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Le radici del femminismo

Sandra Petrignani

Donne che soffrono, amano troppo, combattono. I romanzi di Alba De Céspedes come i colpi di pistola della rivoluzione

Una scrittrice come Alba De Céspedes, dal successo immediato e duraturo, dalla vita avventurosa che l’ha vista in prima linea nella Resistenza e nelle battaglie femminili, dalle ascendenze cubane per linea di padre e amica personale di Fidel Castro, si presta facilmente a diventare leggenda. In Francia, in Inghilterra, in America, sarebbe accaduto. Ma il nostro non è un paese per donne. E tocca regolarmente andare a ritirarla fuori dalle soffitte e raccontarla di nuovo sperando di convincere nuove generazioni a leggerla. Ora l’occasione è la riproposta mondadoriana di uno dei suoi romanzi più famosi, addirittura proverbiale, Dalla parte di lei (530 pagine, 15 euro) che apparve la prima volta nell’agosto del 1949 quando era già una scrittrice affermata e amatissima. Dieci anni prima, infatti, era uscito Nessuno torna indietro sul destino di un gruppo di ragazze in un collegio di suore e delle loro diverse iniziazioni nel mondo “di fuori”. Il libro si era imposto come uno dei più grandi successi dell’epoca. Poi c’era stata una raccolta di racconti, Fuga. Ora Alba voleva superare se stessa. Temeva di essere relegata fra le scrittrici per signorine o commerciali.

 

L’anno precedente Elsa Morante s’era fatta notare con L’isola d’Arturo: magre vendite ma tanto riscontro di stima… Lei, invece, è insicura: “Non sarò mai una grande scrittrice” annota in un diario. E allora pensa a un super romanzo, che non sarà solo un romanzo, che dovrà sbalordire la critica. Come argomenta Melania Mazzucco nell’introduzione, Dalla parte di lei è insieme un memoriale e un’arringa, “audace esperimento di contaminazione dei generi – diario, novella naturalista, romanzo psicologico, racconto lungo neorealista, riflessione metaletteraria sulla scrittura – è un monumento impressionante per il suo radicalismo appena agghindato con gli stracci della trama”. È Arnoldo Mondadori a trovare quel titolo indovinato. Lo racconta la stessa De Céspedes in una prefazione che scrisse per la riedizione del 1994 e che viene riproposta adesso: “Io gliene parlavo con la difficoltà che ogni autore prova nel parlare al suo editore del libro che sta scrivendo. A un certo punto gli dissi che si trattava di una storia d’amore vista però dalla parte di lei. Il geniale Arnoldo mi interruppe illuminandosi in viso e gridando: ‘Dalla parte di lei… dalla parte di lei’. Il titolo fu deciso così”.

 

A un certo punto, verso la fine del romanzo, risuonano i colpi di una pistola: la protagonista, Alessandra, spara contro il marito addormentato, Francesco, che non ha voluto restare sveglio per ascoltarla. Torna in mente un altro colpo di pistola che una donna esplode contro suo marito all’inizio di un altro romanzo di un’altra scrittrice. È stato così di Natalia Ginzburg, uscito nel ’47. Anche qui l’uomo tratta la moglie con sufficienza, rimanda le spiegazioni a un “dopo” non meglio definito: la superiore arroganza dei maschi che non reputano importanti le parole femminili, sempre pronti a rimandare: “Dormi, sta’ tranquilla, dormi. Parleremo domani” dice Francesco ad Alessandra. Vittime, le donne, del loro amare troppo, inchiodate a questi amori fantasticati da cui si aspettano sempre di più di quanto il sentire degli uomini – una volta superata la fase della passione – possa offrire. In una lettera al marito la stessa De Céspedes dice: “Ho voluto che la vita fosse bella e felice per te come avrei voluto che qualcuno la inventasse per me da quando sono nata. E tu non mi hai fatto niente di male, niente di male. Solo le colombe che io inventavo si spaccavano la testa, tutte, contro la pietra di cui sei fatto…”.

 

È una vecchia storia. La storia del pozzo nel Discorso sulle donne della sua amica Ginzburg che la stessa De Céspedes, nel marzo del 1948, le aveva pubblicato su Mercurio, la rivista culturale e politica che dirigeva. Era rimasta turbata Alba da quel discorso: “Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne…”. E lei, la coraggiosa, l’antifascista che arringava i compagni attraverso la clandestina Radio Bari col nome di Clorinda durante la lotta partigiana, lei nipote di un padre della patria e figlia di Carlos Manuel de Céspedes y Quesada, che era stato presidente di Cuba durante l’indipendenza e venne deposto nel 1933 per l’avvento della dittatura di Batista, anche lei cadeva nel pozzo? Doveva rispondere di sì. E quando nei suoi libri le donne si ribellano, come in Dalla parte di lei, la sconfitta è totale. Se nella Sonata a Kreutzer di Tolstoj il protagonista che ha ucciso la moglie sarà assolto, con il movente della gelosia,  dalla legge maschile, per Alessandra non ci sono attenuanti e può solo sprofondare nella punizione condividendo il triste destino di sua madre, una madre suicida per troppo amore.

 

“Credo che se avessi avuto per avvocato una donna mi sarebbe stato facile spiegarmi; e così se tra i componenti della Corte  avessi visto una figura femminile. Invece, pur avvedendomi che i miei ostinati silenzi sollevavano indignazione fra i presenti e allontanavano da me ogni movimento di simpatia e di pietà, non potevo parlare. Se non era stato possibile farmi comprendere dall’uomo che mi viveva accanto e che amavo con tutte le mie forze, se non avevo potuto parlare con lui, come sarebbe stato possibile con gli altri?”. Così Alessandra, e si arrende alla condanna. 

 

Ho incontrato Alba De Céspedes per un’intervista che le feci sul Messaggero. Era l’agosto del 1983. Nata a Roma nel 1911, viveva a Parigi, ma si trovava nelle Valli Valdesi, a Lucerna San Giovanni, in Piemonte, come sempre l’estate, nell’antica casa del marito, Franco Bounous, diplomatico in pensione. Venne gentilmente a prendermi in macchina alla stazione di Pinerolo: una donna alta e snella di settantadue anni, che allora a me sembravano tantissimi, in pantaloni bianchi e una luminosa camicia azzurra. La folta capigliatura a fitte meches bionde per camuffare i capelli bianchi e due grandi occhi azzurri dietro gli occhiali. I suoi romanzi me li aveva fatti leggere mia madre, che la adorava: Nessuno torna indietro, Il rimorso, La bambolona, Quaderno proibito… A me interessava di più la sua vita, eroica, avventurosa, dalla parte delle donne… Mi disse: “La prima cosa che ho scritto, a cinque sei anni, è stata una poesia sulle donne che lavorano e soffrono”.

 

Precoce sempre. Quindicenne s’innamora pazzamente di un aristocratico romano, Giuseppe Antamoro e lo sposa; e si guadagna la cittadinanza italiana accanto a quella cubana che le veniva dal padre diplomatico. Notai, in quel nostro unico incontro, che Alba aveva maniere sudamericane: era calda, accogliente, ironica e sincera. Parlando aveva gesti simpatici: un’alzata di spalle, un modo tutto suo di ammiccare. E infatti, come moglie di ambasciatore era stata “un disastro”, mi disse ridendo. Lei che detestava la vita mondana costretta a ricevimenti e abiti da sera… Ma a guidarla era sempre stato l’amore e anche di quel marito che le vedevo accanto, il secondo, si era pazzamente innamorata un giorno del gennaio 1940. Che fine aveva fatto il primo, dal quale aveva avuto, diciassettenne, anche il suo unico figlio? Era stato una grandissima delusione. Giocava e la lasciava a casa sola… ma poi si sarebbe dato da fare per aiutarla a sciogliere quella loro unione sbagliata di cui la burocrazia fascista si ostinava a negare l’annullamento. Potrà sposare Bounous soltanto nel ’45. E fra quei due amori, fra un matrimonio e l’altro, nella sua vita succedono moltissime cose. Diventa, prima di tutto, una scrittrice.

 

Si trovava a Roma, già separata dal conte Antamoro, col figlio piccolo. Il padre le aveva concesso un assegno mensile per due anni e se dopo quel periodo non fosse stata in grado di mantenersi da sola sarebbe dovuta tornare a vivere in famiglia. Ma lei era “caparbia e decisa a farcela”. Passava quotidianamente davanti alla tipografia del Giornale d’Italia. “Mi piaceva in modo enorme l’odore di inchiostro che emanava da quelle stanze al pianoterra. Allora mi attaccavo alle sbarre delle finestre per sentirlo meglio”. Mandò le sue prime novelle al Giornale d’Italia perché le sembrò il più a portata di mano. Vennero pubblicate. “E pagate!”. Presto ottenne un contratto come collaboratrice. Molto prima che scadessero i due anni. E probabilmente il padre non aveva mai messo in dubbio che lei ce l’avrebbe fatta. In punto di morte, nel 1939, la chiamò al suo capezzale per dirle: “Escribir! Escribir! Non devi pensare ad altro che a scrivere. Diventerai una grande scrittrice!” E così fu. 

 

Il pubblico femminile l’adorava, ma non le mancarono importanti riconoscimenti critici, da Eugenio Montale a Michele Prisco a Emilio Cecchi, sia in Italia sia in Francia, dove si trasferì, a Parigi, dagli anni Sessanta per il lavoro del marito ambasciatore e dove restò fino alla morte avvenuta nel ’97. E dove frequentava Italo Calvino e Simone de Beauvoir, per dire. Mentre in Italia doveva essere relegata in quel dimenticatoio in cui sono finite in tante, da Anna Banti a Paola Masino, da Fausa Cialente a Laudomia Bonanni… 

 

Fino al giorno in cui qualche studiosa di buona volontà o una casa editrice meritevole scuote via la polvere del tempo e le ripropone. Come succede adesso proprio alla Bonanni, di cui Cliquot ripubblica, con una convinta introduzione di Dacia Maraini, Un bambino di pietra (155 pagine, 16 euro), storia di “una nevrosi femminile” recita il sottotitolo. Un notevolissimo romanzo che nel 1979 fu finalista al Premio Strega, percorso psicanalitico di una donna, che potrebbe essere tante donne, raccontato in una lingua secca e moderna).

 

In quel nostro incontro a Lucerna San Giovanni m’incuriosiva molto di Alba De Céspedes il suo impegno politico. Era sempre stata una pasionaria, delusa dalle elezioni del dopoguerra, antiamericana e di sinistra, grande sostenitrice di Che Guevara e di Fidel Castro (aveva conosciuto l’uno e l’altro). “Sì, ho conosciuto Che. E sono tuttora amica di suo padre, che si chiama Ernesto come lui. Ma è difficile dire che tipo fosse Guevara. Era un uomo. Lo accusavano di romanticismo, ma non si può avere uno spirito d’avventura come il suo e non essere romantici. In un certo senso anche Fidel lo è. Uomini dal grande fascino personale, troppo straordinari per essere chiusi in una secca definizione. Entrambi hanno conosciuto la vita del ragazzo ricco. Fidel appartiene a una famiglia nobile, antica. Aveva  una tenuta immensa, di cui non si vedeva la fine. E’ stata la prima a essere nazionalizzata”.

 

Come riusciva Alba a conciliare tutto questo con la sua realtà borghese di moglie di diplomatico? La risposta fu sconcertante. “Con un grande amore”, disse velando lo sguardo di malinconia, “e con la scrittura. Sono veramente felice quando resto sola e scrivo”. Non voleva dirlo apertamente ma mi fece capire quanto aveva sacrificato della propria libertà al grande amore per un uomo, il marito, dal quale non si sentiva capita fino in fondo. Quella parola, amore, era anche nel titolo del libro che stava scrivendo, Con grande amore, destinato a essere stampato postumo e incompiuto. Castro avrebbe voluto pubblicarlo, in spagnolo, in occasione del ventesimo anniversario della Rivoluzione. Ma era un libro infinito, il libro della vita, la cui prima idea era germogliata fin dagli anni Quaranta, in parte autobiografia, in parte storia di Cuba. E il titolo le veniva proprio da Fidel. Un giorno lei gli aveva domandato, a proposito dei risultati della rivoluzione cubana: “Come hai fatto a realizzare tutto questo in così poco tempo?”. E lui aveva risposto semplicemente e con noncuranza: “Con un gran amor”.