La prima cosa che farò

Una cena al ristorante, una serata a teatro, una riunione senza Zoom. E poi, parlare senza ansie con un estraneo, riascoltare  le voci della notte nella piazza sotto casa, baciare sulle guance e abbracciare. Girotondo fogliante in vista del giorno in cui il Covid non farà più paura

Ho detto a mio figlio di cinque anni, Francesco, che ogni mattina prima di entrare a scuola mi ricorda da mesi, con uno sguardo da sognatore gentile, tutto quello che vorrebbe fare quando-finisce-il-Covid, papà quando posso andare a vedere la città degli Aristogatti, papà quando posso andare a vedere la statua con la torcia della libertà, papà quando posso andare di nuovo su un aereo, papà quando possiamo andare a trovare i nonni, papà quando mi porti nel tuo ufficio, che tra le cose belle che consideravo non belle, che sogno di fare quando-finisce-il-Covid, ci sono le cose belle che tutti noi sogniamo, un viaggio in famiglia nella piccola mobile home della spiaggia francese dei nostri sogni, ma ci sono anche cose che mai avrei sognato di sognare, come sognare di non aver più paura, come ho oggi, come tutti, di conoscere persone che non conosco. Sogno di salire su un aereo e di attaccare bottone con chiunque tenti di fottermi il poggia gomito. Sogno di salire su un treno e di parlare con il primo sconosciuto seduto in carrozza. Sogno di parlare con i commessi al negozio. Sogno di non fuggire via ogni volta che uno sconosciuto attacca bottone in edicola. Sogno di vivere quella sensazione ingenua ma forse no fotografata in un celebre aforisma dello scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry: “Una singola circostanza può risvegliare in noi un estraneo che ci è totalmente estraneo”. Quando finisce il Covid vorrei tornare per un secondo bambino e ricordare come sia bello trovare un estraneo con cui parlare per scoprire qualcosa di noi stessi che non conosciamo già.

Claudio Cerasa


Una festa di matrimonio


Metto i tacchi e l’abito da sposa, organizzo la festa di matrimonio che non ho fatto quando era il momento, con i vestiti lunghi, il mare e i fiori bianchi. So che gli innamorati, in questo anno che sembra un secolo, hanno sofferto. So che chi cerca l’amore ha sofferto ancora di più, perché non vedi nessuno, non incontri nessuno, non capisci cosa si nasconde dietro alle mascherine, figurati dietro alle parole e ai convenevoli, e intanto il tempo corre e non lo raggiungeremo. So tutto, e non mi sono lamentata, nemmeno della dad, nemmeno dei figli sempre in casa, nemmeno dei millemila pranzi che ho dovuto cucinare sognando di assumere un cuoco per il resto della vita. Però ecco: un matrimonio che è sopravvissuto alla convivenza forzata, alla prossimità inevitabile, costretta, incolpevole, un matrimonio che esce semi integro dalla pandemia, questo matrimonio che riconosce il ticchettio del buonumore sulle scale merita una festa, i tacchi alti, il vestito lungo, il mare e i nostri fiori bianchi.


Paola Peduzzi


Ad assaporare le pesche più buone del mondo


Col suo volto pallido e il collo storto, san Luigi Gonzaga era però un ragazzo allegro, del resto fu un gesuita. E anche se morì a soli 23 anni, li aveva vissuti bene: compreso l’ultimo anno, quello di una terribile epidemia a Roma, durante la quale si prodigò per aiutare i malati, senza troppo badare al distanziamento, fino a morire dell’infezione. Di lui è celebre un aneddoto agiografico, un gioco di società. Gli chiesero: “Cosa faresti se ti dicessero che tra un’ora morirai?”. E mentre tutti impauriti rispondevano “vado in chiesa”, o “a salutare la mamma” lui, serafico: “Continuerei a fare ciò che sto facendo ora”. Non è per dire, ovviamente, che mi sento santo come lui. Ci mancherebbe. Però questa ansia  così diffusa sul cosa farò dopo, e tutta la nostalgia per un tempo che sarebbe stato “perduto” (perché ci manca lo spritz? l’aereo?) mi pare eccessiva. Io credo che abbiamo vissuto, e spesso più intensamente, anche in questo tempo costretto e maledetto. Però, se proprio volete una cosa bella: l’anno scorso, inizio estate, appena tornati liberi, siamo andati con la famiglia allargata nei magnifici frutteti di Volpedo, nell’Oltrepò, dove coltivano le pesche più buone e profumate del mondo. Ad assaggiarne i sapori, a goderci il tramonto in collina. Ma senza poterci abbracciare. Quest’anno, ecco, invece sì: a mangiare le pesche di Volpedo, e ad abbracciarci pure.


Maurizio Crippa


Tornare a essere un animale sociale


Gli isolamenti coatti, soprattutto se prolungati, trasformano la realtà circostante. Non sono frasi fatte, battute da serie tv di bassa lega, aforismi da Bacio Perugina. La quarantena forzata ti rende come uno straniero che per la prima volta in vita sua si trova su un marciapiede di Manhattan, disorientato dalla frenesia che lo circonda. Ti capita di uscire, di entrare in un supermercato e di domandarti per un minuto se sia il caso (o no) di sanificarti le mani prima di toccare il carrello, se si debba evitare di toccare il meno possibile le confezioni dello yogurt greco, se sia opportuno tirarsi su la mascherina certificata fin sotto agli occhi.  

E viene quasi voglia di tornare a barricarsi in casa, tra comodi tapis-roulant in camera da letto, televisore ad altezza divano, spese a domicilio e connessioni ultra veloci. Che miseria di vita, Schopenhauer avrebbe materiale in abbondanza per ricamarci su. Alla fine, appena “liberati” da coprifuoco, quarantene e diktat ministeriali, l’unica cosa che conta è tornare a essere animali sociali. Una cena senza il terrore di restare fuori casa alle 22.01, una risata senza l’immancabile ffp2 a coprire mezzo volto, la libertà di prendere un aereo senza dover prima giustificare lo spostamento compilando moduli su moduli che neanche a Mosca negli anni Cinquanta. Un film al cinema (matinée incluso), un concerto d’archi in un ambiente chiuso, se proprio vogliamo fare i fighi. E’ troppo?


Matteo Matzuzzi


A Ferrara, a Ferrara


Sopra un ponte di Roma ho visto una scritta: #iovogliouscirelanotte. Mi è sembrata una scritta molto bella, ma ancora non oso desiderare di uscire la notte. Mi basterà uscire di giorno, ma per tutto il giorno fino alla notte. La prima cosa che farò sarà andare a Ferrara in treno e da Ferrara a Comacchio, in auto stipati in mille e anche il cane. La metà di noi sarà vaccinata, spero. A Comacchio ci sono molte trattorie, ma soprattutto ci sono le valli, e il massimo è andare a pranzo in una trattoria nelle valli. Da lì, gonfi di cibo, si va al mare, sempre stipati in auto con il cane, e si cammina nella spiaggia lunga chilometri e si dice: questa spiaggia non finisce mai, ogni anno cresce un po’. Bisogna dirlo per forza, perché così si è sicuri di tornarci anche l’anno dopo. A questo punto però, con quella camminata sulla spiaggia infinita ci è tornata fame, e bisognerà fermarsi in uno dei baracchini per strada che vendono le piadine con lo squacquerone e il prosciutto. Poi di nuovo stipati verso casa e la sera è già notte e qualcuno si addormenta in auto abbracciato al cane.


Annalena Benini

 

Un aperitivo e poi di corsa alla Scala


Prima di tutto un cappuccino e una brioche al bar, leggendo il giornale che hanno toccato tutti. Poi lezione all’Università, nell’aula stracolma di studenti; finita la lezione a pranzo in mensa, come prima, con i colleghi e i collaboratori a chiacchierare nei tavoli. Poi – non ve la prendete – lascio presto il lavoro: un bell’aperitivo in corso Como in un locale dove non si riesce neanche a entrare dalla folla, prendendo con le mani dal buffet le cibarie disponibili. Vorrei attardarmi per un secondo Negroni, ma non posso: devo andare alla Scala, dove voglio arrivare presto per godermi non solo la musica, ma anche  il foyer, stringendo le mani agli amici e baciandole alle signore. Tra il primo e il secondo atto una fuga veloce da Trussardi, per un piccolo ulteriore rinfresco, e poi con Angelo e gli altri amici tutti al Rigolo, ma all’interno, al nostro solito tavolo, a tirare tardi, rammaricandoci perché proprio in questo terribile periodo Paolino ci ha lasciato e parlando di lui, di quanto ci manca e ci mancherà. Se fosse una giornata perfetta l’indomani la Lazio giocherebbe a San Siro, ma forse sarebbe chiedere troppo, mi accontenterei di guardarla in tv in allegra compagnia urlando a squarciagola senza mascherina per ogni gol della mia squadra. 


Roberto Burioni
 

 

La birra, le chiacchiere e via in scena

La prima cosa che farò quando finirà tutto questo sarà tornare a esibirmi. Il motivo è molto semplice: non esiste nulla che a un comico possa mancare più della risata dal vivo del suo pubblico. Gli ultimi 14 mesi (salvo alcuni penosi periodi di riapertura, durante i quali si aveva la sensazione che da un momento all’altro Conte e Sileri in persona potessero trascinarti giù dal palco e abbassare le saracinesche del locale) sono stati particolarmente avvilenti per chi lavora nello spettacolo. Per sopperire alla chiusura di club e teatri le abbiamo provate tutte: esibizioni in streaming (“Mi sentite? Io vi sento!” is the new “Chi è Tatiana?”), interminabili dirette su Instagram, centinaia di ore di nuovi podcast (ne ho fatto uno anche io!). Ormai da mesi assaporo il momento del ritorno in scena e tutti i rituali ad esso collegati: la birra per sedare l’ansia, le chiacchiere con i colleghi prima dello show e quelle successive con gli spettatori. Credo che sarà naturale esordire chiedendo “Come stiamo?”. E spero che la connessione col pubblico sia migliore di quella su Zoom.


Edoardo Ferrario
 

Una foto a Cannes senza mascherina


Non è educato rispondere a una domanda con altre domande. Ma quando finirà? Quando senza più l’obbligo della mascherina ci sembrerà di uscire nudi per strada? Oppure quando potremo andare al Festival di Cannes senza le restrizioni sanitarie che il sindaco della cittadina (un po’ balneare, un po’ congressuale) ora pretende, e il direttore Thierry Frémaux proprio non vorrebbe. E’ disposto perfino a ri-spostare il suo festival (già sparito a maggio e ricomparso a luglio) verso l’autunno. Dieci anni fa il direttore medesimo ci aveva fotografati – eravamo parecchie migliaia – seduti vicini vicini con gli occhialetti per vedere in 3D il vecchietto di “Up” e i suoi palloncini per traslocare casa. La foto fece il giro del mondo. Uno scatto simile con le mascherine, e pure distanziati, non sarebbe una festa. Cannes smetterebbe di avere il fascino che la gioielleria Tiffany aveva su Holly Golightly: “Un posto dove non può succederti nulla di male”.


Mariarosa Mancuso


Un pranzo come dico io


Abbastanza ovviamente sarà un pranzo. Prenderò la macchina che l’architetto Boeri vuole espellere dalle città per costringere a quella modalità topesca che è il trasporto pubblico. Dunque non sarà un ristorante in un centro storico tavolinizzato e pedonalizzato (inaccessibile alle auto dei cittadini e però guarda caso accessibilissimo ai furgoni di Bezos). Lo avrò scelto fra quelli che durante la segregazione non hanno fatto il cosiddetto delivery: tristezza basta. Fra quelli che non puntano sul menù degustazione: imposizioni basta. Fra quelli che nel menù non hanno parole come “chips”, “lime”, “crumble”, “cake”: lingua di Bezos basta. Abbraccerò gli amici con cui mi sarò dato appuntamento davanti al locale. Prima di mangiare mi farò il segno della croce per ringraziare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo di essere ancora vivo, vegeto ed edonista. Chiederò un conto non fiscale e pagherò in contanti.


Camillo Langone

 

Mi godrò Roma da un torpedone a due piani


Una cosa divertente che non ho mai fatto e che farò non appena “riapriranno tutto” è salire su uno dei torpedoni che intasano il traffico di Roma. Quelli a due piani, l’equivalente delle grandi navi che si incastrano nei vicoli della capitale come nei canali veneziani. Oggetti mostruosi che tutti odiamo, simbolo del turismo più ciabattaro, quante volte lo abbiamo denunciato: con quei viaggiatori bovini all’ultimo piano dallo sguardo perso. Ogni tanto qualcuno se ne incastrava, tra le viuzze strette: e poi, col peso micidiale, distruggono le strade, e entrano anche nell’ultimo vicolo, mentre tu, residente, magari con l’auto pure ibrida, non puoi. Insomma, il male assoluto: finché c’erano. E però, da quando non ci sono più, un poco mancano, proprio perché simboleggiavano lo smog, i cappellini con visiera, i turistacci da pizza al taglio, insomma la vita. Dunque, la prima cosa, saltar sopra uno dei mostruosi pullman e godersi Roma da turisti, respirare a pieni polmoni lo smog che a quel punto tornerà, e tornare finalmente a lamentarsi del traffico, ecco il mio proposito (anche perché, poi, come le grandi navi, l’unico modo per non vederli, questi orrori a due piani, è starci sopra).


Michele Masneri

 

Risentire la voce della notte, giù nella piazza


La prima cosa bella sarà risentire la voce. Se penso a questi quindici mesi di inferno silenzioso mi ritorna infatti in mente lo choc della prima sera di lockdown: mi sono affacciata e la mia piazza caotica era muta e ferma, una specie di vascello fantasma vicino al Tevere, senza vele, con due sparute macchine parcheggiate, nessun passo, nessuna luce accesa. Uno scenario tra il film dell’orrore e la foto artistica di un Ferragosto anni Settanta nel deserto della città, solo che era marzo e faceva freddo. E farò questo: andare a sentire il rumore che fa (di nuovo) la vita che scorre senza limitazione esterna e interna, perché il coprifuoco – questo mi preoccupa – per molti è diventato una specie di stato mentale in cui non ci si spinge oltre le 22 neanche con il pensiero. E neanche oltre domani, perché il limite pandemico è diventato limite personale. C’è chi ormai pensa rosso, arancione e giallo, come se il confine da non oltrepassare nelle aspirazioni e nei desideri coincidesse con il colore che ha determinato, finora, le piccole libertà extra virus. E l’altra prima cosa bella sarà poter finalmente ascoltare discorsi che non siano legati a questa macchia nera che se non stai attento ti invade e cancella la voglia di reagire. A me per fortuna non è successo, ma vorrei da oggi vederla ritirarsi all’istante, la macchia nera, come per effetto di bacchetta magica.

Marianna Rizzini 

 

Rivoglio tutto, anche le cose che detestavo


Non ho ancora capito se quello che mi manca, mi manca davvero. Ho la pandemia introiettata, è chiaro, il virus che mi porto dentro mi fa desiderare l’indesiderato, sognare il rimosso, auspicare il ripristino di tutto, così com’era prima, senza se, senza ma, senza correzioni, né limiti. A volte me ne accorgo: mi ritrovo a rivolere indietro cose che detestavo, semplicemente perché mi sono state proibite e non tolte di mezzo. E’ banale, capita a tutti. 
Ho scritto un elenco, semplice e chiaro, di cose che voglio tornare a fare, e non so davvero se le farò, mi terrorizza l’idea che non le farò, forse l’ho scritto per questo, per sentire poi il dovere di onorarle. Non vedo l’ora di tornare a vedere concerti, andare al cinema, baciare la faccia delle figlie dei miei amici, bere dai bicchieri degli altri, usare il rossetto di Olga, non lavarmi le mani per molte ore, salire in macchina senza mascherina, eccetera eccetera. Chi non? Niente, però, mi sembra più desiderabile di poter tornare a inventare una scusa per restare a casa, sicura che, tanto, ho tutta una vita davanti, senza pandemie, per poter recuperare ogni defezione, ogni mancanza, ogni assenza. 


Simonetta Sciandivasci

 

Andrò al quagliodromo di Milano per protestare


La prima cosa che farò dopo il liberi tutti? Alla mezzanotte attraverserò il confine del mio comune. Andrò in una farmacia a 5 km. Qui il titolare (espulso giustamente dall’ordine per negromanzia) ha messo a punto un vaccino anti Covid. Mi farò vaccinare per bene. E’ un preparato a base Rna di nutria. Testato sul commesso della farmacia (di anni 65) ha dato esiti bellissimi. Come effetto collaterale, una leggera scabbia. Che poi è tutto da dimostrare che il vaccino sia la causa. Magari l’aveva già e, per giusto pudore, non l’ha detto prima. Ma se anche è causata dal vaccino, meglio prendere una bella scabbia (potente) che quel virus. Per sicurezza farò subito la seconda dose. Anche se il farmacista abusivo sconsiglia. Però ti lascia libero. Anzi! Ti vaccini “doppio”. Ti omaggia di una confezione di Scabbianil, la pomata che fa schiudere le prime uova del parassita, per cui peggiora e devi andare dal dermatologo che è suo fratello (anche lui espulso dall’ordine).
Al pomeriggio mi recherò al quagliodromo di Milano per protestare. Con altri ambientalisti vogliamo la chiusura del tiro a segno con quaglia (da allevamento). Finalmente rivedrò Monica, il mio grande amore, non ricambiato. Lei è impegnata con Legambiente e balle varie. A queste iniziative ci vado perché la amo. Se lei andasse a una manifestazione a favore della Tav, ci andrei anch’io. In pratica faccio tutto quello che vuole lei. Alla sera vado al circolo Arci di viale Africa. Qui beviamo e cantiamo canzoni milanesi tutta la notte. Ecco il testo in italiano di una: “… cosa deve dire allora il barbiere che tiene in mano il pennello tutto il giorno. Alla mattina quando si alza, prende il pennello e se lo picchia… cip, cip, cip fa il tacchino, qua, qua, qua, fa l’ochetta”. (segue a pagina tre)

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