Giuseppe Sciuti, “Un episodio della spedizione di Carlo Pisacane a Sapri” (particolare), 1890 (Catania, municipio)

Il bello di un rivoluzionario

Adriano Sofri

La difesa della Repubblica romana, il Risorgimento del sud e la spedizione di Sapri. La fratellanza. Perché il “movimentista” Carlo Pisacane non va liquidato con l’etichetta del ribelle. Una lettera a Sabino Cassese

Caro Sabino Cassese, io seguo scrupolosamente i suoi interventi e gliene sono grato. Vorrei ora farle un’obiezione particolare. A Roberta Scorranese che la intervistava per il Corriere del 20 febbraio, lei ha detto: “L’Italia, nella sua storia, ha sempre avuto una componente ribellistica. Pisacane, i briganti, tanto per fare un paio di esempi”. Sarei tentato di obiettare anche per i briganti, ma due cose alla volta sono troppo impegnative, sicché mi limiterò a Carlo Pisacane, per il quale nutro un’affezione antica, sia pure, si capisce, evoluta col tempo. Spenderò più di 2.000 parole contro la sua mezza frase, e ripeterò notizie che lei conosce meglio di me. Non ignoro che Leopoldo Cassese, suo padre, fu tra i principali studiosi di Pisacane, “prode e cavalleresco”, e poté vedere e pubblicare le carte del processo della Gran Corte Criminale borbonica contro Giovanni Nicotera e i suoi compagni superstiti depositate all’Archivio di Salerno.

 

La spedizione detta di Sapri (sbarcarono a Vibonati, pare), 25 giugno-2 luglio 1857, impresse il suo suggello sulla vita breve, 39 anni, del rivoluzionario napoletano, compendiata nel celebre testamento e nella massima mazziniana ma più veracemente sua del “sacrificio senza speranza di premio”. Ma la spedizione ebbe anche l’effetto di far trascurare la ricchezza dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti e delle sue gesta. Sopra tutte, il ruolo tenuto nella difesa della Repubblica Romana nel 1849, dove arrivò a dissentire da Garibaldi, cui imputava l’improvvisazione militare e l’indulgenza verso una specie di culto della personalità.

 

Carlo e Filippo

Carlo Pisacane era uscito come alfiere, geniere e artigliere dalla brillante formazione militare alla Nunziatella. Anche suo fratello di tre anni maggiore, Filippo (1815-1894), ne era uscito ufficiale, poi nel reggimento degli usseri. Questa è una parte meravigliosa della storia ed esemplarmente dell’intera storia italiana, dei Fratelli d’Italia, perché Filippo percorse con onore tutti i gradi della carriera militare restando sempre fedele al re Borbone, e in più di un’occasione i due (a Velletri nel maggio 1849, quando Filippo si procurò una medaglia da Pio IX, e nella stessa spedizione ultima) rischiarono di trovarsi in campo sui fronti opposti, eppure fra loro non si interruppe il vincolo di affetto e di rispetto (Lei, Cassese, ha vissuto una luminosa fratellanza, e il comune collegio, una Nunziatella pisana e in borghese, con la buona sorte di non aver dovuto conciliare l’amore fraterno con un dissidio civile. Anche a me è successa una cosa simile, collegio pisano compreso).

 

Dunque Carlo ebbe una competenza militare e logistica, accresciuta dalle romanzesche vicissitudini della sua fuga da Napoli. Dovuta, altro episodio memorabile, a un amore sorto e ricambiato fin dall’infanzia, che gli costò lo scandalo e la persecuzione per adulterio, un attentato di sicari mossi dall’uomo cui la sua Enrichetta era stata sposata contro volontà, e poi, nel 1847, l’esilio precario tra Marsiglia, Londra, Parigi. Venne poi l’arruolamento nella Legione Straniera in Algeria, l’esperienza indiretta di quella guerriglia, appena sconfitta, e il ritorno all’Europa del Quarantotto. Combatté, e fu ferito, da ufficiale coi lombardi di Cattaneo contro gli austriaci, poi, insofferente, nei ranghi piemontesi. A marzo del 1849 era con Mazzini a Roma, dove fu promosso colonnello e di fatto capo di stato maggiore, mentre la sua Enrichetta serviva alle ambulanze (l’ha raccontata anche Dacia Maraini). Poi ancora un breve carcere e il rinnovato esilio, la conoscenza intensa ed emozionata della diaspora rivoluzionaria in Europa, lo studio accanito, il bilancio scritto della guerra combattuta in Italia nel ’48-’49. E la convinzione robusta del primato della questione sociale su quella patriottica nazionale, che accontentava Mazzini; quel programma sociale, pensava, era fatalmente mancato a Roma.

 

Il saggio sulla rivoluzione è uno dei testi più belli di quel socialismo repubblicano, populista quanto alla fiducia nel popolo ridestato, anarchico quanto al rigetto del governo statale e al radicamento nelle autonomie comunali, egualitario e libertario, che sta fra l’utopismo e i progetti giacobini fino al comunismo di Babeuf e Buonarroti, e l’arrivo stentato del marxismo. Una rivoluzione permanente, per così dire, un “movimentismo politico perenne”, secondo la voce di Carmine Pinto per il “Dizionario biografico degli Italiani”. Del resto, “la propaganda del fatto” ha anche lei una singolare assonanza con miti del secondo Novecento come l’azione diretta, l’azione esemplare. L’8 dicembre del 1856, solo sei mesi prima della spedizione di Pisacane, il ventiseienne arbëresh calabrese Agesilao Milano, militare borbonico e patriota mazziniano, aveva assaltato e ferito con la baionetta Ferdinando II; fu impiccato il 13 dicembre. La notte prima scrisse di esser stato spinto, sapendo che l’aspettava la morte, dall’“amor di giustizia e dare l’esempio”.

 

A Sapri i contadini non cambiarono le zappe in fucili da rivolgere contro il Borbone: usarono le zappe per fare a pezzi i liberatori. Pisacane aveva esortato i suoi a non sparare contro il popolo “fuorviato”. La fine venne a Sanza, “il paese ai piedi del monte Cervati dove Sabino Laveglia, guardia urbana, si vantò, all’indomani del 2 giugno 1857, di aver tirato la schioppettata fatale a Carlo Pisacane e al suo tentativo di rivoluzione socialista, e il paese che il 16 ottobre del ’43, mentre le Ss rastrellavano gli ebrei nel Ghetto di Roma, proclamò una repubblica popolare che in trentasette giorni di dittatura del proletariato riuscì a espellere i fascisti e confiscare le terre ai latifondisti” (l’ho letto in una recensione di Angelo Mastrandrea, sul Manifesto, a Giuseppe Colitti, “Il tamburo del diavolo”, Donzelli 2012).

 

Pisacane e il Che

Dopo il 1967 e la fotografia d’obitorio infame della Higuera boliviana, l’accostamento di Pisacane al Che Guevara diventò inevitabile. Aveva molte cose dalla sua. Gli occhi azzurri e i capelli d’oro del primo, bel capitano, e l’icona bruna del secondo, il piroscafo Cagliari dirottato da una trentina di avventurosi dalla rotta di Tunisi nel 1857 e gli 82 imbarcati sul Granma da Vera Cruz a Cuba nel 1956; e soprattutto la somiglianza di due imprese inesorabilmente destinate alla disfatta – “suicide”, per i liquidatori. Una controprova sta nell’avversione parimenti irritata di Giorgio Amendola a Pisacane e a Guevara: minoritarismo sovversivo, velleitarismo, rivoluzionarismo da farmacia… All’opposto dell’Emilio Lussu che in carcere leggeva il Pisacane di Nello Rosselli e derideva le “bilancie da farmacisti di benpensanti e di cacadubbi”.

 

Il ribellista Mazzini?

Caso mai, se fosse ribellismo apparterrebbe a Mazzini. Scrisse Franco Venturi (“Carlo Pisacane”, 1956): “La decisione di Pisacane di gettare tutte le proprie energie, la propria vita, nella spedizione di Sapri è insieme sintomo ed effetto di questa crisi [successiva alla delusione del ’48-’49]. La politica di Mazzini, la volontà sua di porre sempre al centro della propria azione l’unità della penisola, riprese il sopravvento, dominò di nuovo l’animo di Pisacane. I metodi d’azione di Mazzini si imposero anch’essi di nuovo come gli unici immediatamente possibili. La spedizione, l’insurrezione, la lotta armata di piccoli gruppi erano ancora destinati a tragico insuccesso, ma erano l’unica via aperta”.

 

Tutti gli studi sottolineano un contrasto fra la complessa razionalità del pensiero di Pisacane e l’avventura finale, già decretata senza speranza nella sua affannosa preparazione da tanti, primo Garibaldi (anche da Enrichetta), e inficiata nel suo corso dal venir meno di tutti i presupposti materiali: armi perdute, mancati gli insorti e i cospiratori pronti a fomentare l’insurrezione sul posto – il Vallo di Diano e il Cilento culla di rivolte – infiltrati e false informazioni da Napoli, fallite prima di nascere le concomitanti ribellioni di Genova e Livorno. Una lacerazione così drammatica è avvincente, soprattutto quando finisca in tragedia, ma già il riconoscimento del contrasto basterebbe a far dubitare di un “ribellismo” di Pisacane. C’è qualcosa di più nella pervicacia con la quale lui e i pochi suoi si misero nell’impresa, anche diffidando del successo e anzi descrivendo a futura memoria i frutti che si attendevano dalla sconfitta, che certo fu più orribile di quanto un’immaginazione eroica poteva attendersi. “Se il nostro sacrificio non apporta alcun bene all’Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire”. Se i Mille trovarono altra accoglienza, fu anche per la nuova disposizione suscitata da quella gloria in inglesi e piemontesi.

 

C’è, infine, l’opinione che sulle decisioni di Pisacane abbiano pesato soprattutto la breve crisi amorosa del 1850 – l’attrazione fra Enrichetta e l’amico di Carlo, Enrico Cosenz – e in genere la passione romantica soverchiante il proposito politico: pensa così Adolfo Omodeo (“sbattuto e naufrago per una passione amorosa”) e più delicatamente anche Nello Rosselli. Ma Pisacane non fu solo nell’impresa. E anche in quel caso non si sarebbe trattato di ribellismo.

 

Fratelli d’Italia

Gli storici si sono fatti sempre più attenti al concetto della guerra civile – le “guerre fratricide”, nel titolo di Gabriele Ranzato, 1994 – proiettando all’indietro un tema decisivo per l’Italia tra il ’43 e il ’45 e prima per la guerra di Spagna, oltre che per la stragrande maggioranza delle guerre contemporanee. La rivendicazione della “guerra civile” era inopinatamente diventata appannaggio del fascismo repubblichino, opposta alla nozione troppo generosa di Resistenza come sollevazione di un intero popolo. Contro il Risorgimento era il legittimismo borbonico a parlare di guerra civile. I rivoluzionari sembravano vergognarsene, come se nella guerra civile ragione e torto si confondessero (ma in Lenin e nei suoi seguaci italiani la parola d’ordine cruciale era stata quella: trasformare la guerra degli Stati in guerra civile). Nei rivoluzionari, la fraternità – quella del trinomio francese, quella massonica e la socialista, quella dei “Fratelli d’Italia” – rivendicava il primato dell’elezione, la fraternità nazionale o universale su quella di sangue, contrapponendo a volte la prima alla seconda. Un altro dei volontari dell’impresa di Sapri, Rosolino Pilo – che fallisce nella missione di rifornire d’armi in mare il piroscafo dirottato, e morirà nel maggio 1860 durante l’avanzata garibaldina su Palermo – è a sua volta protagonista di una storia fraterna. Sua moglie Rosetta gliela rinfaccia, e dice cose esasperate e possenti sulla guerra civile. Lo scongiura di non andare, minaccia di morirne, implora di salpare con lui. Scrive Rosselli: “Ma poi si rassegna: basta che Rosolino s’impegni a ritornare al più presto ‘per pietà del mio stato, di me, della tua povera Rosetta, che muore di amore, di dolore per te, che t’ama, t’ama alla follia; che per te muore’; il cuore impazzito le detta infine parole tremende: ‘Dio non è né può essere con la tua causa. Dio non permette le guerre civili, nelle quali il fratello uccide il fratello’ — e allude spietatamente alla circostanza che un fratello di Pilo, come il fratello di Pisacane, è un borbonico reazionario! — ‘Tu ami tuo fratello come un tuo padre, e siete nemici di partito, e... fate la guerra tra voi. Se vince il tuo partito, è in pericolo la vita di tuo fratello; se la tua causa perde, ecco gli amici politici di tuo fratello faranno il possibile per darti in mano della polizia e fucilarti. E tu chiami questa una guerra santa? Oh, è un’infamia!…’”.

 

(Faccio una digressione: la storia d’Italia come fratricidio, in assenza di parricidio, almeno fino all’assassinio di Aldo Moro, è un luogo comune. Enrico Ruggeri – quello? quello – ha appena pubblicato per La nave di Teseo un romanzo su ’68 e anni di piombo incentrato sugli opposti estremismi e destini di due fratelli, “Un gioco da ragazzi”. E di tragedie fraterne, o sororali, sono costellati quegli anni, il più toccante e inquietante quello di Luca e Annamaria Mantini. Così suonava un po’ stridente l’evocazione del fratricidio a descrivere le rivalità fra correnti del Pd che hanno indotto alle dimissioni Nicola Zingaretti).
Dodici giorni prima di partire, i congiurati verso Sapri firmano una dichiarazione “Ai fratelli d’Italia”, commovente, bellissima, scrive Rosselli: “Forse ci toccherà d’essere accolti, come il drappello dei Bandiera, quali nemici dei nostri fratelli…”. Nel 1844 erano stati i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, 34 anni il primo 25 il minore, ambedue usciti come ufficiali dall’imperiale austriaca Accademia marina di Venezia, ad andare deliberatamente allo sbaraglio con uno sparuto manipolo di compagni, quasi nessuno meridionale, e un assedio di spie e traditori, nel Vallone di Romito – 150 km da Sapri.

 

Nella spedizione di Sapri il fattore della guerra civile si manifesta con la ferocia speciale degli odii fra vicini. La famiglia dei Pisacane aveva avuto proprietà nel Cilento, alcuni fra i liberati da Ponza erano originari del salernitano, e ogni paese ospitava le due fazioni opposte dei liberali e dei lealisti, di volta in volta prevalenti e sempre smaniose di vendetta. Nel mio sbrigativo aggiornamento ho trovato parole spietate, e non meramente retoriche, di Carlo Pisacane nelle Avvertenze rivolte al Comitato napoletano incaricato di preparare l’insurrezione, che non ricordavo nella classica biografia di Nello Rosselli (anche loro, Carlo e Nello, fratelli e accomunati nel martirio, dopo che un loro maggiore, Aldo, era caduto volontario nella Prima guerra): “I congiurati assalgano le case di tutte le autorità politiche e dei capi  militari che vi dimorano e li ammazzino. E’ impossibile che il terrore e la confusione non si sparga in tal modo tra le file nemiche /…/ I rivoltosi  “assalirebbero e scannerebbero, anche incendiando, tutti i posti di polizia, altri farebbero un vespero di tutti gli sbirri, svizzeri e gendarmi che troverebbero per le strade, le bettole”. E, a proposito di una rivolta siciliana di qualche settimana prima: “Quando io seppi che in Sicilia si era cominciato senza sangue, presagii male in me medesimo /…/ E’ un fatto che il sangue inebria”.

 

Il Mezzogiorno polveriera d’Italia

Luciano Russi (1944-2009), storico principale di Pisacane, distingueva due fasi, caratterizzate la prima dall’investimento sulla violenza di massa, fino al 1951-52, la seconda sulla violenza d’avanguardia. Armando Saitta, che insisté sul legame con Buonarroti, dichiarò Pisacane il personaggio più rilevante per gli anni dal 1848 al 1860. Si è tentati di fare di Pisacane, al posto di Mazzini, l’antagonista possibile di Garibaldi. Antonio Gramsci di fatto sembrò inclinarvi: “Pisacane, che pure, come scrive Mazzini… aveva un ‘concetto strategico della Guerra d’Insurrezione’ /…/ Era ufficiale di carriera, ma non aveva un esercito regolare cui appoggiarsi, come lo ebbe Garibaldi”. Pisacane sapeva che il movimento nazionale era destinato a dipendere da eserciti stranieri, e però pensava a un movimento sociale che potesse esserne indipendente. Nel 1857, si dice, la partita era chiusa al nord, dove il compromesso monarchico e moderato aveva prevalso, e alle forze più avanzate non restava che ripiegare al sud. Ma non era il caso di Pisacane. Per lui, il carattere retrivo della monarchia borbonica e la sofferenza dei contadini meridionali erano i presupposti del programma rivoluzionario. La rivoluzione proletaria al sud saltando la fase della rivoluzione democratico borghese – che non può esserci – non c’è stata nemmeno al nord. Così anche concludeva Aurelio Lepre, sulla scorta di Gramsci.

 

Farebbe sorridere paragonare questa convinzione alla trasgressione del ’17 bolscevico, della “rivoluzione contro il Capitale”, riuscita nel punto meno canonico e più arretrato dello sviluppo dei rapporti sociali. Suona meno bizzarra se si ricorda la frequentazione assidua con Herzen (e con Bakunin) di Pisacane: un populista nichilista russo a Salerno, l’Italia dei Comuni come l’obšcina… Su questo punto fantastico insisteva Gramsci, e ricordava un’affinità col “filone Herzen” indicata già da Leone Ginzburg nel 1932. Si chiedeva se il mito del Mezzogiorno polveriera d’Italia non avesse un fondamento, e quale. E’ un fatto che è stato il “mito” più tenace, fino all’altroieri – Reggio Calabria 1970 – e ieri, nella disgustosa versione dei forconi; e infine, mutati i forconi in parole, in parolacce, nei 5 stelle prima maniera. In cambio, voglio ricordare che Pisacane è stato fra le personalità più care a un giovane e molto rimpianto studioso, Alessandro Leogrande.

 

Mi par di capire che ci sia una “Scuola salernitana” che si dedica, da quella università, alla storia dei Pisacane. Ho trovato notizie aggiornate sul “conflitto civile privato fra Filippo e Carlo” in un saggio di Silvia Sonetti (“Meridiana, 2014), che utilizza il carteggio fra i due e un taccuino di Filippo, scritto dopo il 1872, nell’archivio di famiglia. Filippo sopravvive (troppo) a lungo al suo minore. Quando ripara a Marsiglia è fallito quasi tutto della sua vita così ortodossa, il suo re, il suo matrimonio – con una signora di gran lignaggio e patrimonio; perfino la sua reputazione militare è stata denigrata. Questo fratello maggiore che muore nel 1894 quasi ottuagenario, solo e pieno di risentimento reazionario, le braccia al sen conserte, sarebbe forse il personaggio più prezioso per il romanzo dei Pisacane.

 

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