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Il Bi e il Ba

L'èra della suscettibilità e quei proiettili di piombo nel corpo

Guido Vitiello

Troppo spesso (e ben prima dell'uragano dei social) i sopravvissuti all'Olocausto sono stati identificati solo sulla base di quella tragedia. Ruth Klüger non poteva raccontarne meglio il senso di frustrazione

Chissà quale fatua polemica stavo seguendo, a ottobre, per non accorgermi che era morta Ruth Klüger. Ci ho pensato ieri leggendo il libro di Guia Soncini, “L’èra della suscettibilità” (Marsilio), che di quelle gazzarre sui social network compila un lussureggiante inventario, sotto l’idea generale, dura a confutare, che la sciagura del nostro tempo è l’abitudine di definire la nostra identità in base ai traumi veri o presunti (spesso presunti), individuali o collettivi (spesso collettivi), che abbiamo subìto, e di presentare il conto alla società in quanto vittime.

Ruth Klüger era stata ad Auschwitz, non era stata offesa da una battuta su Twitter. Eppure, ecco cosa scriveva trent’anni fa nelle sue magnifiche memorie, “Vivere ancora”: “Chi vuole dire qualcosa di importante su di me, dice che sono stata ad Auschwitz. Ma non è così semplice; pensate quel che volete, ma io non sono originaria di Auschwitz, sono originaria di Vienna. Vienna è impossibile sfilarla di dosso, la si sente dal linguaggio; invece Auschwitz è stata estranea al mio essere come la luna. Vienna è una parte della struttura del mio cervello ed emana da me, mentre Auschwitz è il luogo più sbagliato in cui io sia mai stata, e il suo ricordo resta un corpo estraneo nell’anima, come un proiettile di piombo nel corpo, che non si può estrarre. Auschwitz fu soltanto un’atroce casualità”.

 

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