Camille Claudel, "L'Âge mûr" (1899), bronzo, Parigi, museo Rodin (da Wikipedia)

Storia d'amore e perbenismo

Camille Claudel, l'artista che la famiglia fece morire due volte

Francesca d'Aloja

Era un genio della scultura, allieva prediletta e amante di Auguste Rodin. Ma era anche la sorella del famoso scrittore Paul Claudel, e la sua malattia mentale fu nascosta con la reclusione

In questo edificio, al piano terra, visse e lavorò Camille Claudel dal 1899 fino al 1913, data in cui si interruppe la sua breve carriera artistica ed ebbe inizio la lunga notte dell’internamento. ‘C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta’, Lettera a Rodin – 1886”. I miei occhi leggono questo su una lastra in marmo accanto al portone di un bel palazzo affacciato sulla Senna, mentre passeggio sulla piccola Île Saint-Louis, in una giornata di agosto che pare novembre. Un cielo triste come tristi sono quelle poche righe vergate in memoria di una donna che oggi, perlomeno in Francia, tutti conoscono e rimpiangono. Eppure di lei, nata nel 1864 e morta nel 1943, forse non avremmo saputo mai nulla se un professore di Storia, facendo delle ricerche sul più noto fratello poeta e diplomatico Paul Claudel, non si fosse incaponito sulla vicenda tragica di Camille, pervicacemente occultata dalla famiglia. Grazie al ritrovamento di documenti, lettere e cartelle cliniche aveva scoperto che l’artista non era morta nel 1920, come fu allora dichiarato, bensì ventitré anni dopo, e che quella menzogna aveva forse lo scopo di alleggerire, se così si può dire, l’insostenibile durata della sua permanenza nell’asilo psichiatrico di Montdevergues dove fu rinchiusa per trent’anni. La storia di Camille Claudel non era dunque più un segreto anche se la maggioranza dei francesi seguitava ad associare quel cognome al famoso scrittore, fino a quando il cinema, talvolta mezzo di divulgazione insuperabile, non la consacrò definitivamente. Con il film del 1988 a lei dedicato dal regista Bruno Nuytten, la dimenticata Camille divenne un mito grazie alla bellezza di Isabelle Adjani e al vigore di Gérard Depardieu. Una fama improvvisa che ha commosso il pubblico per via dei risvolti romantici e drammatici della vicenda umana, che hanno forse distolto l’attenzione da ciò che Camille aveva più a cuore: la sua produzione artistica. E’ dunque dall’ultimo domicilio “civile” della Claudel che ha inizio il mio peregrinare parigino sulle sue tracce. Tracce solide e possenti come le sculture che ci ha lasciato, visibili in una sala del Musée Rodin in Rue de Varennes, o al Musée d’Orsay, acquirente di alcune sue opere.

 

Giorni intensi di ricerche (articoli, libri, le lettere accorate scritte in manicomio, quelle appassionate di Rodin nei giorni felici della loro relazione, podcast come sempre accurati prodotti da France Culture, vecchie fotografie che ne testimoniano la grandezza e poi la discesa agli inferi…) mi hanno trascinato in una Valse, tanto per citare il titolo dell’opera più bella e significativa, di emozioni forti e di sconforto. Il primo pensiero a venirmi in mente è che Camille Claudel sia stata innanzitutto una vittima della sua epoca, come lo fu, a suo modo, Lucia, la sfortunata figlia di James Joyce, accomunata da un analogo destino. Entrambe segregate e occultate da famiglie apparentemente illuminate sopraffatte dal tabù della follia. All’eccentrica, anticonformista Camille sarebbe forse bastato nascere cinquant’anni dopo per ricevere ciò che le spettava e che disperatamente desiderava le venisse riconosciuto. Una disperazione tanto profonda da minare la sua già fragile salute mentale, bisognosa di cure e di amore, non certo di oblio. E’ sufficiente ripercorrere le tappe della sua vita per rendersi conto che tutto ciò che ha detto, fatto, scritto e creato Camille Claudel è il frutto di uno straziante bisogno di amore, negatole sin dalla nascita da una madre annichilita dalla perdita del primogenito. Camille, concepita sette mesi dopo, è quel che si definisce in psicologia “il figlio sostitutivo”, che ha però la sventura di nascere femmina e di non corrispondere al desiderio materno. Per reazione la bambina sviluppa un carattere violento, attribuendosi il marchio di virilità destinato al figlio perduto. Manesca, collerica, eccessiva, la piccola Camille si sfoga sulla materia. Affonda le mani nella terra e nel fango e impara presto a dargli forma: le prime creazioni nascono spontaneamente, sono il prodotto di una natura predisposta alla scultura, disciplina che Camille considera una “chiamata” alla quale non può sottrarsi. A sei anni modella la creta d’istinto e in maniera ossessiva, a dodici tiranneggia domestici e familiari costringendoli a posare per lei. Una furia che la madre disapprova, il padre asseconda tacitamente e il fratello subisce, posseduto a sua volta da un furore che più avanti sfocerà in liriche appassionate e fanatismo religioso. Pur molto diversi, i due fratelli sono legati dalla stessa ostinazione che riversano sull’oggetto dei loro interessi. Entrambi precoci, sono convinti di essere dei predestinati.

Il temperamento dei Claudel è sanguigno, furibondo, in casa aleggia un clima di tensione permanente. Il solo a mantenere un controllo è il padre che mostra un debole per la figlia ribelle, e intuendone il talento la affida ad Alfred Boucher, uno scultore che insegna a Nogent. Ci vuol poco a capire che la ragazza merita un istituto all’altezza delle sue capacità, l’Accademia delle Belle Arti sarebbe il posto giusto, peccato che l’accesso alle donne sia vietato. Boucher propone di iscrivere Camille all’Académie Colarossi, a Parigi, dove è stato chiamato a insegnare: una scuola in controtendenza non solo per il libero accesso, ma perché unico luogo in cui sia previsto lo studio del nudo (maschile e femminile), fondamentale nell’apprendistato di uno scultore. E’ un mestiere inconcepibile per una donna dell’Ottocento ma la caparbietà di Camille ha la meglio, e malgrado l’opposizione della madre, la famiglia si trasferisce a Parigi, dove Camille potrà seriamente dedicarsi alla scultura. Il desiderio di indipendenza non tarda a manifestarsi; a soli diciassette anni, insieme a due allieve della Colarossi, Camille condivide l’affitto di uno studio: è il primo vero distacco dalla famiglia. Due anni dopo, il maestro Boucher annuncia ai suoi allievi che dovrà trasferirsi in Italia: “Non vi lascio soli, vi affido a un grande artista che saprà degnamente sostituirmi”. E’ così che entra in scena l’immenso, non solo in senso figurato, Auguste Rodin. Il Maestro.

 

Nel 1882, il quarantaduenne Rodin è già una gloria nazionale. Camille non si lascia intimidire e sottopone al giudizio dell’artista i suoi recenti lavori: Vieille Hélène, che raffigura il volto dell’anziana governante di casa Claudel, e Paul à treize ans, un busto con le fattezze del fratello minore. Rodin è impressionato dalla maturità della giovane allieva, ma qualcosa di più profondo lo colpisce: in quei ritratti riconosce un’appartenenza, si riconosce. Quel loro primo incontro porta con sé il segno dell’inevitabilità, l’impressione, divenuta ben presto consapevolezza, di essere fatti l’uno per l’altra.

Lui le insegna ad affinare la tecnica, ma è intimamente conscio del fatto che quella ragazzina sappia già tutto, che sia dotata cioè di quella conoscenza che non è frutto di studio e pratica, ma è grazia ricevuta, un dono privilegio di pochi, e per questo straordinario. Lo intuisce al punto di chiederle di lavorare per lui alla realizzazione di una nuova opera appena commissionata: La porta dell’inferno. E’ la consacrazione: Camille lascia la Colarossi e si trasferisce nell’atelier di Rodin, in qualità di apprendista: “Le ho mostrato l’oro, ma l’oro che trova è tutto suo”.

A lei saranno affidati i compiti notoriamente più delicati: la realizzazione delle estremità, mani e piedi, vero banco di prova della perizia tecnica. Con il sottofondo dei colpi di martello, i fendenti degli scalpelli, in un’atmosfera incandescente di brutalità, forza e infinita dolcezza, di polvere e sudore, nasce il loro amore. Potente, come l’arte che entrambi esercitano (fra tutte, credo, la più erotica).

 

Nonostante il carisma e il vantaggio del suo ruolo, della sua esperienza, del suo corpo (il non plus ultra della virilità, come uomo e come artista) e dei suoi anni (ventiquattro più di lei), il primo a capitolare è Rodin: “Ti amo con furore”, le scrive, “abbi pietà di me, crudele, abbi pietà. Non posso passare un giorno senza vederti, diventerei pazzo. Non esistono altre donne, la mia anima ti appartiene. Non ci credi, ma io piango…”. Le sue lettere trasudano lirismo e commovente sentimentalismo, la passione per Camille si esprime anche nella creazione: le sculture di Rodin si fanno via via più sensuali, più “morbide”. Passa ore a osservarla lavorare, ne è affascinato, tanto da sentire il bisogno di appuntare su un quaderno le sue impressioni: “Si accanisce sulla materia molle triturandola, palpandola, colpendola con gesti bruschi e violenti. Così, i primi giorni. Poi finalmente comincia a modellare l’argilla, a darle forma. Non prima di averla posseduta”.

Dal canto suo Camille sembra più concentrata sul lavoro, ha imparato molto dal Maestro ma è alla ricerca di uno stile personale, vuole affrancarsi dalla sua influenza (anche se il marchio Rodin sembra appartenerle da sempre e per sempre. Quando un amico del padre, esperto d’arte, aveva visto le primissime sculture di Camille, le aveva chiesto se fosse stata ispirata da Rodin. La dodicenne non aveva idea di chi stesse parlando…). A lungo Camille seguiterà a chiamare il suo amante “Monsieur Rodin”, per deferenza, soggezione ma anche per naturale diffidenza nei confronti dell’amore, un sentimento che non ha mai conosciuto. Quando lui dichiara di volerla proteggere e si impegna a onorare il loro “indissolubile legame” mettendo per iscritto, quasi fosse un contratto, che presto saranno marito e moglie, lei cede. Cede pur essendo a conoscenza della relazione di Rodin con un’altra donna, a cui è legato da anni e dalla quale ha avuto un figlio. I due non si sono mai sposati e questo lascia ben sperare Camille.
E’ la stagione (breve) della felicità, nonostante l’opposizione della famiglia di lei che mal digerisce una relazione con un uomo che ha l’età per esserle padre, giudizio condiviso da buona parte del milieu parigino. I due sfuggono alle maldicenze rifugiandosi in un castello fuori Parigi dove passano il tempo ad amarsi e a scolpire. L’attuale proprietario del castello conserva alcuni disegni prodotti dai due artisti e la succosa testimonianza di un passatempo trascritto su un foglio: il famoso questionario di Proust con le risposte di una Camille spensierata, a tratti spiritosa: “La tua virtù principale? Non ne ho, sono tutte noiose. La qualità preferita in un uomo? Ubbidire a sua moglie. La qualità preferita in una donna? Far arrabbiare il marito. Occupazione preferita? L’ozio. La sua idea di disgrazia? Essere madre di tanti bambini. Pittori e compositori preferiti? Me stessa. Cibo e bevande preferiti? L’amore e l’acqua fresca”.

 

Il tempo passa ma Rodin non mantiene la promessa: non sposerà Camille, non lascerà Rose Beuret. Forse la fiamma si è spenta o più semplicemente il vecchio artista è tornato alla realtà: Rose rappresenta la stabilità familiare, è una donna fedele che lo ha sempre sostenuto tollerando i suoi tradimenti, è la madre di un figlio disabile che non si sente di abbandonare (anche se non lo riconoscerà mai…). Una decisione saggia e vigliacca che Camille identifica come il trionfo della borghesia benpensante. E per lei è l’inizio del buio.

Non sopportando l’idea di venire definitivamente relegata nel ruolo di amante, Camille lascia Rodin e si trasferisce in un atelier in Boulevard d’Italie. La furia si riaccende: lavora giorno e notte, incessantemente. E’ in questo periodo che realizza La Valse, l’opera più ispirata: due corpi nudi volteggiano trasportati dalla danza, l’uomo sostiene la donna cingendole la vita, lei rifugia il volto sull’incavo della spalla del suo compagno, ma se li si osserva da vicino ci si accorge che non è la musica a guidarli, non stanno affatto danzando: ciò che li avvince è il terrore del precipizio. Non c’è gioia nella rappresentazione, gli amanti sono colti nell’attimo prima della caduta. La tragedia incombe, e nulla può impedirlo, tranne l’arte. L’artista Camille Claudel salva i due amanti fissandoli nell’istante prima della fine, riuscendo a compiere quel che la vita reale non le ha concesso.

Certe volte, non sempre, conoscere la biografia di un artista aiuta a comprenderne l’opera. Nel caso di Camille Claudel si tratta di un esercizio necessario poiché raramente si è vista una produzione artistica altrettanto autobiografica. Al contrario di Rodin, fisico, materiale, la sua scultura è cerebrale, intima. I personaggi rappresentati da Claudel sono sempre imprigionati, reclusi. Hanno le braccia tese, lo sguardo rivolto verso l’alto, voltano le spalle al mondo. Invocano l’ascolto, la misericordia. Ne L’âge mûr, l’inesorabile passaggio del tempo è evocato da tre figure: un uomo maturo viene trascinato dalla Morte, che ha il volto di una vecchia arcigna e grinzosa. Ai suoi piedi, in ginocchio, una giovane donna implora l’uomo di non andare. E’ la rappresentazione plastica dell’abbandono subito, i volti sono quelli di Rodin, Rose e Camille.

 

Il delirio persecutorio, diagnosi che verrà iscritta sulla futura cartella clinica, ha inizio dopo la rottura con Rodin. Camille comincia a maturare un risentimento ossessivo, si convince che Rodin sia responsabile del fallimento della sua carriera, che saboti le commissioni impedendole di lavorare (in realtà lui farà di tutto per aiutarla segretamente, ma la personalità borderline di Camille allontanerà i committenti intimamente sollevati di essersi liberati di un’artista “difficile”). Claude Debussy, legato a Camille da un sentimento amoroso mai ricambiato, è uno dei pochi amici che frequenta. Ma anche il musicista ben presto si arrende.

E’ sola, senza un soldo. Le rare volte che si fa vedere in pubblico ha le culot (la faccia tosta) di parlare male di lui, dell’Intoccabile, sostenendo che millanti la paternità di opere da lei realizzate rivendicandole come proprie, e che tutta la produzione di Rodin riposi sul plagio di opere altrui (considerazione azzardata ma non così lontana dalla verità…).
La luce si spegne, di Camille Claudel non vuol più saperne nessuno.

Lei si isola nel suo atelier, non mangia, non si lava, vaga di notte per le strade di Parigi imbacuccata come una barbona. In preda al furore strappa la carta da parati e distrugge a colpi di martello gran parte delle sue sculture. E’ una forma di autodistruzione, di suicidio. Il fratello Paul, nel frattempo diventato diplomatico, membro de l’Académie e stimato letterato, teme per la sua reputazione, la sorella sta infangando il buon nome di famiglia. Il solo a mostrare misericordia è il padre, che di nascosto alla moglie le invia soldi e vestiti. Non immagina che la figlia non li indosserà mai, il corpo esile di un tempo è solo un ricordo. In sovrappeso, gonfia, Camille dimostra il doppio dei suoi anni. I profondi occhi azzurri, “i più belli che abbia mai visto” come scriverà il fratello Paul, sono spiritati, fanno quasi paura. E’ in questa fase che il destino di Camille è segnato, oltre che da una famiglia ostile e una relazione sentimentale che oggi definiremmo disfunzionale, da un’epoca ancora vergine di letteratura psichiatrica, aliena a qualsiasi espressione di emancipazione femminile, refrattaria a ogni forma di anticonformismo. Camille è la figlia reietta del suo tempo.

Qualcuno un giorno dirà: “Camille Claudel è l’orgoglio e la vergogna del nostro paese”.

Quando, nel 1913, muore Louis Claudel, il padre, tutto precipita. Insieme a lui si spegne l’ultimo tenue rispetto per la sua condizione. La madre e il fratello Paul non si degnano nemmeno di informare Camille, che non parteciperà al funerale (altra impressionante analogia con Lucia Joyce che seppe della morte del padre leggendo la notizia su un giornale, nel manicomio dove era stata fatta rinchiudere dalla madre e dal fratello…). E naturalmente non la informano di ciò che avverrà di lì a poco.

 

La morte del padre coincide con la scomparsa di Camille Claudel dal mondo dell’arte e da quello dei vivi: il 10 marzo, una settimana dopo il decesso, due uomini sfondano la porta dell’atelier dell’Île Saint-Louis, afferrano Camille per le braccia e la caricano su un’ambulanza per trasferirla in un ospedale psichiatrico, dando seguito alla richiesta di “ricovero volontario” surrettiziamente formulato dalla madre. Un’azione talmente violenta che Camille non riesce a convincersi sia inappellabile, nutre la speranza che si tratti di un ricovero temporaneo, non può credere che la sua famiglia possa arrivare a tanto. Scrive alla madre senza risparmiare una tragica ironia: “Cara Signora Claudel, ha intenzione di farlo durare a lungo questo scherzo?”.

Si accorgerà ben presto che non si tratta di uno scherzo e allora le lettere, numerose quanto inefficaci, assumeranno un altro tono. Camille fa leva su ogni possibile sentimento: supplica, pietà, ferocia, sadismo, codardia, ingiustizia. Scrive a chiunque, con il furore che la contraddistingue, implorando, supplicando, senza sapere che le missive non varcheranno mai le mura di cinta del sanatorio: la madre ha dato formale ordine di “non permettere alcuna visita, non spedire le lettere, non fornire notizie a chicchessia”. Camille Claudel è, a tutti gli effetti, una sepolta viva.

Il delirio paranoide naturalmente si moltiplica. Dovendo cercare una ragione che possa motivare la crudeltà della situazione, per lei inconcepibile, si convince che il suo internamento sia stato ordito con il preciso intento di trafugare le sue opere: “Mi hanno spedito a far penitenza nei manicomi dopo essersi impossessati dell’opera di tutta la mia vita… è lo sfruttamento della donna, l’annientamento dell’artista a cui si vuol far sudare sangue”.

 

E’ impressionante la lucidità espressa nei suoi scritti, contrapposta all’intransigenza impietosa dei familiari che non si sono mai ricreduti sull’ingiustizia inflitta a Camille. Segregata senza appello, Camille abbandona definitivamente la scultura, in trent’anni non produrrà più nulla. Continuerà però a scrivere senza mai ricevere risposte, centinaia di lettere inascoltate meticolosamente raccolte e occultate dalla famiglia. Lettere che commuoverebbero il più duro cuore di pietra.

1927, sono passati quattordici anni: “Paul, fratello mio, portami fuori da qui… questo non è il mio posto e tu lo sai… Io so che farai di tutto per allontanarti da me, accetterai incarichi all’estero pur di liberarti di me… è così crudele… crudele”.

1932: “Mio caro Paul, devo nascondermi per scriverti e non so come farò a imbucare questa lettera. Perché, renditi conto, Paul, che tua sorella è in prigione. In prigione con delle pazze che urlano incessantemente, fanno smorfie, sono incapaci di articolare parole sensate. Ecco il trattamento che da quasi vent’anni s’infligge a un’innocente. Quando la mamma era in vita non ho mai smesso di implorarla di togliermi di qui, di mettermi in un posto qualsiasi, un ospedale, un convento, ma non in mezzo ai pazzi. Contavo su di te… mi avete trattata come un’appestata. Tu mi dici, Dio ha pietà degli afflitti, Dio è buono… Parliamone del tuo Dio che lascia marcire un’innocente in fondo a un manicomio”.

1935: a Eugène Blot, suo antico fonditore e amico: “Sono caduta nell’abisso. Vivo in un mondo così strano, così estraneo… del sogno che fu la mia vita, questo è l’incubo”.

 

Da quando la madre è morta è Paul a firmare il rinnovo del ricovero. Il cattolico osservante Paul Claudel non sarà mai sfiorato dal dubbio. Ogni anno il suo autorevole autografo sigillerà l’annientamento di sua sorella. Le concederà soltanto sei visite e ogni volta assisterà impassibile alla medesima scena: Camille in lacrime che gli getta le braccia al collo e lo implora di portarla via: “Ti prego, mi farò piccola piccola, non vi accorgerete di me...”

Quando farà ritorno nel suo castello, dove vive con moglie e figli, Paul dovrà lottare con dei feroci sensi di colpa che si ripercuoteranno su tutta la sua opera e sul cammino spirituale sempre più esaltato (di nuovo una considerazione a proposito di un’epoca che riteneva pazza Camille e sano il fratello ultra cattolico preda di deliri mistici… oggi a venir rinchiuso sarebbe forse lui). In pubblico Paul non mancherà di parlare di sua sorella come uno dei più grandi “geni della scultura”, di elogiarne l’opera e lo spirito.

Camille Claudel diventa vecchia senza accorgersi che oltre il muro che la tiene prigioniera si sono succedute ben due guerre (lo scoppio delle quali fornì un alibi ai familiari per la mancata liberazione di Camille: “siamo sollevati di saperla al sicuro”). Il Secondo conflitto mondiale la coglie sul limitare degli ottant’anni, l’età e la condizione di Camille fanno di lei quel che la barbarie nazista definiva “persona inutile”. Gli internati, i pazzi, saranno gli ultimi degli ultimi. Le razioni vengono dimezzate, le cure interrotte. Il direttore dell’istituto psichiatrico invia un telegramma all’ambasciatore Claudel: “Qui si muore di fame. La prego di inviare dei soldi per sua sorella”. Nessuna risposta, nessun contributo.

 

Alle due del mattino del 19 ottobre 1943 il “genio della scultura” Camille Claudel muore all’età di 78 anni. Causa della morte: denutrizione.

Le sue spoglie saranno gettate in una fossa comune.

Nessuno verrà mai a reclamarle.

 

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