(foto Ansa)

la riflessione

Per Gramsci il calcio era un modello di lealtà. Lo scopone, no. Aveva torto

Michele Magno

L'intellettuale comunista giudicava lo scopone scientifico come un uso distorto dell'intelletto, mentre era più benevolo nei confronti del football inglese. Si sbagliava

Come è noto, nella politica italiana abbondano le metafore calcistiche: “Giocheremo la nostra partita. Rispettiamo gli avversari, ma non li temiamo. Il campionato è ancora lungo…”. Secondo Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, essendo invasi dal calcio in misura crescente, specie in tv, questa disciplina sportiva diventa il campo preferito dove attingere metafore popolari. Così facendo, il politico spesso accusato di far parte di una casta, si pone invece allo stesso livello dei suoi potenziali elettori. Nel 1918 Antonio Gramsci, in un articolo sull’Avanti! intitolato “Il foot-ball e lo scopone”, scrive: Osservate una partita di foot-ball: essa è un modello della società individualistica: vi si esercita l’iniziativa, ma essa è definita dalla legge; le personalità vi si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera, ma per capacità specifica; c’è il movimento, la gara, la lotta, ma esse sono regolate da una legge non scritta, che si chiama “lealtà” e viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro. Paesaggio aperto, circolazione libera dell’aria, polmoni sani, muscoli forti, sempre tesi all’azione. Una partita allo scopone. Clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario o… del complice. Lavorio perverso del cervello (!). Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei piedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia da luogo a luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazioni e di litigi”.

Oggi queste affermazioni possono apparire sorprendenti. Ma allora il giovane Gramsci, sulla scia di Gaetano Salvemini, era in qualche misura “liberoscambista”. Perché i dazi doganali avevano gravemente impoverito le popolazioni del Mezzogiorno, a cui era di fatto vietato comprare prodotti proveniente dall’estero che costavano molto meno di quelli prodotti nel nord. Per questo motivo il futuro fondatore del Pci contrapponeva i paesi liberali come l’Inghilterra (patria del foot-ball) all’Italia giolittiana, protezionista e corrotta. Va aggiunto che la sua predilezione per il calcio rifletteva la pedagogia proletaria del tempo, che sconsigliava agli operai di frequentare bettole piene di fumo e li invitava, invece, a praticare sport all’aria aperta per salvaguardare la propria salute, messa a dura prova dalle infernali condizioni del lavoro di fabbrica. 

Va da sé che Gramsci sbagliava nel giudicare il calcio come un modello di lealtà. Così come sbagliava nel giudicare lo scopone come un uso distorto dell’intelletto. Del resto, se quest’ultimo ha avuto tra i suoi innumerevoli appassionati, accanto a letterati e intellettuali prestigiosi come Pirandello e Mario Soldati, importanti uomini politici (tra gli altri, Pertini, Andreotti, Berlinguer, La Malfa, Lama, Pajetta, Ciampi), una ragione c’è. Non solo perché tra tutti i giochi di memoria e di ragionamento è forse il più interessante e complesso: “d’ingegno e virtuoso”, come lo ha definito Paolo Monelli. Ma perché, come recita l’ultima regola di Chitarella: “[…] philosophia scoponis est in longiquum spectare et ultra lucrum proximum remotos exitus considerare” (la filosofia dello scopone sta nel guardare e considerare, al di là del vantaggio immediato, il risultato finale). Se sei dotto insegna, se sei santo prega, se sei prudente governa, ammoniva san Paolo. In questo senso, lo scopone scientifico, suggeriva Oscar Mammì, altro suo eminente cultore, dovrebbe essere insegnato nelle scuole di buona politica come materia obbligatoria. Sventuratamente – concludeva con l’ironia che gli era congeniale – queste scuole non sono mai state aperte. Vero, ma chi era Chitarella? Come per Omero, di lui non si sa nulla. In una lettera del 25 febbraio 1946 a Benedetto Croce, il giornalista e storico napoletano Gino Doria ammette di aver investigato sulla sua misteriosa identità ricavandone solo la conferma di una vecchia quanto scarna tradizione locale, secondo cui sarebbe stato un prete partenopeo vissuto nel diciottesimo secolo. Ma, poi, che importa? Importa che il secolo dei Lumi ci abbia dato non solo i sacri princìpi del 1789 (che sono stati sempre violati), ma anche le quarantaquattro regole di Chitarella (che invece non si possono mai violare).

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