Uno scatto di Piccadilly Circus, a Londra, durante il lockdown dello scorso gennaio (Ansa)

per una ecologia umana e sociale

Dopo la pandemia. Caccia al demone della modernizzazione senza sogni

Sergio Belardinelli

Santambrogio affronta nel suo libro il tema della modernità, mettendo in guardia sulle pericolose traiettorie che derivano dalla saldatura sempre più forte tra politica, tecnica e potere economico. E proponendo alcune vie di fuga

 

Da circa trent’anni, dopo aver valorizzato al massimo la produttività e l’efficienza economico-finanziaria, la cultura occidentale ha scoperto la grande importanza dei cosiddetti capitali sociali. Almeno in teoria, ci è ormai abbastanza chiaro che la ricchezza di una comunità non può essere misurata esclusivamente in termini, diciamo così, economico-utilitaristici. Accanto ai beni economici, e quasi come una sorta di loro condizione di possibilità, esistono anche altri beni, definiti “relazionali” o “immateriali”, quali la reciprocità, la gratuità, la fiducia, il rispetto, la responsabilità, l’educazione, l’assistenza sanitaria, la qualità dell’ambiente in cui si vive, senza i quali è piuttosto difficile dare vita a relazioni e istituzioni sociali all’altezza di una tradizione culturale basata sull’inviolabile dignità e libertà dell’uomo. La pandemia ha aggiunto a tutto questo un requisito ulteriore: la consapevolezza dell’umana fragilità. Non possiamo più pensare noi stessi esclusivamente in termini di potenza e di dominio. Siamo tutti vulnerabili e bisognosi dell’aiuto degli altri: questo il verdetto della pandemia su tutti noi, non soltanto sui vecchi, i bambini, i poveri e i più indifesi. Oltretutto il mito cartesiano dell’uomo come “maestro e possessore” della natura, una volta lasciato libero di dispiegarsi senza limiti, rischia di diventare inesorabilmente non soltanto dominio dell’uomo sulla natura ma anche dominio dell’uomo sull’uomo. 

 


Difficile ovviamente istituire un nesso meccanico tra questi due fenomeni. Per usare un celebre riferimento critico, si potrebbe dire che La dialettica dell’Illuminismo si configura forse più articolata di quanto pensassero i suoi autori, Adorno e Horkheimer. Scienza e tecnica non significano soltanto dominio, dominio sulla natura e dominio sull’uomo; hanno in sé stesse anche un indiscutibile potenziale di liberazione. Non a caso, di fronte alla pandemia ci aggrappiamo soprattutto alla speranza che la scienza ci metta a disposizione vaccini efficaci, non certo a un antiscientismo di maniera o al “totalmente altro” dei maestri francofortesi. Detto questo però, mai come oggi il dispiegamento di quello che potremmo definire l’apparato economico-tecnico-scientifico ha prodotto tanti interrogativi di carattere etico e politico. E’ lecito fare tutto ciò che è tecnicamente possibile? E’ lecito trasformare ogni valore in merce di scambio? Si può davvero sfruttare indiscriminatamente la natura senza che questo si trasformi anche in dominio sull’uomo? Se esiste una natura umana, che è tale nella misura in cui è letteralmente impastata con la natura cosiddetta esterna, è inevitabile che il dominio su quest’ultima abbia delle ricadute sulla prima. Di qui l’urgenza di affiancare all’ecologia tradizionale un’ecologia umana e sociale. 

 


Proprio a questo tema è dedicato un libro agile, bello e interessante, uscito pochi mesi fa, intitolato Ecologia sociale. La società dopo la pandemia (Mondadori Università 2020). L’autore, Ambrogio Santambrogio, sociologo dell’Università di Perugia, esprime la tesi centrale del libro già nelle prime pagine dell’Introduzione: “Voglio sostenere che il nostro mondo ha una caratteristica del tutto nuova: la modernizzazione si è scissa dallo sviluppo, ed è diventata totalmente un fine in sé. Il mondo moderno si fonda sull’idea che sviluppo e modernizzazione vadano di pari passo. [Ma]… le forze della modernizzazione, accelerando sempre di più, vanno ormai in una direzione del tutto sconosciuta”. Diciamo che si stanno emancipando sempre di più da fini umani, procedendo per loro conto come se gli uomini non esistessero.

 

Il sogno della modernità si sostanziava della fiducia che scienza, tecnica, crescita economica sarebbero state il propellente per costruire un mondo di benessere, libertà e uguaglianza. Ma oggi questo sogno “si infrange davanti a una prospettiva che ha perso la sua direzione, che non sa più coltivare alcun progetto che non alimenta nessun sogno e nessuna idea di futuro… Governo e opposizione, destra e sinistra, conservatori e progressisti tutti insieme pensano si possa al massimo gestire la macchina il cui senso rimane sconosciuto, e rispetto alla quale è inutile farsi domande”.

 

Come si vede, le premesse di questo libro sono profondamente critiche. Agli occhi di Santambrogio, la modernità “è una corsa sempre più furiosa senza fine e senza un fine”. Non è sempre stato così, ovviamente. E Santambrogio lo fa vedere in alcune pagine molto belle dedicate a Marx e a Weber, quali autori paradigmatici di una “modernizzazione” che, originariamente collegata allo sviluppo dell’uomo (Marx), si fa sempre più pessimista in ordine ai suoi sogni di emancipazione umana (Weber). Ma proprio a partire da Marx e da Weber possiamo vedere come il nostro mondo abbia mandato in frantumi gran parte delle istituzioni tradizionali, grazie alle quali gli individui potevano sentirsi al riparo dalle infinite casualità della vita, rimanendo ancorati a un senso sociale largamente condiviso. Oggi invece tutto questo non esiste più. La famiglia, il lavoro, la politica, tutto è diventato indeterminato, precario, da vivere alla giornata, tanto è difficile da conciliare con qualsiasi progettualità futura. Come dicevo sopra, la modernizzazione è diventata ormai un processo che ha luogo in una sorta di vuoto antropologico e sociale; un movimento senza soggetto, dove gli individui possono godere di libertà mai avute in precedenza, ma senza alcuna indipendenza, senza essere veramente padroni di alcunché. “Autonomia senza indipendenza” è il titolo di un paragrafo molto bello dedicato ai giovani, col quale si conclude la seconda parte del libro, diciamo la pars destruens.

 

Come uscire dunque da questa situazione? La proposta di Santambrogio, molto sinteticamente, è più o meno la seguente: occorre ricostruire “una società del rispetto” e “legami sociali” che ci consentano di “ritornare a casa”: è la parte più impegnativa del libro, nella quale si sostanzia il senso di ciò che nel titolo viene detto come “Ecologia sociale” e che merita assolutamente di essere letta. Prima di chiudere, però, dato che ho apprezzato molto questo libro, una nota di dissenso che riguarda l’imputato principale dei mali che in esso vengono denunciati: il neo-liberismo. Mi rendo conto che oggi sono in tanti ad accanirsi contro questa specie di feticcio. Ma la domanda che vorrei porre è la seguente: le patologie del nostro mondo, che anche il libro di Santambrogio documenta così bene, sono veramente imputabili al mercato capitalistico o dovremmo invece imputarle in gran parte a una saldatura tra potere politico, tecnica e potere economico mai vista in precedenza? Se così fosse, più che del liberismo, dovremmo preoccuparci forse di quel costruttivismo politico-tecnico-economico che la pandemia potrebbe addirittura rafforzare