al pari di quanto Agostino diceva del tempo, anche della felicità si può dire che ci è chiaro che cosa essa significhi solo finché non proviamo a definirla. Ma forse proprio per questo vale la pena parlarne, incoraggiati dai giganti che lo hanno fatto prima di noi e dalla convinzione che, per fortuna, non è necessario definire con precisione un concetto prima di usarlo in modo sensato. 

 

Per Freud, ad esempio, ogni volta che ci chiediamo che cosa gli uomini pretendano dalla vita, che cosa desiderino ottenere da essa, “è quasi impossibile mancare la risposta: tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici”. Anche Aristotele, come sappiamo, era dello stesso avviso. Ma il fatto che tutti gli uomini tendano alla felicità, non vuol dire che sia chiaro che cosa essi intendano perseguire. Da un lato, infatti, sembra certo che il concetto di felicità racchiude un po’ tutto ciò che è desiderabile e ha valore per gli esseri umani; dall’altro, però, è pur vero che ciò che ha valore ed è desiderabile per un uomo non lo è per un altro e che spesso insorgono conflitti persino tra le aspirazioni, i desideri, i valori di uno stesso uomo. Chi di noi riuscirebbe a perseguire tutti gli scopi che vorrebbe? Quale criterio di selezione scegliere? Il piacere, la soddisfazione immediata dei desideri, man mano che si presentano? Oppure per essere felici, c’è bisogno di essere in qualche modo “coltivati” e quindi di “coltivare” ciò che siamo? Ma allora perché gli uomini migliori, quelli cioè più buoni, più “coltivati”, subiscono spesso l’ingiustizia e addirittura la morte? Perché i momenti che sembrano di felicità piena sono così effimeri, così poco duraturi? Infine, parlando di felicità, siamo di fronte a una realtà determinata, oppure a un’emozione passeggera o a un inganno più o meno “lieto”, come direbbe Giacomo Leopardi? 

 

Sono tutte domande che indubbiamente denotano la complessità del problema, nonché i limiti della nostra condizione umana. Seguendo grosso modo Aristotele, ci vorrebbe uno scopo capace di realizzarsi in tutti gli scopi che perseguiamo e in quelli che decidiamo di non perseguire; uno scopo che sia saldamente ancorato al nostro “bene”, al bene della natura umana; uno scopo che diventi un compito che ognuno di noi è chiamato faticosamente a realizzare; un compito, il quale, proprio perché  di un compito si tratta, non può prendere per buono l’unico criterio di felicità che sembra essere rimasto nella cultura contemporanea: il “principio del piacere”. 

 

Mi rendo conto ovviamente che ciò che è bene per l’uomo debba essere in qualche modo anche piacevole; una felicità penosa sarebbe una contraddizione in termini. È difficile essere felici in una situazione di bisogno o di desideri insoddisfatti. Dubito tuttavia che per raggiungere la felicità sia sufficiente “trasformare il corpo umano da strumento di fatica in strumento di piacere”, come auspicava Herbert Marcuse nella “Prefazione politica” che scrisse nel 1966 per uno dei suoi scritti più celebri, Eros e civiltà. A questo proposito viene in mente, quasi automaticamente, il Gorgia platonico. Callicle, uno dei personaggi del dialogo, aderisce alla politica di soddisfare i desideri appena essi sorgono. “Ma sì; la vita felice sta appunto nel provare tutti i desideri possibili e nel godere di poterli soddisfare”. Socrate gli obbietta che in questo modo felice sarebbe colui che, avendo prurito, può grattarsi per tutta  acconsente, poiché è convinto che la felicità consista appunto nell’avere desideri e nel poterli soddisfare. Precisamente la stessa convinzione che troviamo alla base dell’odierna logica del consumo. La natura degli uomini, si dice, è plastica, flessibile, dipendente da sollecitazioni che non si possono determinare a priori.

 

Chi avrebbe mai immaginato che avremmo potuto soddisfare, il desiderio di andare sulla luna? Chi avrebbe mai immaginato che, anziché usare il telefono per chiamare qualcuno, si potesse chiamare qualcuno per usare il telefono? Per mio nonno sarebbe stato addirittura impensabile che il desiderio di dimagrire potesse diventare un desiderio di massa. Eppure l’impensabile è divenuto realtà. Ma proprio per questo rischiamo di rimanere vittime di una sorta di prurito senza fine. Proprio per questo, come nel Gorgia platonico, è urgente guadagnare una prospettiva che ci consenta di dire “che il bene e il piacere non sono la stessa cosa”, e che pertanto conviene “tenere a freno” l’anima “nei sui desideri e non concederle di fare se non quello per cui potrà divenire migliore”. 

 

Sennonché è proprio questo criterio normativo che oggi è diventato estremamente problematico. In una società pluralista, si dice, esistono diverse concezioni del “bene”; non ha quindi alcun senso che una di queste possa essere considerata valida universalmente o addirittura possa diventare vincolante per tutti, senza che a rimetterci siano proprio il pluralismo, l’autonomia, la libertà e, quindi, la felicità degli individui. È pur vero tuttavia che l’identificazione della libertà con la capricciosa spontaneità del desiderio non funziona più o almeno non è più sufficiente per garantire, sia sotto il profilo individuale che sociale, una vita soddisfacente. Proprio se abbiamo a cuore una società migliore, un maggior grado di benessere, una migliore qualità della vita individuale e sociale, alla quale, sia chiaro, appartiene anche la libertà di scelta e la sovrabbondanza dei beni di consumo che molti di noi si possono oggi permettere, non possiamo più rinviare una discussione di fondo sulle idee di benessere, di vita buona o di felicità che intendiamo perseguire.

 

Non discuterle perché in una società pluralista esse stanno diventando sempre più controverse, significa fare come gli struzzi per non vedere quella che certamente è una delle cause non secondarie dell’odierno malessere sociale. In ogni caso su questo genere di ripieghi e sulla convinzione che alla fin fine si tratta semplicemente di accrescere il nostro benessere materiale, la nostra capacità di consumo o le nostre capacità di scelta, senza guardare a ciò che si sceglie, quindi al criterio normativo che le guida, vedo incombere come un macigno l’amarezza di una pagina molto bella di Max Horkheimer: “Anche se le rivoluzioni e il progresso tecnico consentono nuovi ordinamenti con una maggiore giustizia materiale, tuttavia la cultura non ha diffuso in maniera corrispondente, fra coloro che furono oppressi, quella capacità di felicità che un tempo fu propria dei signori”.

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