Biopolitica, pandemia e democrazia

Andrea Venanzoni

Luciano Violante e Alessandro Pajno hanno coordinato una monumentale analisi multidisciplinare fresca di pubblicazione: tre volumi per investigare una delle più devastanti crisi che l'uomo contemporaneo ricordi

Le cose semplici sono fatali. Ha ragione Don DeLillo che in ‘Rumore Bianco’ lo ha notato, e gridato ad un mondo occidentale sempre più chiuso nei suoi rituali di paura e di accettazione di un destino proteso verso il grigiore anodino della ‘nuova normalità’.
Incapaci di comprendere la semplicità, ci siamo comodamente rifugiati dietro la porta di casa, bulimicamente accumulando emozioni intorpidite, gelo cerebrale e cibo, come hikikomori storditi da neon e penombre azzurrognole di schermi di computer, dimentichi spesso delle nostre garanzie, dei nostri diritti e rifluiti così in una dimensione pre-moderna dell’esistente giuridico, in uno spazio umbratile intessuto di concessioni, divieti, limiti, barriere, autorizzazioni.

 

DeLillo, sempre lui, dopo aver salutato il gorgo ribollente dell’incidente e del perturbante tecnico in quello straordinario romanzo di tanti anni fa che era appunto ‘Rumore bianco’, c’è tornato sopra proprio ora con ‘Il Silenzio’, che è una breve novella sulla pandemia e sulla deviazione dalla normalità digitale, una maledizione Maya che azzera il mondo per come lo conosciamo noi, scintillante, lucente, connesso, veloce, e che ci insegna la affilata crudeltà di qualunque semplicità.

 

Un incidente semplice da cui irradia una complessità devastante.

 

Perché, e ce lo ricorda anche David Quammen in ‘Spillover’, si può immaginare qualcosa di più lineare e semplice di un virus che dalla sua consistenza elementare di ‘malattia’ si replica in maniera esponenziale fino ad aggredire una società che non riesce più ad afferrare il particolare, il dettaglio e nemmeno l’elementare?

 

Possiamo trincerarci dietro il principio di precauzione o evocando una idea, assurda, di rischio zero, sapendo che nessuna di queste due cose è davvero reale, se non a prezzo di trasformarsi in un sudario incapacitante: possiamo negare la verità quando ce la troviamo davanti, ma non sfuggiremo alla desolazione della semplicità.

 

Da un anno siamo spezzati nel nostro vivere quotidiano, nelle nostre Costituzioni interrotte, nei nostri ordinamenti sospesi o alterati, a causa di un semplice per quanto inquietante ‘ospite’, uno di quei coronavirus che da decenni mutano diversi e uguali al tempo stesso.

 

Ed è quindi con grande favore che va salutata la monumentale pubblicazione in tre volumi, per i tipi de Il Mulino, del lavoro di ricerca condotto dalla Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine, coordinato dai Presidenti Luciano Violante e Alessandro Pajno, dal significativo titolo ‘Biopolitica, pandemia e democrazia’, con un sottotitolo da non perder per via, ‘Rule of law nella società digitale’.

 

Opera schiettamente pluri e multi-disciplinare, portata avanti da giuristi, filosofi, tecnici, accademici e pratici, medici, economisti e ingegneri, investiga e scandaglia l’insondabile ventre di una delle più devastanti crisi che l’uomo contemporaneo ricordi. E se per lunghissimo tempo ogni rivolgimento storico ci ha portato a confrontarci dolentemente con l’idea, apocalittica, dei giorni ultimi, della fine assoluta, dello sdilinquimento, vi è da dire che la pandemia ha prodotto in molti un cortocircuito intepretativo ed esistenziale: il carnevale delle ferite, la geografia della sofferenza capace di ingenerare un trauma di cui saremo noi a decidere cosa fare, energia propulsiva per rilanciarci o al contrario suggello finale della caduta.

 

E proprio del trauma parla Violante nella sua introduzione, il trauma storico e contingente che ha contraddistinto ogni generazione, e il trauma assurto quasi alla consistenza metafisica del potere che va espandensosi con voluttà bulimica ponendo la questione del suo freno e della sua limitazione: e se d’altronde ogni costituzionalismo si ingenera per effetto di luhmanniane irritazioni, intese come attriti tra un potere cadente e decadente e l’irrompere di forze sociali e della pluralizzazione dei sistemi complessi che chiedono garanzie, diritti e riconoscimento al volgere di ogni epoca, come pure notava Santi Romano nella sua celebre prolusione pisana, diventa necessario scavare nella carne viva del presente e della società in cui siamo calati, al fine di disvelare la nudità del potere.

 

Biopolitico, non a caso, con quell’accento foucaltiano di peste organizzatrice del vivere civile, come delineato in ‘Nascita della clinica’ e in ‘Sorvegliare e punire’: il potere che si innerva nei nodi essenziali della nostra corporeità, in cui all’habeas corpus metaforico della partizione giuridica si sostituisce il peso di una garanzia che finisce davvero incistata nella carne e nello spirito, laddove il corpus non è più raccolta, collazione, ma carne pulsante e sanguinante.

 

Grandi poteri pubblici e ancor più grandi poteri privati che nel ventre della pandemia hanno svolto una funzione di surroga della presenza statale, una bulimia espansiva semi-statalizzante a fronte della cristallizzazione ossificata dei moduli burocratici, spesso incapaci di confrontarsi con la semplicità da cui origina la complessità del presente.

 

Pajno, in questa prospettiva, riflette sul rapporto non pacifico tra pandemia e democrazia: e se già la definizione strutturale della democrazia è in assoluto una delle questioni più controverse del dibattito della scienza politica e del diritto, la democrazia contemporanea, sottoposta alla morsa feroce della digitalizzazione, della grande convergenza tecnologica, della nuova globalizzazione, del populismo, si è trovata ora dilatata in contro-democrazia, per dirla alla Rosanvallon, come fenomeno di sorveglianza attiva e continua, ora in post-democrazia, alla Crouch, come forma dissoluta di ibridazione ineguale ed asimettrica tra distinti moduli procedurali e deliberativi.

 

E in questo senso Pajno sottopone a verifica il modo in cui il deflagrare pandemico ha rimodulato le principali categorie del diritto e dell’organizzazione statale, le fonti del diritto, gli schemi istituzionali, la governance che va sostituendo lentamente ma inesorabilmente il governo, proseguendo una direttrice già inaugurata dalla globalizzazione.

 

Più in generale tutto il primo volume è dedicato ad affrontare i ‘problemi di governo’, tra cui la mancanza nel nostro ordito costituzionale, a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti come ad esempio quello francese, di una norma tesa alla gestione costituzionalmente orientata della emergenza, al ruolo del Parlamento che si è trovato ora forzosamente ora scientemente esautorato o forse auto-esautorato sotto il rullo compressore dei contagi e delle limitazioni alle più elementati libertà, talmente stringenti da aver sacrificato la spazialità e la corporeità stessa, annegate nelle nebbie della burocrazia frenante.

 

Particolarmente di interesse il framework complessissimo, frastagliato e spesso evanescente dei distinti livelli di governo, dentro cui la sovrapposizione si è spesso modificata geneticamente in conflitto: dai rapporti con le istituzioni sovra-nazionali, dall’Oms alla Ue, alla querelle tra governo centrale e regioni, capace questa ultima di rievocare tentazioni neocentralizzanti.

 

Di particolare pregio la riflessione di Erik Longo sulla democrazia elettronica, sospinta a grandi falcate dalla immobilizzazione corporea nei nostri domicili e dal distanziamento sociale, e però ancora oggi foriera di problemi oggettivamente irrisolti e di inquietudini che già Carl Schmitt, Norberto Bobbio e Stefano Rodotà avevano sapientemente enucleato

 

Il secondo volume è invece dedicato all’etica, alla comunicazione e ai diritti, con un taglio molto più orientato agli aspetti prettamente filosofici, come rimarca Sebastiano Maffettone nel suo ‘Pandemia. Etica e politica’, ed etici, passando da quelli medico-sanitari alle inferenze statistiche e di utilizzo dei dati.

 

La parte più giuridica del secondo volume, introdotta da una acuta riflessione di Cesare Pinelli, si interroga sull’emersione di veri o presunti nuovi diritti culturalmente sospinti dalla morfologia delle misure di contrasto alla pandemia. Non poteva quindi mancare una analitica decostruzione dei ‘diritti digitali’, operata da Oreste Pollicino, Marco Bassini e Giovanni De Gregorio, i quali si intrattengono sulla reale (o virtuale) consistenza di questi diritti e in assoluto di un diritto al digitale, non dimenticando per via i problemi connessi alla cultura della sorveglianza o se si preferisce, accedendo alla icastica formulazione di S. Zuboff, al capitalismo della sorveglianza.

 

Il carsico flusso di dati che secondo una abusata immagine costituiscono il petrolio della contemporaneità giuridica e sociale, impazziti, lasciati alla deriva, intercettati, modellati e utilizzati dalle piattaforme che vanno assemblando nuove dimensioni del ‘politico’.

 

Il tutto, appare irrinunciabile, con un occhio rivolto alla tutela e alla protezione dei dati personali, sempre più diritti fondamentali, su cui riflette anche l’ex Garante Privacy, Antonello Soro, assieme a Federica Resta, articolando una riflessione sullo stress test inferto sui dati personali dall’incedere della emergenza e dall’utilizzo massivo dei dati, spesso assai sensibili e delicati, concernendo gli stessi la dimensione sanitaria.

 

Il terzo volume, infine, è quello di taglio più prettamente empirico e procedurale, investigando in maniera puntuale e capillare l’utilizzo di nuove tecnologie algoritmiche e di intelligenza artificiale nel sistema sanitario, con tutte le conseguenze di ordine etico e giuridico.

 

Si riflette sulla giurisdizione, sulla sanità, sull’istruzione, sulla amministrazione, prefigurando la ‘stabilizzazione’ della emergenza e immaginando che molte delle modifiche strutturali importate dal coronavirus finiranno per consistere in un nuovo, eterno, presente. Perché persino la semplicità del salvare una vita, del curare, dello sviluppare empatia è stata problematizzata da questa sedicente nuova normalità che tutto pastura e frantuma, nel generale sommovimento di faglia della postmodernità di cui la pandemia è il solustro rossiccio di una nuova alba.

 

Un presente/futuro che dovrà basarsi sulla cooperazione e sulla solidarietà perché, come avvertiva Albert Camus, ‘non vi è isola nella peste’.

 

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