"Pagliacci", opera lirica in due atti su libretto e musica di Ruggero Leoncavallo, interpretato da Enrico Caruso (foto Flickr)

Obbligo di felicità

Maurizio Fiorino

Corsi di autoaiuto, pubblicità, cibo e benessere. La beatitudine social è la malattia del nostro tempo. Ma siamo pur sempre il paese di Leopardi

Roma, interno sera, luci soffuse e involtini bio con curcuma e salmone. Festa di amici che dopo una breve crisi di coppia sono tornati insieme. Per l’occasione hanno deciso di condividere e diffondere la loro felicità ritrovata, come hanno tenuto a precisare nell’invito arrivato via whatsapp, dandoci appuntamento a casa loro, un giovedì sera qualunque. E noi, i loro amici un po' tristi, rimasti al buon vecchio psicoterapeuta una volta alla settimana e agli infelici molti e i felici pochi di Elsa Morante, che cerchiamo la felicità chi andando a Lisbona per un weekend lungo, chi consumandosi le dita scartando altri individui tristi su Tinder, chi leggendo le stroncature cinematografiche della Mancuso, siamo accorsi numerosi. L’happy couple ha trovato la soluzione alla loro crisi in America grazie a un corso online tenuto da una certa Martha. “Una terapista di coppia?” chiedo. “Macché. Una life coach, cioè una maestra di vita”, rispondono loro due all’unisono, offrendoci poi quadratini di pane integrale con dentro le noci – “Bonci o Mosca?” domandiamo – e sopra olio extravergine di oliva. A quel punto uno dei nostri amici (infelici molto), chiede quello che tutti vogliamo sapere, il prezzo. Loro fanno gli gnorri. “Del pane o dell’olio?”. No, di Martha. Tossiscono, poi dicono “i soldi meglio spesi”.

 

Verso la fine della serata, la mia amica mi ha preso in disparte per dirmi che la vera rivoluzione oggigiorno è essere felici e io rispondo che “beh, di questi tempi anche andare a mangiare il cinese da Sonia è rivoluzione”.

Lei ha sorriso e poi ha detto quel che voleva dirmi da giorni. “Sembri triste”.

“Ma chi, io?”, cado dalle nuvole. Le rispondo che non sono mai stato così tranquillo in vita mia e che insomma, arranco ma me la cavo. “Sai, il lavoro, insomma, sto iniziando a piazzare qualche articolo, le foto vanno bene, il libro nuovo procede, l’amore, e…”. L’amica sorride con l’aria apprensiva. Alla fine getto la spugna. “Dici che sono triste?”.

“Un pochetto”, lei, sguardo vitreo, impassibile. Le spiego che se non sono un po’ triste non creo e che se non creo non guadagno, anzi non fatturo come dicono a Milano. Me l’ha detto pure la mia psicologa, pare si chiami tristezza creativa.

“Ah, se lo dice lei”.

 

Ma come, adesso ripudiamo anche Freud? Non ci sto a passare per una performance ambulante di Marina Abramovićc e così, quando arrivo a casa, cerco subito l’etimologia di felicità dentro l’ultimo libro di Andrea Marcolongo, che ormai ha sostituito il mio website preferito, etimo.it. Parentesi: lo sapete, vero?, che se non avete fatto il Classico e volete fare un figurone a un appuntamento, basta assentarsi un attimo, andare in bagno, togliere fuori lo smartphone e consultare etimo.it, per poi tornare con l’etimologia bella e pronta dell’argomento di cui si stava parlando. Un successone. Ad ogni modo, queen Marcolongo scrive che “prima di buttare via tutto e di fare le valigie per fiondarci alla ricerca di chissà chi o di chissà cosa, ricordiamoci di guardare bene intorno e soprattutto dentro, per vedere cosa nasconde quella strana inquietudine che a volte ci prende”. E continua: “La felicità spesso è piccola, ordinaria, discreta, semplice”. E il pensiero torna alla coppia di amici che hanno trasformato questa massima in “la felicità è spesso Barry’s Bootcamp, yoga, ape e pokè”. 


L’happy couple ha trovato la soluzione alla crisi in America, grazie a un corso online tenuto da una certa Martha. Costosissima


 

 

Mando un vocale alla mia amica chiedendole qual è stato il primo consiglio pratico di Martha e lei risponde “svuotare i nostri armadi di robe vecchie e iscriverci insieme in palestra. Se non stai bene col fisico con stai bene neanche con la testa”.

“Vabbè, capirai”, le dico, “mens sana in corpore sano. Lo diceva anche Giovenale, eh, non c’era mica bisogno di una Martha qualunque”.

“Come sei fuori tempo”.

 

La moda di essere felici a tutti i costi arriva dall’America ed è cominciata tanti anni fa. Ricordate quei film, negli anni Ottanta, in cui si vedevano quelle sale riunioni gremite di uomini e donne di tutte le età e davanti a loro, al centro del palco, stava un guru che incitava a diventare persone migliori e di non credere a chi li demoralizzava? E loro, cioè noi, gli sfigati, ci alzavamo a turno e urlavamo “yes, io valgo!”. Ecco, quegli incontri avvenivano realmente e i guru esistevano sul serio. Esistono ancora, solo che oggi si chiamano life coach, ché guru faceva un po’ troppo Osho o Dalai Lama. 


Pare che adesso, negli Stati Uniti dove il podcast Chasing Joy fa numeri da capogiro, non bisogna più cercare la felicità ma la gioia


 

Dopodiché sono esplosi i libri cosiddetti self help, che a inizio anni Novanta erano popolari quanto i videogames e nelle varie catene Barnes&Noble avevano interi reparti a loro disposizione, con titoli tipo “Il potere di pensare positivo”, “Creare miracoli nella vita quotidiana” e “Risveglia il tuo gigante interiore”. Già nei titoli era tutto ingigantito, esagerato, come se l’umanità fino a quel momento non avesse capito niente ed ecco spiegato il motivo di tanto dolore: bisognava essere felici. La ricerca della felicità, insomma, è diventava un business. Prendete per esempio Lululemon, l’azienda nata nel 1998 e che all’inizio realizzava soltanto pantaloni per fare yoga che avevano lo stesso prezzo di due mesi di abbonamento in una palestra per praticarlo. Se non indossavi un capo Lululemon eri una very negative person. E tutti a indossarli. Capita l’antifona, i loro capi hanno deciso di puntare su un marketing passivo aggressivo tutto incentrato sul be happy a tutti i costi, tappezzando le città americane di messaggi positivisti tipo “suda almeno una volta al giorno per rigenerare la tua pelle”, “Fai ogni giorno una cosa che ti spaventa” , “Balla, canta, passa il filo interdentale e viaggia” e “gli amici sono più importanti dei soldi”. Certo. Detto da loro, poi.

 

La felicità nel corso degli anni è entrata ovunque nelle nostre tristi vite. E’ stata usata per vendere la Coca Cola, i divani Ikea, lo shampoo, gli assorbenti, le automobili, addirittura per aprire un conto in banca. E vi prego, correte su YouTube e guardate lo spot che la Nutella ha messo online per lanciare i loro biscotti. Nel video, l’attore non fa in tempo ad avvicinarsi la pasta frolla in bocca che subito sorride e fa un’espressione di chi nella vita, fino a quel momento, non aveva capito nulla. Sembra dirci “non mi danno il mutuo? Chissene. Basta mangiare un Nutella biscuit e tutto passa”. 


Chiedo qual è stato il primo consiglio pratico di Martha: “Svuotare gli armadi di robe vecchie e iscriverci insieme in palestra”


 

“L’aggettivo italiano felice”, ancora la Marcolongo, “deriva da fertile, fecondo. Essere felici non significa quindi non avere problemi, contrattempi e vivere un’imperturbabile stato di quiete”. Il fatto è che gli europei, e noi italiani in particolar modo, non siamo mica gli americani, per dirla alla Vasco. Abbiamo un background diverso, noi. La tristezza ce l’abbiamo nel dna. Noi siamo figli di Giacomo Leopardi, il più triste dei tristi, di Tenco e dei suoi occhi che l’amavano tanto. Abbiamo reso celebre la parola spleen, ovvero il male di vivere, rispolverato da Baudelaire ma già in voga nel romanticismo. Françoise Sagan, alla tristezza, ha dato il buongiorno nel suo romanzo più famoso e Ivan Graziani ha regalato a Firenze la sua canzone triste. Potremmo procedere all’infinito ma non possiamo far finta di non sapere che negli anni Ottanta, mentre gli americani si preparavano a scrivere tomi su come essere felici, a Sanremo noi mandavamo Albano e Romina a cantare che la felicità, semplicemente, era aspettare l’aurora per farlo ancora. Insomma, alla mentalità a stelle e strisce noi abbiamo risposto mettendo in mano alla loro statua della libertà un vibratore, e gli abbiamo fatto capire che “sono solo seghe mentali” (Gianna Nannini docet). Ecco perché quel capolavoro del Joker di Todd Phillips ha fatto così tanto discutere in America e non. Il pagliaccio alienato di Gotham City, che forse varrà a Joaquin Phoenix il suo primo Oscar, a un certo punto del film dice “non sono mai stato felice un solo minuto della mia vita”. E va da sé che la mente, in automatico, si sposta a “Pagliacci”, il capolavoro di Leoncavallo, che ha anticipato tutti i pagliacci del mondo, da Oscar e non, con quei versi rimasti nella storia: “Sei tu forse un uom? Ah! Ah! Ah! / Tu se’ Pagliaccio! / Vesti la giubba e la faccia infarina. / La gente paga e rider vuole qua”.

 

Insomma pare che si debba essere felici a tutti i costi e che la felicità sia sinonimo di perfezione. Ma noi siamo esseri umani, mica robot. E siamo belli perché imperfetti e pieni di sbagli. E poi così ragionando si instaura l’idea che se qualcosa non va per il verso giusto è perché si è in qualche modo persone negative o tristi. Andrà a finire che torneremo a farci togliere la negatività dalla fattucchiera di paese. Sempre la Marcolongo ci spiega che triste è un’aggettivo di trasmissione dotta. In linguistica vuol dire che il termine ha fatto “quel viaggio per cui un lemma entra nel vocabolario non per bisogno, ma perché per primo l’ha usato un poeta. Non si sa quasi mai chi sia stato. Si sa solo che, a parole, ne sapeva più di noi”. L’angoscia legata alla creazione è sacrosanta e oggetto di lunghissime discussioni. E’ risaputo che senza una buona dose di malinconia non saremmo stati santi, poeti, né navigatori. E in fondo siamo italiani anche per questo. 


Siamo figli di Giacomo Leopardi e di Luigi Tenco. Di “Pagliacci”di Ruggero Leoncavallo. Abbiamo reso celebre la parola spleen 


Esiste poi una classifica che si chiama World Happiness Report, ovvero un rapporto sulla felicità mondiale. Noi italiani non ce la caviamo male, siamo trentaseiesimi su 159. Ai primi posti stravincono i paesi dell’Europa del nord, dove piove sempre, e gli Stati Uniti di Trump sono al diciannovesimo posto. Alla tristezza è stato dedicato un giorno dell’anno, ovvero il terzo lunedì di gennaio. Secondo Cliff Arnall, uno psicologo dell’università di Cardiff, nel Galles, il Blue Monday, così si chiama, è stato calcolato considerando il brutto tempo di inizio anno, la difficoltà di riprendere la routine dopo le feste di Natale e i sensi di colpa per aver mangiato troppo. In pratica: cibo, festeggiamenti e un clima che la domenica ti costringe in casa a non far niente, invece che andare a spasso per musei: cosa ci potrebbe essere di peggio al mondo? Una nuova moda che ci dice cosa dobbiamo essere e cosa diventare? Ovviamente sta arrivando.

 

Pare che adesso, negli Stati Uniti dove il podcast Chasing Joy (tradotto: inseguire la gioia), fa numeri da capogiro, non bisogna più cercare la felicità a tutti i costi ma la gioia, perché c’è enorme differenza fra le due cose. Ingrid Fetell Lee è l’autrice di un libro il cui titolo sarebbe “Il potere sorprendente delle cose ordinarie per creare una felicità straordinaria” ma che in Italia è stato trasformato in “Cromosofia, forme e colori che rendono la tua vita felice” uscito per Sperling & Kupfer l’anno scorso. Secondo l’autrice dovremmo cercare la gioia nelle piccole cose, tipo frequentare di più i bar dai muri eccentrici e vivaci e le mercerie che espongono stoffe colorate. Luoghi semplici, sostiene lei, in cui spendere, aggiungiamo noi. Perché dovremmo prendere il caffè a casa nostra, che ovviamente è una casa triste, e indossare i vecchi pantaloni usati se possiamo andare in merceria a rappezzarli? Fino a poco tempo fa di terapeutico c’erano lo shopping e il cioccolato. Ora bisogna mettere le toppe ai vestiti e mangiare cioccolata si può (non al latte però, che fa male). Tanto nessuno ci dirà che siamo ingrassati, al massimo diventiamo curvy. In un articolo uscito sul New York Times qualche mese fa dal titolo: “Viviamo in un mondo post-felicità?”, l’autrice del libro ha spiegato che molte persone non sanno cos’è la felicità e che trovano difficile definirla. “Al contrario la gioia è fatta in momenti che, per loro natura, sono fugaci. Non ho bisogno di essere felice per provare gioia”. In poche parole: la felicità è soggettiva perciò sfuggevole, quindi non classificabile. In pratica ci hanno venduto la felicità tout-court per anni per poi venirci a dire che no, ora è meglio cercare la gioia. Ma quindi dobbiamo essere felici o gioiosi? E si può essere un po’ tristi nell’essere gioiosi? Ce lo dirà qualche altro americano tra qualche mese. Però che ansia. E vuoi vedere che tra un po’ verranno a dirci, a noi europei, che un po’ di sana tristezza, alla fine, è cool?