facce dispari

Una lettrice di volti. Intervista a Grazia Ippolito

Francesco Palmieri

L'arte di ritrarre i visi con una macchina fotografica. "Ogni faccia è una storia. È fondamentale che si stabilisca la relazione umana, quell’empatia che mette a proprio agio una persona"

Letta una volta, non si potrà più dimenticare la confidenza sapida di Antonio Asturi, eccellente ritrattista. Quando posò per lui il filosofo Benedetto Croce, la matita gli rimase inerte tra le dita: “È terribile, fa pena, sgomenta trovarsi davanti a un’intelligenza suprema e scambiarla per demenza”. Al cospetto della faccia più ambìta tra le centinaia che aveva riprodotto per tutt’una vita, il pittore realizzò per la prima volta che “la genialità e la demenza si somigliano, hanno lo stesso modo d’esprimersi”. Restò a lungo confuso dinanzi alla “maschera vuota” del pensatore finché un raggio di luce rischiarò, da fuori, la vena di una tempia di don Benedetto. Allora Asturi colse tutta d’un colpo quella “impercettibile pulsazione animata da una forza misteriosa”, il meraviglioso fiotto interno nel quale si celava l’anima del personaggio. Spesso sono certi dettagli, più che le apparenze clamorose, a distinguere il filosofo dall’ebete, l’artista dal copista, la danzatrice dalla sgambettatrice.

Da trentadue anni Grazia Ippolito, leonessa/gemelli di nascita milanese, si è specializzata nei ritratti fotografici degli scrittori: celebri, meno celebri, esordienti poi diventati famosi.

Come cominciò?

Con lo sport. Ero stata una sciatrice agonistica. Ma sfogliando certi servizi giornalistici sulle gare, mi resi conto che molti fotografi non conoscevano lo sci. Così, con una Nikon regalatami da mio fratello, andai a una Coppa del mondo, scattai e mandai ai giornali: mi pubblicarono tutto subito e io impazzii di gioia. L’altra passione sin da bambina era stata la lettura, a nove anni avevo scoperto Poe e papà mi aveva abbonato a ‘Life’. Certi ritratti mi sono rimasti impressi. Ripensando, per esempio, a Picasso di Doisneau si intuisce che le foto erano straordinarie perché tra i due s’era stabilita una relazione umana. È un aspetto che ho sempre tenuto presente nel mio lavoro. Intanto mi ero sposata, avevo tre figli e avevo scelto di vivere in campagna, in Brianza. Fu nell’89 che mi nacque la voglia di ritrarre gli scrittori.

Motivo scatenante?

Cominciavo a detestare certe foto stereotipate fatte dai miei colleghi. Per capirci, quelle per cui se sei un giallista ti ritraggono con il coltello in mano. Mi dicevo: ma come si può? È la faccia che deve raccontare. È l’ambiente dove si vive.

Il suo primo soggetto?

Aldo Busi, che mi incoraggiò tantissimo. Uomo di serietà e di intelligenza straordinarie. Forte, lucido, generoso, non la persona che appariva in televisione. Restai per anni l’unica fotografa che riceveva volentieri, avevo quasi una esclusiva. Poi, tre quattro anni fa, mi rispose: “Basta, ho tirato i remi in barca”. Non l’avevo più visto nemmeno in tv e temevo fosse malato. Ma mi è capitato un video girato a Montichiari, dove abita, e m’è sembrato ingrassato moltissimo… È sempre stato goloso, una volta che andai a trovarlo mi disse di essersi svegliato alle sei del mattino per cucinare la faraona ripiena. Ho pensato: meno male, se il motivo per evitare le foto è la pancia, meglio per lui. Gli voglio bene.

Perché fu il suo primo soggetto o perché ne vendeva facilmente le foto?

Per una ragione più profonda, che capii dopo averlo letto e conosciuto. Ricostruii che avevo già visto Busi nel bar milanese dove aveva lavorato da ragazzo: all’epoca era bellissimo e io prendevo il cappuccino lì perché il locale si trovava vicino al negozio di abbigliamento di mio padre. Papà era un pugliese che si era stabilito a Milano e forse volle per questo che noi figli crescessimo milanesi al massimo. Più tardi proprio Busi mi disse di avere riscontrato, leggendo ‘L’Adalgisa’, che i Gadda erano stati clienti del nostro negozio. E che quando Gadda parlava dei terroni di Cerignola che fatta fortuna a Milano si stabiliscono nel centro storico, si riferiva a mio padre.

Quale faccia, tra le tante fotografate, l’ha colpita di più?

Ogni volto mi colpisce a suo modo. Ogni faccia è una storia. È fondamentale che si stabilisca la relazione umana, quell’empatia che mette a proprio agio una persona. Ci si riesce quasi sempre, perché abbiamo tutti voglia che le fotografie vengano bene.

“Quasi sempre”, dice.

In rari casi non riesce… Con Mauro Corona, per esempio. Non sono mai stata trattata così male come da lui, ma credo che quella sera avesse bevuto troppa birra. Quando gli diedi il biglietto di visita disse che lo avrebbe usato per accendere la stufa e cominciò a sbraitare. Ovviamente, niente foto.

All’opposto, un bel ricordo?

Ce n’è una marea. Per esempio Terzani, che andavo a visitare molte volte nella sua casa di Orsigna col mio ex compagno, Vincenzo Cottinelli, che era diventato il suo fotografo. Tiziano era un uomo stupendo: alto, elegante, sensibile. Ce la metteva tutta affinché i ritratti riuscissero bene. O ancora Mario Soldati, al borgo di Tellaro, nel suo giardino in una giornata indimenticabile a pranzo con lui e la moglie. Alla sua età era ancora bellissimo, elegantissimo, partecipe. Poi Anna Maria Ortese: le sue espressioni sono fra le più belle che abbia mai fotografato. Abitava a Rapallo e prima che scattassimo volle sapere tutta la mia storia. Fu dolce e apprensiva, si preoccupava perché dovevo fare il viaggio di ritorno in macchina da sola: ‘Mi raccomando, stia attenta’… Poi, sarà che quando scatto mi prende una specie di trance tecnica, al termine della sessione mi batté le mani davanti alla faccia e disse: ‘Adesso torni in sé!’. Come si fa con chi è ipnotizzato. Aveva colto la mia “assenza”, da donna molto sensitiva.

Un ricordo doloroso?

Pier Vittorio Tondelli. Dopo la sua scomparsa, il padre mi mandò una lettera chiedendomi la copia di una fotografia che aveva scelto per la tomba del figlio. Capii che avevo catturato lui proprio com’era. Se la famiglia di uno scrittore sceglie il tuo ritratto vuol dire che è quello più riuscito. Mi è accaduto anche con Amos Oz, uno tra i più fotogenici. Ne adoravo lo sguardo. Leggendo in un suo libro dell’incidente che da bambino gli aveva procurato una cicatrice al mento, mi emozionai nel ritrovare sul suo volto quanto aveva scritto.

Ci ricorda un viso assai particolare?

Susanna Tamaro. La fotografai prima che esplodesse il successo di ‘Va’ dove ti porta il cuore’: posò in terrazzo perché l’appartamento di Trastevere dove abitava era troppo piccolo. Una faccia da cherubino, una testimonianza affascinante della varietà umana dei volti.

Il volto più dispari?

Paolo Nori, l’ho fotografato due volte. Ha una faccia da pazzo stupenda. Purtroppo non riesco a leggerlo, nei suoi scritti non trovo respiro, mi risultano assai faticosi. Poi Ermanno Cavazzoni: un'altra faccia da matto. Il suo ritratto mi riuscì benissimo. All’epoca non era ancora uscito ‘Il poema dei lunatici’. Avevo individuato come sfondo un vicolo piuttosto surreale di fronte al Parco Sempione a Milano. Dissi: “Avrei scelto questo posto, le va bene?” E lui: “Ma questo è nel mio libro!”. Una premonizione… Ma che faccia, appunto, da lunatico.

Il volto più losco?

Javier Marías. Che prima o poi secondo me vincerà il Nobel. Una faccia losca per eccellenza, il suo potrebbe essere lo sguardo di un delinquente. O del portiere di un albergo equivoco.

Il più bello?

Forse quello della giovane filosofa Ilaria Gaspari, che conobbi al primo libro e poi ha avuto successo. Pelle chiara, occhi verdi, tantissimi capelli. Insomma la fotogenia. Ma ho trovato molto fotogenica anche Silvia Avallone.

Il volto più schivo?

Daniele Del Giudice: mi fece un sacco di domande per capire chi fossi, poi un mattino ci incontrammo in un cortile nel centro di Milano dove c’era una libreria. Arrivò con due ciuffi di schiuma da barba ancora sulle basette, non sapevo come dirglielo… Un tipo tranquillo, inglesino, gentile, aveva più riservatezza in privato che quando parlava in pubblico. Un uomo che si manifestava più nella scrittura che nella comunicazione verbale.

Ora chi vorrebbe fotografare?

Woody Allen, Paolo Sorrentino. Poi Valeria Bruni Tedeschi: certi suoi pubblici attacchi di ‘fou rire’ mi hanno incantata.

Quale macchina usa?

Ho cominciato con la Nikon con obiettivi da ambiente e da ritratto. Adesso uso una Fuji X-Pro3, che ha possibilità straordinarie. Anche se le foto sul rollino hanno qualcosa in più non tornerei mai indietro dalle digitali. Una volta sognavo di vedere subito come venivano le foto prima di svilupparle e con la tecnologia quel sogno si è avverato. Anzi, la meraviglia adesso è usare tutti i giorni tante altre cose inesistenti quando le immaginavo da bambina senza poter dare loro un nome: lo smartphone, il pc…

Lei come si definirebbe?

Una lettrice di facce. Ho affittato da poco il mio appartamento a Milano e mi si sono presentate molte persone. Pareva un casting… Alla fine ho scelto una coppia di inglesi, perché i loro volti mi hanno convinto di più. Ma mi sarebbe piaciuto fotografare tutti quelli che avevano visitato la casa.

Cos’è lo sguardo?

Gli occhi sono tutto nel ritratto, anche gli occhi bassi, anche quando lo sguardo non si vede ma “si sente”. Oppure quando, ammiccando, lampeggia.

Parlando di fisiognomica: Lombroso aveva ragione?

A volte penso di sì.

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