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Spazio okkupato

Mario Lavagetto, il grande critico che rivendicò l'inesauribile ricchezza della lettura

Giacomo Papi

Trasformò il suo amore per la letteratura in un mestiere pur di continuare a godere dello spettacolo della commedia umana

Mario Lavagetto è stato uno dei critici letterari più importanti della seconda metà del Novecento, dell’ultima epoca in cui la verità pubblica passava attraverso la letteratura e la critica del testo. Era nato a Parma nel 1939 e a Parma è morto il 29 novembre 2020 dopo vent’anni di malattia trascorsi insieme a sua moglie Maria. Era stato allievo di Giacomo Debenedetti di cui aveva ereditato lo sguardo interessato, soprattutto, all’esercizio della critica letteraria come indagine psicologica ed esistenziale (Lavagetto fu uno dei primi in Italia a utilizzare la psicanalisi come strumento per comprendere il testo). Aveva cominciato a insegnare al Liceo Romagnosi di Parma, poi all’Università di Sassari, ma soprattutto all’Università di Bologna dove per decenni tenne la cattedra di Teoria della letteratura.

 

Durante la sua carriera – il primo libro, La gallina di Saba, è del 1974 – si è occupato tra gli altri di Italo Svevo, di cui ha curato l’opera per la Biblioteca della Plèiade di Einaudi Gallimard e il Meridiano Mondadori, Boccaccio, Verdi, Montaigne, Balzac, Stendhal, Calvino e Proust. Come fondatore e direttore di Pratiche editrice, Lavagetto è stato anche il primo a portare in Italia l’intervista di François Truffaut ad Alfred Hitchcock, un libro che chiunque abbia l’ambizione di raccontare qualcosa dovrebbe studiare. Negli ultimi vent’anni Mario Lavagetto ha vissuto e pensato il tramonto della critica con una consapevolezza costante e dolorosa, rivendicando sempre, però, anche nella sconfitta, la sua fede nella potenza dei testi letterari di farsi guardare da vicino e continuare a parlare.

 

Queste sono, per esempio, le parole scelte per la copertina di Eutanasia della critica, 2005, un breve addio e una testimonianza, accademica nello stile ma intima in segreto, sulla fine di quello sguardo, di quella capacità e intenzione di vedere il mondo attraverso le storie: “La critica letteraria non ha più chi l’ascolti. Il panorama è mutato. Ma pensare che i testi parlino da soli è un’idea vecchia e ingenua. Bisogna abbandonare i gerghi e tornare a saper mostrare l’inesauribile ricchezza della lettura”. La riflessione su quel tramonto proseguiva quella iniziata in Dovuto a Calvino (Bollati Boringhiero, 2001) che si apriva in esergo con una citazione di R. Jackson: “Chi ha perso è la nostra generazione”. E soprattutto in Quel Marcel!, il suo addio a Marcel Proust del 2011 che nelle prime pagine contiene un commiato e la dichiarazione di un fallimento, l’impossibilità di completare il progetto con un secondo volume: “Per quanto il disegno di questa seconda parte mi sia chiaro nelle sue linee generali, forse il tempo di realizzarlo è davvero, e definitivamente, trascorso”.

 

L’anno scorso, appena prima che cominciasse il primo lockdown, Lavagetto ha pubblicato, sempre per Einaudi, Delle usate leggi, che raccoglie i suoi saggi e le sue conferenze sul Decamerone di Giovanni Boccaccio. E’ un libro che profeticamente parla della peste, di come le epidemie cambino le società nel profondo, accelerando processi già in atto o procedendo per scarti, di come il contagio trasformi il potere e la visione che ne abbiamo, ma anche il modo di narrare e di raccontarsi, cioè di comprendersi come individui e come collettività. Nel primo capitolo Lavagetto, per esempio, dimostra che la vera rivoluzione, lo scandalo, del Decamerone – che come si sa incornicia dieci ragazze e ragazzi a scambiarsi novelle per dieci giornate in una villa in campagna mentre a Firenze impazza la peste – consiste nel fatto che in quel libro, per la prima volta nella storia della letteratura, le donne abbiano preso la parola e abbiano cominciato a raccontare, a diventare narratrici e a diventare narrabili, a essere protagoniste, cioè, di storie esemplari in cui potevano comparire non solo in quanto sante o regine, ma anche come esseri umani capaci di amare, odiare, tradire e, soprattutto, ridere. “Dimenticarlo”, scrive Lavagetto, “equivale e una vera e propria censura, a fornire il punto di arrivo a una reticenza secolare che era cominciata ben prima delle famose rassettature del Decameron praticate in clima di Concilio Tridentino e di Controriforma e che ha prodotto nei secoli una serie di letture edulcorate e tese ad ammortizzare lo scandalo di un libro altrimenti, se preso alla lettera, intrattabile”.

 

Mario Lavagetto aveva una voce profonda, di gola, sassosa, piena di erre parmigiane. Una voce gorgogliante e autorevole che incuteva un certo timore. Per la maggior parte del tempo sembrava occupare lo spazio e stare insieme agli altri con la precisa intenzione di confermare l’immagine di uno che aveva letto, studiato e pensato, e che perciò, quasi per definizione, sapeva quello che diceva e perciò non poteva essere contraddetto. C’erano però momenti in cui si rilassava, magari giocando a calciobalilla con i nipoti o ridendo di qualcosa che era accaduto in università o a un amico di infanzia, e allora ti sembrava di intravedere il bambino che il professore era stato. Ed era quasi come se tra quel bambino e il professore in mezzo non ci fosse nulla: non ci fosse stata adolescenza e gioventù, come se il professore fosse una strategia per nascondere il bambino e proteggerlo, per proteggere la sua capacità di osservare gli adulti, di vederne le debolezze e gli slanci, di riconoscerne cioè l’umanità. A tenere insieme l’infanzia e l’accademia, forse, era proprio quel modo di guardare. Forse il suo amore vorace per la letteratura, l’averla trasformata in un mestiere, nasceva proprio dal desiderio di continuare a godere dello spettacolo della commedia umana che solo nei libri può continuare ad andare in scena liberamente in eterno. Anche per questo Mario Lavagetto non aveva mai smesso di leggere quell’apoteosi del pettegolezzo che è La Recherche di Proust. Forse per questo, per continuare ad alimentare il bambino dentro il professore, si era occupato delle Fiabe italiane di Italo Calvino e aveva accettato di curare per i Meridiani i Racconti di orchi, di fate e di streghe: la fiaba letteraria in Italia, e di dedicare il suo ultimo libro al Decamerone, cioè al rapporto tra autorità, giovinezza e letteratura.