Il museo della tecnologia della Sk Telecom a Seul, in Corea del sud (Ansa)

Niente sarà più come prima

La cultura dell'irreale e i negazionismi emergenti

Alfonso Berardinelli

Il mito del progresso ininterrotto ha generato il mito opposto dell’eterno presente

In forma di catastrofe sanitaria mondiale e con l’accelerazione di mutazioni già in corso, il futuro ci precipita addosso. Niente sarà più come prima e c’è abbastanza materia, mi pare, per alimentare l’immaginario futurologico. Non ho nessuna attitudine per la fantascienza e la fantapolitica, che anzi mi respingono, e mi astengo dal fare ipotesi. Il postumano lo trovo ripugnante. Ma diciamo pure che il futuro incombe su di noi come mai prima. Quando il cosiddetto progresso accelera, la coscienza del tempo storico si assottiglia fino a sparire. Tutto si “presentifica”.

 

Uno dei sintomi che nella pandemia in corso mi hanno colpito di più è la generale indifferenza e incredulità con cui le generazioni più giovani hanno vissuto l’evidenza del contagio e della morte. Trovo che in questo ci sia qualcosa di misterioso. C’è stato e continua a esserci un rifiuto di prendere atto dell’evento e delle sue dimensioni. La vita, si sa, è indifferente alla morte, che nonostante tutte le riflessioni in proposito è sempre restata impensabile. Ma sappiamo, perché gli storici ce lo insegnano, che la modernità, soprattutto nella seconda metà del Novecento, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ha segnato il trionfo del giovanilismo e con questo del mascheramento della realtà di tutto ciò che nella vita c’è di transitorio, caduco, deperibile, destinato a declinare e a sparire. La percezione dei pericoli e della mortalità si è indebolita. Il generale, naturale desiderio di essere, di sentirci immortali è diventato un’“ideologia dominante” della nostra vita quotidiana. Sembra che il mito del progresso ininterrotto abbia generato il mito opposto dell’eterno presente, di un presente che non dovrà, non potrà mai finire. Anzi il progresso è inteso, è immaginato come potenziamento continuo dei mezzi biotecnici che garantiranno la vita eterna nella forma della nostra vita attuale, ma depurata dei suoi difetti piccoli e grandi. E fra i più grandi difetti della vita, il più grande è la possibilità che la vita finisca.

 

Ansiolitici, droghe, cosmetici, chirurgia estetica, culto della perfezione fisica, dell’invincibilità, dell’inattaccabilità, della vita asettica, della disinfezione: tutto questo non è che coltivare un’illusione con realistico attivismo produttivo e tecniche adeguate. La digitalizzazione è il pilastro su cui si regge questa illusione. La società in rete, nonostante ogni prova in contrario, crea e coltiva il senso di irrealtà, facilità, velocità, comodità, onnipresenza e onnipotenza. E dato che questo è in parte reale e in parte irreale, arrivano poi, sempre più frequenti fra i giovani, le crisi di panico. Non posso scientificamente garantire che fra vita digitalizzata e panico ci sia una correlazione certa di causa ed effetto. È solo un’intuizione o immaginazione ipotetica da provare. Ma nonostante che i nostri figli o nipoti vivano consumando dosi altissime di cultura dell’immaginario nei videogiochi interattivi, mi sembra che l’immaginazione, soprattutto quella scientifica, stia diminuendo. Non si immaginano i rischi e i pericoli reali perché li si rifiuta in modo fobico. E’ il falso coraggio di chi non ha immaginazione fisica. Una vita dematerializzata come quella digitale è anche derealizzata. Quando si esce dall’involucro psicomentale creato dal dispositivo tecnico, si può facilmente avere l’impressione di essere precipitati nell’indeterminato, nell’incontrollabile vuoto, o nel troppo pieno della realtà fisica.

 

La passione compulsiva dei giovani per gli “assembramenti”, per la produzione di una densa sostanza biosociale compatta e protettiva, non è forse un sintomo fobico? Non si tollera la solitudine. Il nuovo iper-individualismo cresciuto in rete è fatto di irrinunciabili, infrangibili, coatte abitudini allo scambio “social”, cioè poco sociale.

 

Naturalmente ci sono anche segni in contrario, come la molto più frequente uscita dei giovani dai confini locali, regionali e nazionali: lavoro e volontariato all’estero, anche in zone remote e poco conosciute del mondo. Ma non sembrano rari i casi in cui il bravo giovane che vuole fare avventurosamente, coraggiosamente il bene lontano dal proprio paese e ambiente, mostri sorprendenti ingenuità e imprudenze nel calcolo dei rischi. Chi crede che il mondo remoto sia nella realtà come compare da vicino in rete, può andare incontro a esperienze tragiche anche per mancanza di immaginazione.

 

Nella nostra neocultura di massa regna un immaginario della “realtà aumentata”, che è invece diminuita, derealizzata per eccesso. Quando ero ragazzo in un quartiere operaio allora un po’ periferia come Testaccio, era piuttosto facile, anche per un liceale infatuato di letteratura come me, dover “fare a botte” con qualche teppistello. In quel caso, anche in presenza di amici, si era soli. Ci voleva un po’ di coraggio e di forza. Oggi o si vedono dei truci e drogati energumeni da palestra, o dei ragazzi privi del minimo di muscolatura necessaria per dare uno spintone a un aggressore. Soprattutto in un ambiente operaio, allora il bullismo non aveva vita facile. Dico questo perché c’era più società, oggi ce n’è molto meno. La società è soprattutto, come prevedeva Max Weber, una grande macchina tecno-burocratica. Altro che sensibilità ecologica. Se smettiamo di posare i piedi per terra e se non c’è un ambiente fisico nella nostra esperienza, che vuoi che sia il degrado ambientale e il destino della Terra? Non siamo più convinti che ambiente e Terra esistano davvero. Non basta forse spingere un tasto per far comparire o sparire quello che piace o non piace?

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