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La Polonia piange Adam Zagajewski, il suo più grande poeta del dopoguerra

Francesco M. Cataluccio

In morte del poeta errante che raccontò l’Europa e la sua Polonia, in cerca di libertà

E’ morto domenica a Cracovia Adam Zagajewski: il migliore poeta polacco vivente e uno dei più interessanti sulla scena internazionale. Per lui la poesia era una forza di rinnovamento, un’energia spirituale. Uomo timido e schivo, scriveva versi nello sforzo continuo di “non lasciare che il momento luminoso si dissolva”. Era nato nel 1945 in una città polacca, Leopoli, che proprio da quell’anno entrò a far parte ufficialmente dell’Ucraina. Aveva quattro mesi quando la sua famiglia emigrò a Gliwice, in Slesia (un tempo tedesca). Nel saggio Due città Zagajewski fece i conti con il mito polacco di Leopoli, città perduta, sacrificata sull’altare della geopolitica, e salvata nella memoria.

 

Zagajewski apparteneva a quella generazione di poeti che hanno vissuto tutte le tappe del sistema socialista realizzato goffamente, e talvolta tragicamente, in Polonia, e si sono avvicinati alla politica durante i moti studenteschi del sessantotto e gli scioperi degli operai di Danzica e Stettino del 1970, repressi nel sangue. Esponente di primo piano della corrente letteraria Nowa Fala (La nuova ondata), della quale esiste in italiano un’antologia curata da Giorgio Origlia (Guanda, 1981), fu autore, nel 1974, assieme a Julian Kornhauser, di un manifesto che rimproverava molti dei poeti più anziani di non rappresentare le contraddizioni della realtà polacca, e rifugiarsi in privatissime odi e all’ascolto dei propri strazi del cuore. Il disimpegno allora faceva comodo al potere che lo incoraggiava, spacciandolo per libertà.

 

Questo atteggiamento, e l’appoggio seppur critico ai movimenti dell’opposizione, costò a Zagajewski, dopo un periodo passato a Berlino, un lungo esilio in Francia, trasformandolo in un convinto europeo critico: “Rispetto al passato l’Europa è migliore, più democratica, più giusta, ma sono andate disperse alcune delle nostre energie estreme. La religione, per esempio. Lo dico da poeta che non si sente un cattolico istituzionale. Il nostro continente si è ridotto spiritualmente. Rischiamo di perdere la nostra tradizione. Ma il mio non è un lamento, piuttosto è una sfida”. Gran parte dell’opera poetica di Zagajewski è caratterizzata da un senso di spaesamento e disappartenenza che la malvagità umana e storica ha imposto alla vita indifferente delle cose e degli oggetti (Dalla vita degli oggetti), rendendo l’uomo e il poeta, straniero nelle città straniere (Nelle città straniere), viandante e migratore in cerca di una verità che coincida con l’identità (Il viandante) e con il segreto di un Io che “E’ piccolo e invisibile come i grilli ad agosto. […] Abita tra blocchi di granito, in mezzo a verità  utili. Eterno fuggiasco […]  è solitario, così diffidente da non  ricevere nessuno, me compreso”.  Zagajewski intratteneva col reale un rapporto inevitabilmente sbilanciato a favore della dimensione simbolica e destinato a risolversi  nei termini di un’asimmetria (Asimmetria si intitola la sua raccolta forse più matura, pubblicata nel 2014).

 

I suoi saggi, scritti molto bene, non erano profondi come la sua poesia. In Tre storie, dove si interrogava del perché non esista una Storia del dolore, aveva accennato ad Auschwitz: “Neanche gli storici dell’arte si occupano di Auschwitz. Fango, baracche, cielo basso. Nebbia e quattro pioppi smilzi. Orfeo non va a passeggio da quelle parti. Non è lì che si annega Ofelia”.

 

Col tempo, e i soggiorni all’estero, lo stile della sua poesia si era raffinato, i temi trattati si erano fatti più universali. L’impegno politico si era rarefatto, anche perché il suo sguardo si era rivolto all’animo umano: più attento e sensibile alla cultura (soprattutto alla musica e alla pittura) che alla società. Fuori dal proprio paese Zagajewski aveva avuto modo di intrecciare un rapporto di amicizia e un dialogo fecondo con alcuni grandi poeti erranti come Brodskij e Walcott. Ma dal 2003 era tornato a vivere a Cracovia (con annuali soggiorni di insegnamento alla University of Chicago). Negli Stati Uniti gli era stato conferito, nel 2004, il prestigioso premio letterario Neustadt International Prize for Literature. Come amava ripetere, Zagajewski era diventato un poeta fisicamente e mentalmente errante:  “[…] scrivo viaggiando – perché volevo vedere, / e non solo sapere – vedere chiaramente / incendi e scorci di quell’unico mondo”.

 

Di Zagajewski era recentemente uscita in italiano, nella bella traduzione di Marco Bruno, la più completa antologia delle sue poesie: Guarire dal silenzio (Mondadori, 2020). Precedentemente erano state pubblicate: Dalla vita degli oggetti (Adelphi, 2012) e Prova a a cantare il mondo storpiato (interlinea, 2019). Aveva visto anche pubblicato una pregevole, e per molti versi ancora attuale, “introduzione” al suo paese (Polonia: uno stato all’ombra dell’Unione sovietica, Marietti, 1982) e un volume di saggi: Tradimento (Adelphi 2007).

 

In una delle sue più belle poesie, Di mia madre (2014), Zagajewski aveva accennato all’incredulità della morte e alla mancanza di parole per dirlo.

 

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