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Virus e tecnocontrollo: il lager come modello della “pseudodemocrazia”

Alfonso Berardinelli

Miserie filosofiche. I nipoti di Foucault, estremisti della biopolitica

Apriamoci all’altro! Rendiamoci disponibili al contagio! Non criminalizziamo il virus, che uccide soltanto decine di migliaia di umani! Non cadiamo nella trappola dei dispositivi di vigilanza, di proibizione, di controllo attivati da un potere totalitario! Abbattiamo le frontiere, apriamo i confini fra i nostri corpi, la nostra bio-esistenza e il fuori! Non fatevi ingannare dalla lotta statale e normativa alla pandemia, perché non è altro che persecuzione della nostra pura vita! Un nuovo nazismo è alle porte! Un nazismo dal volto medico e clinico, amministrativo, regolamentare, che infesta le nostre società con le reti della sua quotidiana microfisica del potere! E’ il criptonazismo del lavarsi spesso le mani e di usare mascherine e guanti! Attenzione, ci allontana dagli esseri umani e discrimina gli altri! L’emergenza sanitaria è solo l’ennesima astuzia biopolitica che con la scusa della sicurezza estende e rafforza la sorveglianza! Dicono che vogliono curarci, invece vogliono solo punirci!

   

Queste esortazioni esclamativamente attivistiche mostrano in modo piuttosto ridicolo l’estremismo degli ipercritici teorici della Biopolitica, categoria generale e feticcio linguistico che contiene tutto e niente. Tutto è infatti biopolitica dato che la politica organizza esseri umani viventi dotati di un corpo. Se il fiero gruppo, degli alunni di Michel Foucault, che imparò da Heidegger, che manipolò mistici e teologi negativi come Meister Eckhart: se insomma gli ontologi biopolitici, i teorici del Lager come modello occulto delle nostre “pseudodemocrazie” parlassero chiaro, fuori del loro formulario e gergo, e ci dicessero che cosa vogliono da noi, beh, allora dovrebbero incitarci e mobilitarci con gli esclamativi di cui sopra. Non lo fanno. Danno un nome al male, ma tacciono astutamente sull’idea metafisica di bene da cui spremono i criteri dei loro giudizi. Il sottinteso è che dobbiamo (biopoliticamente) riprenderci la vita: una delle cose più difficili da afferrare, definire, concettualizzare. Cosa giusta. Ma se la vita sfugge alla filosofia perché farne il fondamento di una filosofia? Qui certo soccorre l’impostore Heidegger, falso mistico, metafisico verbale e filosofo anticoncettuale: nel suo famoso e fumoso gergo, vita è “esser-ci”, è l’essere che sta qui. E’ vita denudata dei suoi attributi, pura e nuda sostanza estetico-bio-percettiva che l’organizzazione del mondo e dei suoi poteri cerca di imbrigliare con l’uso dei più diversi “dispositivi” di razionalizzazione, verbalizzazione e controllo.

  

Se Foucault è il maestro, i suoi seguaci hanno variamente provveduto a differenziarsi un poco tra loro. Per descriverli, riassumerli e sottoporre (sì, sotto-porre) a discussione (sì, dis-cussione) bisognerebbe scrivere un sostanzioso e dotto libro. Per scriverlo ci vorrebbero tempo e pazienza che mi mancano. Mi meraviglio soltanto che con tutti i professori di filosofia e i sedicenti filosofi in circolazione, nessuno si sia deciso, almeno in Italia, a mettere in moto qualche argomentata obiezione. Va preso atto che oggi l’ambiente filosofico è tale: evita la discussione, rifugge dall’esercizio della critica.

  

Il mio spunto è più modesto. Me lo offre un lungo articolo comparso sull’ultimo numero di Internazionale (30 aprile / 7 maggio), titolo: “Le lezioni del virus”, autore: Paul B. Preciado (“filosofo, attivista transfemminista e studioso di politiche sessuali”) il quale inizia col chiedersi come si sarebbe comportato Foucault se fosse ancora vivo e dovesse ubbidire alle norme antiepidemiche. Se è così, consiglierei ai foucaultiani di stretta osservanza di organizzare una seduta spiritica di chiarimento con il maestro, come fecero negli anni sessanta gli operaisti italiani con Marx. Quando si dipende così fedelmente da qualcuno, lo spiritismo è la soluzione migliore. Ma ecco un paio di esempi del brillante modo di esprimersi del fuocaultiano transfemminista:

“Il Covid-19 ha spostato su un piano individuale le politiche di frontiera in atto sul territorio nazionale o all’interno del superterritorio europeo. Il corpo, il tuo singolo corpo, come spazio di vita e come rete di potere (…) è diventato il nuovo territorio all’interno del quale si esprimono le violente politiche di frontiera che progettiamo e testiamo da anni sugli ‘altri’, assumendo la formula di misure di barriera e di guerra al virus (…). La nuova frontiera è la mascherina. La nuova frontiera è la tua epidermide. La nuova Lampedusa è la tua pelle”.

 

E quindi: “Ciò che sarà stato inventato dopo la crisi, sarà una nuova utopia della comunità immunitaria e una nuova forma di controllo di massa dei corpi umani. Il soggetto delle società tecnopatriarcali neoliberali che il Covid-19 sta costruendo è intoccabile, non ha mani (…). E’ un consumatore digitale con una carta di credito. Non ha labbra né lingua. Non parla dal vivo, lascia un messaggio vocale. Non ha volto, ha una maschera”.

 

Si potrebbe continuare, ma ci siamo capiti. Il procedimento adottato non è privo di astuzia. Infatti, come tutti sappiamo, le bugie che funzionano meglio sono quelle che contengono una parte di verità. Ma il tecnocontrollo a me sembra più mentale che fisico, più psico-neuro-pavloviano che biofisico. Che la tendenza ci sia è indubbio. L’organizzazione sociale tende sempre alla totalità. Ma quasi mai ci riesce. Anche le organizzazioni partitiche hanno l’istinto di esercitare “pieni poteri”. Le democrazie, finché esistono, creano ostacoli a questo. Dire che la verità delle democrazie attuali è fin da ora il Lager, mi sembra troppo. Già l’oracolo di Delphi consigliava: “Nulla di troppo”, cioè rispetto del limite. Quando il pensiero si mette a correre da solo alle estreme conseguenze possibili, usando una logica immaginaria, allora si arriva a dire, come è stato fatto, che la verità della vita è la morte: una verità in realtà falsa perché scavalca la vita e la riduce a nulla. La morte è un trapasso piuttosto veloce, tutto il resto è vita. Ma poi i biopolitici vogliono la vita nuda, o piena, o pura, o vuota, senza attributi, senza aggiunte e determinazioni: un puro tutto, originario, ontologico, più che umano, meno che umano.

 

La vita reale è mescolanza. Fiducia e paura, piacere e dolore, sicurezza e incertezza coesistono, oscillano. La biopolitica rischia sempre di sognare l’Eden o l’inferno. Ai sogni e agli incubi non bisogna cedere troppo, soprattutto se si travestono da coerenza logica. Il guaio non sono gli ordini dall’alto. Il guaio è quando tutti ubbidiscono a ordini che nessuno ha dato. Il guaio è la servitù volontaria, non in tempi di emergenza, ma in tempi di normalità.

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