Come una battuta può essere uccisa da un dibattito grottesco e inquisitorio

Matteo Marchesini

L'ultimo caso è la vignetta di Andrea Bozzo sui "talebani inclusivi", prontamente censurata da Facebook: basta lasciare che il ricatto agisca perché lo spirito dell’inquisizione cominci a prevalere

E’ stato detto quasi tutto sul caso che intorno a Ferragosto ha coinvolto Andrea Bozzo; ma forse vale la pena aggiungere ancora qualche nota a margine, e da quella vicenda così paradigmatica allargare lo sguardo alla forma mentis che provoca certi dibattiti surreali. Il disegnatore aveva postato su Facebook una vignetta in cui, per ironizzare sui talebani che si propongono come “inclusivi”, li immaginava utilizzatori di asterischi e schwa.

 

Senza nulla comprendere, il sito Gaypost e la senatrice Cirinnà hanno visto nella vignetta un insulto al mondo lgbtq. E’ partita una raffica di segnalazioni, e Bozzo è stato sospeso dal social. Il suo caso ribadisce che abbiamo ormai un grosso problema con la comunicazione non immediatamente edificante. Il problema, del resto, riguarda anche i vignettisti. Sempre più spesso mi capita di vedere vignette che a differenza di quella incriminata sono appena retoriche conferme di ciò che è giusto pensare e sentire. E’ il mondo di Biani, in cui anche solo “Cuore” sarebbe impossibile; e in cui presto, forse, oltre a Bozzo non si capirà nemmeno più Altan. Ma al di là dei veri e propri errori d’interpretazione, c’è un grande assente nelle discussioni sui rapporti tra lingua, sesso, genere, società e leggi: l’umorismo, il cui posto è usurpato da un’attitudine intimidatoria che sui social si mostra allo stato selvaggio. In particolare, riaffiora una dinamica che la modernità ideologica ha reso tristemente celebre: quella per cui su chi si esprime grava la minaccia del “guarda che così fai il gioco di” (dei maschilisti, delle terf, eccetera).

Basta lasciare che il ricatto agisca, e farsi trascinare sulla strada cieca che apre in mezzo al dialogo, perché lo spirito dell’inquisizione cominci a prevalere. Allora le patenti da esibire non basteranno mai, le frasi diventeranno sempre più contorte e cavillose; e quando, in un futuro ideologicamente lontano, i posteri ripercorreranno quelle discussioni, per trovare un po’ di verità utile dovranno attraversare enormi foreste intricate e sterili di chiose, riverenze, dichiarazioni di fede o di eresia. In un’altra vignetta, Bozzo ha riassunto tutto questo esibendo come autogiustificazione una prolissa “spiega”, e illustrando così, con sintesi magnifica, il modo in cui una battuta viene uccisa da un dibattito grottesco. Ma se le dinamiche sono vecchie, coloro che le fanno scattare hanno un curriculum diverso dai loro antenati moderni. La pedanteria, l’inclinazione inquisitoria e la mancanza di umorismo, che lungo il Novecento furono tipiche dei funzionari e degli ideologi di partito, nelle ultime generazioni depoliticizzate e iperscolarizzate sono state spesso acquisite per via universitaria (humanities). A volte le persone che le incarnano in maniera estremistica sembrano conoscere un solo genere: la tesi.

Credono che seppellire qualunque tema sotto un robotico rimuginio argomentativo renda tutto più serio e raffinato, mentre invece denuncia una rozzezza originaria: la mancanza di quel tatto che permette di dosare il tono, lo stile e la portata della reazione, commisurandoli all’oggetto. Quando si entra nel tunnel di una discussione con questi infaticabili ruminatori, bisogna proprio lasciare ogni speranza. Anche davanti a una battuta flaianea del tipo “l’italiano è una lingua parlata dai doppiatori”, subito inarcherebbero le sopracciglia e chiederebbero: “In che senso italiano? Definiamolo prima: s’intende quello generalista? Gergale? Di quale categoria? E di quale scuola di doppiatori stiamo parlando? Non capisco. E’ davvero un’imprecisione buttarla lì così, senza distinguere Ferruccio Amendola da Pannofino. Ci sono doppiatori che hanno un italiano molto forbito eppure autentico…”.

 

Don’t feed the scholar, verrebbe da dire. Ma spesso, quando è applicata alle questioni che toccano il genere, il sesso, la lingua “inclusiva” o certe eredità storico-culturali contestate, la critica a questi modi viene considerata un’eco di polemiche destrorse. “Cioè qui abbiamo un razzismo che cresce ovunque, abbiamo i titoli alla Libero, un’emarginazione femminile cronica e i fascisti in piazza, ma per voi il problema è il politicamente corretto o la cancel culture?” ci hanno ripetuto in questi anni molti rappresentanti progressisti.

Così però la questione è male impostata. Perché si tratta di due piani diversi – non privi di rapporti, ovviamente, ma diversi. Si può, e si deve, lottare senza nessun “ma” contro razzismo, misoginia, omotransfobia e sottoculture autoritarie; e allo stesso tempo si può, e si deve, lottare senza nessun “ma” contro gli zdanovismi e i toni inquisitori che compromettono un dibattito culturale in cui occorre salvaguardare la libertà assoluta dell’intelligenza, mentre invece si tende sempre più a difendere il capitale della propria autorappresentazione mediatica. Dico questo soprattutto ad alcuni militanti della sinistra e della galassia (ex?) radicale, che mi sembra abbiano cominciato ad allontanarsi dalle radici migliori del loro retroterra politico. Tempo fa, mentre gli opponevo gli argomenti di cui sopra, un amico mi ha accusato di non vedere che al di là di inevitabili errori o forzature la priorità è oggi quella dei movimenti di emancipazione come il Me Too, e di giocare con un bersaglio facile come i vecchi editorialisti (maschi cis!) dei grandi giornali. Preferivo forse quel che c’era prima, cioè il silenzio? Ripeto qui la risposta che gli ho dato, augurandomi che serva anche ad altri. Quando Sciascia scrisse sui “professionisti dell’antimafia”, molti lo accusarono: “Ma come, colpisci chi si batte contro la mafia in un momento così delicato? E sul Corrieraccio? Preferivi l’omertà degli anni Settanta?”. Invece aveva perfettamente ragione. Sapeva, soprattutto, che la retorica irresponsabile e gli strumenti inquisitori finiscono ritorcersi contro le vittime di sempre. Ecco: ho il sospetto che oggi, travolti dallo Spirito del Momento, alcuni amici radicali starebbero dalla parte di Nando Dalla Chiesa e contro Sciascia. Spero di sbagliarmi.
 

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