Nella foto: “Morning Sun”, 1952, di Edward Hopper

Settembre, "Il lunedì dell'anno"

Chiara Galeazzi

Chi denigra settembre lo chiama così. Io invece lo amavo, finché non sono arrivati Covid e partita Iva. Diario spassionato fra rimpianti (geometra, dove sei?) e buoni propositi (evitare le persone che rovinano le battute)

Settimana scorsa trovai un post su Tumblr con la condivisione di una stories di Instagram che riportava un tweet con scritto: “August is the Sunday of the year”. Scusate la struttura cumulativa della frase precedente che neanche Branduardi, ma l’idea che il contenuto di una piattaforma venga spalmato su altre due senza neanche provare a farlo passare come originale mi aiuta a far pace con l’eccessivo impegno dedicato alla produzione per i social, tra chi si sobbarca la lettura di tutti i quotidiani per produrre rassegne gratuite, e chi sta 20 minuti su tre applicazioni diverse per togliere tutti i pori da un selfie. C’è qualcuno su Twitter che almeno ha fatto lo sforzo di tradurre la frase in italiano: “Agosto è la domenica dei mesi”, e qualcun altro che si è sentito ancora più originale dei primi ha aggiunto: “Settembre è il lunedì”.

 

Entrambi i paragoni sono contestabili, ad esempio qualcuno potrebbe trovare più domenicale il mese di dicembre: la grande festività religiosa che mischia gioia e malinconia, il clima rigido che rende complessa qualsiasi occasione di reale festeggiamento e quella costante preoccupazione verso il futuro generata da domande come: “Che cosa facciamo a Capodanno?”. Per chi vede il lunedì nella prospettiva di Zižek, per cui lo odiamo in quanto odiatori del capitalismo, gennaio vince sopra settembre come lunedì dell’anno: clima ancora più rigido, imposizione di buoni propositi che falliscono in pochi giorni e le nostre funzioni vitali messe fuori gioco dagli eccessi del mese precedente. Settembre a suo modo sa essere divertente, con tutto quel suo contorno di frivolezze di una vera nuova vita, “una nuova me”, da raccontare durante le ultime serate all’aperto, con ancora l’abbronzatura e l’illusione che non se ne andrà mai dalla pelle.

Per anni amai settembre alla follia: prima c’erano i diari da scegliere e l’idea che in quell’anno scolastico avrei davvero cominciato a studiare, poi ci sono state le agende Moleskine e l’idea che quell’anno avrei davvero capito che fare della mia vita. Gli speciali delle riviste di moda con i trend per l’autunno/inverno mi facevano sognare maglioni e pantaloni lunghi dopo mesi di lamette e due pezzi poco valorizzanti. Avrei scelto un cappotto nero invece di quello blu. Avrei preso una borsa invece di uno zaino. Tale sarebbe stato il cambiamento che persino i miei genitori mi avrebbero chiesto: “Scusi, chi è lei, elegantissima signora?”. Poi, sarà stata la visione del documentario “The September Issue” sulla costruzione del numero di settembre di Vogue, saranno gli anni passati a trascinare riviste da 600 pagine sulle spiagge romagnole, intorno ai 25 anni capii che i trend dell’inverno erano sempre quelli: il tartan, il militare, l’animalier, il maschile, il denim, il patchwork. Tutti con l’articolo davanti, alla milanese.

L’unica differenza oggi è la precisazione orgogliosa di “faux” o “eco” nelle pagine sulle “pellicce”, una tipologia di capi che passa dall’essere crudele e ridicola a solo ridicola. Alle pellicce ecologiche seguono paginate di capi in pelle che neanche nei libri omoerotici di Tom of Finland, senza riferimenti a possibili sostitutivi finti o anche solo un “vabbè, quest’anno no, ma l’anno prossimo facciamo tutto in sky”. Ancora non mi spiego come resista lo “stile bon-ton”, quello che fa sembrare ogni donna una gigantesca bambina stronza battezzata con il nome di un colore – “Azzurra! Verde! Gialla!” – e quelle che iniziano a correre per i Bagni Misteriosi di Porta Romana, Milano, verso le loro tate.

 

Quando sono subentrati prima la partita Iva e poi il Covid, settembre è diventato terribile. Se fosse un giorno della settimana sarebbe merdadì. Probabilmente questo pezzo uscirà mentre sto rientrando a casa mia, un piccolo appartamento a Milano. E’ una casa vecchia che prima del Covid ha avuto una serie di piccoli problemi: un paio di piastrelle del pavimento rotte, una piccola macchietta di umido. A causa del lockdown questi problemi non sono stati rimessi a posto e ora vivo nella “Teoria delle finestre rotte”: a furia di usare la casa e di non poter chiamare nessuno, le piastrelle rotte sono diventate il 30 per cento del pavimento del salotto, le macchie di umido si sono moltiplicate e il degrado mi ha reso una criminale. L’ultima cosa non è vera, però un qualsiasi sindaco penserebbe che l’unica soluzione per il mio appartamento sarebbe gentrificarlo. Sia chiaro che ho contattato varie ditte per fare questi lavori, ma nessuna mi ha mai risposto, prese come sono dai bonus facciate e altri grandi lavori che fanno sembrare i miei 30 mq di piastrelle una perdita di tempo. All’ultimo geometra con cui ho parlato ho detto: “Non mi abbandonare anche tu”. Mi ha risposto “Non lo farò”, e non mi ha più richiamata.

La condizione lavorativa resa traballante dal Covid mi ha costretta ad approcciarmi alle proposte come un gabbiano di Venezia: mi avvento su qualsiasi cosa, cicchetti di baccalà mantecato o topi morti che siano, in attesa di tempi migliori. Per questo motivo le ferie sono state semi-lavorative e settembre sarà così frenetico che neanche è iniziato e ho già un’enorme herpes. Il possibile ritorno alla normalità, a poter passare tempo con i miei affetti senza timore che si ammalino, è qualcosa che ovviamente mi dà sollievo, ma ammetto che alla notizia della zona gialla in Sicilia una piccola parte di me, credo la stessa dove si annida il virus dell’herpes quando non è attivo, ha pensato con un mezzo sorriso che se tornassimo tutti in zona gialla forse mi libererei di qualche impegno in eccesso e di certi incubi carichi di ansia – tornando agli incubi di una volta, quelli carichi di virus. E’ terribile questo pensiero, lo so, non sarebbe qualcosa da scrivere su un giornale, ma tanto è probabile che questo non sia neanche il pensiero più tremendo su queste pagine.

Un settembre frenetico significa un mese dove vedrò molte persone, e questo è forse lo scoglio più grande, perché esattamente come è facile adattarsi alla vita agiata e molto meno al suo contrario, per me è stato semplicissimo abituarmi a non avere contatti con gli estranei. Li ho visti online, ma in tanti anni sono riuscita a costruire un’oasi felice digitale che contiene giornalisti gentili, modelle francesi e foto di pavimenti (Geometra, ti prego, torna!). L’asocialità mi ha aiutato a capire in modo più specifico chi davvero vorrei evitare nella prossima stagione, perché una volta volevo evitare “gli stronzi” che però sono tanti, milioni di milioni, forse è meglio scendere nello specifico.

 

Ovviamente eviterei i No vax, i No mask, i No green pass, perché vorrei evitare di prendermi qualcosa da loro, visto che il vaccino protegge, ma non al 100 per cento. Se dovessi prendere il Covid, finirei per farmi ridere dietro dai miei amici che si sono fatti il Covid mentre io, chiusa in una bolla di gel igienizzante, li sgridavo perché si erano ostinati a voler avere dei rapporti umani. Mi peserebbe l’umiliazione, oltre a quella cosa di poter finire in ospedale attaccata all’ossigeno per un mese.

Poi vorrei evitare quelli che durante una pandemia dicono frasi come “non posso non andare in ufficio, è fondamentale che io ci sia”. L’ho sentita dire da vari impiegati di agenzie di comunicazione, a cui è impossibile far capire che il mondo continuerà ad andare avanti con o senza la loro nuova geniale strategia social per dei succhi di frutta.

Non vorrei frequentare persone che hanno le seguenti tre forme di incontinenza davanti a una battuta: fare una seconda battuta che è sempre nettamente inferiore alla prima; sottolineare il proprio coinvolgimento col tema con una frase dal tono grave che insieme approva la battuta e la uccide con violenza; spiegare la battuta per far capire di averla capita.

Eviterei chi sentenzia che quel tal personaggio pubblico o influencer è terribile perché “non ha parlato di cambiamento climatico/morto celebre/Afghanistan sui suoi social”, spesso in riferimento a persone che danno l’impressione di credere che Gino Strada sia un personaggio di “Cars” in coppia con Carlo Attrezzi. Ci vogliamo fidare del loro cordoglio? E per restare nella stessa categoria ma dalla parte opposta dello spettro, vorrei stare almeno a 500 metri di distanza da quelli che qualsiasi cosa succeda chiedono: “Dove sono le femministe?”, come fossero un mazzo di chiavi. La risposta è che di solito sono nel posto dove le hai viste l’ultima volta, oppure le hai lasciate nell’altra giacca, io le mie femministe ce le ho ma non te le presto più perché le perdi ogni volta. Sarebbe bello se le due categorie si guardassero negli occhi per vedere quanto hanno in comune per poi mettersi insieme, ma non a coppie, proprio tutti con tutti, lasciandosi alle spalle rancori e desinenze. Nascerebbero tantissimi bambini con già l’emoji sulla faccia.

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