Un cartello esposto durante il Pride a Roma, sabato 26 giugno (LaPresse)  

La teoria del gender diventerà un pericolo anche per i valori che difende

Sergio Belardinelli

Il cambiamento sul modo di intendere l'uguaglianza tra gli uomini

A conclusione del suo editoriale sul Foglio di sabato scorso, nel quale commentava l’adesione dei leader europei ai valori della cultura lgbti e il loro tentativo di rigettare ogni forma di odio e intolleranza basata sull’orientamento sessuale, Giuliano Ferrara ha posto una questione fondamentale: “Siamo sicuri che al di là della tendenza inclusiva, tanto più rispettabile in quanto contestata con rozzezza dalle democrazie cosiddette illiberali, la classe dirigente europea abbia fatto una sufficiente riflessione sulle vaste conseguente della teoria del gender, dopo aver deciso di formalizzare nei diritti la parificazione non del tutto appropriata di matrimonio, filiazione e parentalità in nome dell’uguaglianza? Io non ne sono sicuro”. Siccome non ne sono sicuro neanche io, vorrei provare a spiegare perché.

 

Fermo restando il sacrosanto principio che nessuno deve essere discriminato per via dei propri orientamenti sessuali, non credo che la migliore garanzia di questo principio sia quella che viene offerta dalla cosiddetta “gender theory”, abbracciata non da oggi dalle classi dirigenti europee. Credo anzi che, se assecondata nella sua radicalità, la teoria del gender potrebbe diventare un serio pericolo anche per i valori che le stanno a cuore. Questioni riguardanti le libertà individuali e le libertà politiche si intrecciano  con questioni che riguardano la natura umana e il ruolo che questa può giocare ancora, allorché si tratta di discutere di valori fondamentali quali il rispetto della diversità, la tolleranza, la libertà di pensiero e d’opinione, tanto per dirne alcuni. A tal proposito la “gender theory” non consente tentennamenti di sorta. La natura umana, questo uno dei suoi presupposti fondamentali, è un concetto pericoloso e arbitrario. Ciò che chiamiamo natura non è altro che un prodotto della nostra cultura, diciamo pure delle scelte umane. Gli antropologi parlano non a caso di “antropopoiesi”. Guai dunque a ipostatizzare la natura umana in questa o quest’altra forma. Ogni volta che lo si fa, che ci si renda conto o meno, si perde di vista il suo carattere artificiale, diciamo pure l’idea che esistono tanti modi di realizzare l’umanità quanti sono i tipi umani. 

 

In tutto questo c’è molto di vero e di buono, ovviamente. Lo stesso si potrebbe dire del fatto che le liberaldemocrazie europee stanno facendo propria la consapevolezza dei molti modi di essere uomini, del diritto di ciascuno alla propria differenza e della necessità d’inclusione. Tutto ciò costituisce sicuramente un grande passo avanti rispetto ai tempi in cui era il potere (politico o religioso che fosse) a stabilire in che cosa dovesse consistere la cosiddetta normalità umana. Ma siamo sicuri che tutto ciò basti a tutelare l’inviolabile, unica e irripetibile dignità di ciascuno di noi? Siamo sicuri che la natura umana sia da considerarsi un concetto normativamente opprimente e, in quanto tale, d’intralcio a qualsiasi intento di salvaguardare e includere la diversità?

 

Non nego che, specialmente nel passato, ci si è appellati spesso alla natura umana in modo quasi poliziesco, proprio per discriminare ed escludere la diversità, specialmente quella sessuale. Sulla base di una differenza anatomica si deducevano indebitamente ruoli sociali e valori culturali. Ne sanno qualcosa le donne. Quanto alle lesbiche, ai gay o ai bisessuali, in nome della natura umana, essi sono stati a lungo disprezzati come anormali. Una storia triste e per molti versi vergognosa dalla quale tutti, chi più chi meno, stiamo cercando di venir fuori. Ora però il punto è se, per affermare il diritto a non essere discriminati in alcun modo per via della propria diversità sessuale, dobbiamo accettare, come pretende la “gender theory”, l’idea che la natura umana non sia altro che un costrutto socio-culturale dipendente esclusivamente dalle nostre scelte. 

 

Come ha mostrato Charles Taylor, la cultura contemporanea sta veramente portando a compimento un cambiamento radicale in ordine al modo di intendere l’uguaglianza tra gli uomini. Quest’ultima non riguarda più ciò che tutti gli uomini hanno in comune per il fatto di appartenere al genere umano, ma riguarda piuttosto il diritto di tutti alla propria differenza, diciamo pure, il diritto a esprimere liberamente la propria identità individuale, sociale o sessuale. È un passaggio che considero un arricchimento rispetto alla prospettiva naturalistica classica che si appellava alla natura per dire ciò che doveva considerarsi umanamente “buono” o “cattivo”. Ciò che tuttavia mi preoccupa in questa nuova prospettiva, mi si perdoni la rozzezza dell’argomentazione, è il venir meno, in linea di principio, di ogni concetto di limite. Se la prospettiva classica certamente esagerava con la pretesa di dedurre dei limiti ai nostri comportamenti dalla natura, la nuova, anche quella della “gender theory”, esagera nell’ignorarli, quasi che, se ci sono, ci sono soltanto perché qualcuno li ha indebitamente imposti. Essere uomo, essere donna, essere gay, essere lesbica, essere transgender e via discorrendo diventano semplicemente sinonimi di “sentirsi” tali in un contesto in cui sono possibili innumerevoli espressioni di genere

 

Premesso che mi sembra difficile spiegare a un bambino le differenze sessuali come se si trattasse delle sue preferenze per il gelato alla fragola o per il gelato al pistacchio, credo che più si va avanti per la strada della “gender theory” e più vengono intaccate le condizioni culturali che l’hanno resa possibile. In fondo, se ci pensiamo bene, l’idea classica che tutti gli uomini sono dotati della stessa inviolabile dignità semplicemente perché appartenenti al genere umano (ecco la natura), nonostante che venisse spesso disattesa, implicava anche il diritto a vedersi rispettati nella propria differenza. E giustamente oggi ci indigniamo del fatto che, ricorrendo alla natura, si sono discriminate invece certe minoranze, fino alle più inaccettabili umiliazioni.

 

Ma chi ci garantisce che anche la strada della “gender theory” non finisca per produrre discriminazioni analoghe, che cioè da minoranza discriminata, possa diventare una maggioranza (o una minoranza, non saprei) discriminante? L’intransigenza con la quale si vorrebbe imporre per legge un rispetto che potrebbe anche sconfinare nel disprezzo di tutti coloro che non ne condividono i principi, assomiglia molto a quella di chi escludeva che potessero essere rispettati coloro che andavano “contro natura”. In entrambi i casi viene disconosciuto un limite, che però la teoria classica, pur trasgredendolo spesso, almeno in linea di principio aveva ben presente: quello che obbligava a distinguere tra morale e diritto, tra le convinzioni personali di ciascuno e ciò che invece la legge dovrebbe prescrivere per tutti.

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