Indossarle può essere semplice trasgressione, come le maschere che durante il Carnevale di Venezia permettevano a Casanova di andare per avventure amorose senza troppo impegno (foto LaPresse)

Maschere e mascherine

Maurizio Stefanini

Ci proteggono dai contagi, ci salvano la reputazione e a volte pure l’identità. Dalla Morte rossa di Poe al Carnevale

"Dateci le mascherine!”, invocano i cinesi. È diventato un simbolo del coronavirus la mascherina sanitaria che sempre più gente indossa. Si è scoperto che venivano fabbricate giusto a Wuhan, anche se ormai nella Repubblica popolare cinese si fa fatica a trovarle. Ora Papa Francesco ha deciso di donarne almeno 600 mila alle autorità cinesi, un tempo persecutrici di cattolici. Anzi, in realtà al di là della “politica orientale” di Bergoglio, non è che i fedeli siano tuttora trattati molto meglio dalle autorità di Pechino. Se è vero che nella stessa Wuhan, quando si è saputo della micidiale polmonite, le autorità ne hanno approfittato subito per vietare le messe, prima ancora di agire su ogni altra possibile occasione scatenante di contagio. 


Santa Sede e comunità cristiane cinesi in Italia hanno pagato le mascherine, e la farmacia vaticana ha organizzato raccolta e spedizione


 

La Santa Sede e le comunità cristiane cinesi in Italia hanno comunque pagato le mascherine, e la farmacia vaticana ha organizzato la raccolta e la spedizione: in pacchi che hanno all’interno lo stemma di Papa Francesco. “Ti conosco, mascherina!” potranno dunque dire i comunisti cinesi, ricambiando la caricatura che i cattolici Comitati civici avevano diffuso alle amministrative del 1950, con un perfido Stalin nascosto dietro alla piccola maschera della “Lista Cittadina” organizzata dal Pci. “Ti conosco, mascherina!” era stato il titolo di un famoso film del 1943, con i tre fratelli Eduardo, Peppino e Titina De Filippo. Modo di dire che risalirebbe addirittura alle feste mascherate del Medioevo, e in seguito programma televisivo Rai del 1955, e album di Mina del 1990, e anche canzone dei Liftiba del 1999. “Io ti conosco mascherina ti conosco / Ti conosco mascherina ti conosco / Mediatizzati da ogni canale ne scopro sempre di più / Regnano nel mondo del virtuale”.

 

Renato Zero, invece, la maschera diceva di portarla in prima persona. “Dietro questa maschera c’è un uomo e tu lo sai / L’uomo d’una strada che è la stessa che tu fai / E mi trucco perché la vita mia / Non mi riconosca e vada via / Batte il cuore ed ogni giorno è un’esperienza in più / La mia vita e nella stessa direzione, tu / E mi vesto da re perché tu sia / Tu sia il re di una notte di magia”. Una “Favola mia” del 1976 di una ambiguità che all’epoca era ancora un po’ inquietante, ma che adesso risulta addirittura rassicurante se raffrontata alle polemiche dell’altra maschera di Junior Cally. “L’ho ammazzata, le ho strappato la borsa / C’ho rivestito la maschera”, cantava il rapper nella canzone “Strega” in cui si racconta di uno stupro e un omicidio. 


Secondo Piero Angela non c’è maschera più grande di internet: “È come andare a un ballo in maschera e fare un giro di valzer”


 

“Io e Junior Cally una cosa in comune ce l’abbiamo: entrambi indossiamo una maschera, lui per fare show e inneggiare alla violenza, io per rimediare ai danni della violenza subita”, ha polemizzato Gessica Notaro, la donna sfregiata da un ex con l’acido. Polemiche a parte, ci ricordano intanto come di maschere ce ne possono essere tante e per tante funzioni. Lo stesso Junior Cally ha alternato una protezione antigas stile Grande Guerra a una maschera che evocava il famoso wrestler messicano Rey Mysterio a un passamontagna.

 

Accanto alla maschera che oggi salva dalle malattie, infatti, nell’immaginario collettivo c’è quella che invece le portava. “La maschera della morte rossa”, era il titolo del famosissimo racconto che Edgar Allan Poe scrisse nel 1842, e dove il Principe Prospero per sfuggire a una epidemia si rinchiude in un castello assieme ai suoi amici, ma la pestilenza mascherata da sé stessa lo raggiunge durante una festa in costume, e uccide tutti. “Allora, col coraggio furibondo della disperazione, la folla carnevalesca subito si riversò nella sala nera e, afferrata l’alta figura mascherata che immobile si ergeva all’ombra del pendolo d’ebano, si sentì soffocare da inesprimibile orrore, scoprendo le funebri bende e la maschera cadaverica, ora maneggiate con brutale irruenza, vuote di ogni forma tangibile”, è il famoso finale. “Si riconobbe allora la presenza della Morte Rossa. Era venuta come un ladro nella notte. E a uno a uno caddero gli ospiti festosi nelle sale insanguinate della loro festa, e ciascuno morì nella disperata positura della sua caduta. E la vita del pendolo d’ebano si spense con la vita dell’ultimo di quegli esseri gioiosi. E le fiamme dei tripodi si estinsero. E le Tenebre e il Disfacimento e la Morte Rossa ebbero illimitato dominio sopra tutte le cose”.

 

Poe forse con le maschere doveva aver avuto qualche trauma infantile, perché ogni volta che in un suo racconto compaiono, accade qualcosa di tremendo. E’ a una festa mascherata che il buffone Hop-Frog dà fuoco al re e ai sette ministri in costume da oranghi che hanno offeso la sua amica Trippetta. E’ mascherato che il Fortunato del “Barile di Amontollado” viene murato vivo. È mentre sono entrambi in maschera che William Wilson uccide il suo alter ego-coscienza. 


La “maschera dello speziale” che i medici all’epoca delle grandi epidemie di peste mettevano sul volto, con un lungo naso a becco


 

“La maschera della morte rossa” divenne un famoso film di Roger Corman, con Vincent Price. E serve a ricordarci come anche la gran parte dei titoli cinematografici su maschere evochino cose sgradevoli o raccontino comunque storie sinistre. “La maschera del demonio”, “La maschera della morte”, “La maschera di cera”, “La maschera di Frankenstein”, “La maschera di Fu Manchu”. Eppure, una potente associazione tra morte e maschera viene proprio dall’antenata delle maschere sanitarie regalate dal Papa ai cinesi. Quella “maschera dello speziale” che i medici all’epoca delle grandi epidemie di peste mettevano sul volto, con un lungo naso a becco ricolmo di ruta, spicchi d’aglio e spezie apposta per disinfettare i germi. E qui iniziamo forse a decifrare il mistero di un simbolo doppio: quasi sempre vita per il medico che si proteggeva; molto spesso morte per il malcapitato che si ritrovava quel sinistro figuro davanti.

 

Ma alcune maschere hanno anche una doppia simbologia. Per esempio, quelle che in molte culture antiche venivano poste ai morti per dare loro l’immagine della vita. Alcune in materiale preziosissimo, come quella del sarcofago del faraone Tutankhamen, o l’altra d’oro nella tomba del re miceneo che Heinrich Schliemann attribuì a Agamennone. E su maschere di cera si è anche spesso fissato per l’eternità il volto dei defunti. La stessa parola è di etimo incerto, ma comunque spesso minaccioso: da un pre-indoeuropeo masca, “fuliggine”, “fantasma nero”; da un tardo latino màsca, “strega”. C’è però anche un arabo maschara, “buffonata”; e un pregallico baska, “fare fracasso”. Ancora l’ambiguità: vita e morte: spavento e scherzo. Nel teatro greco la maschera aveva una funzione primaria di amplificazione della voce, a un’epoca in cui i microfoni non esistevano. Però nella doppia versione con la bocca sorta a tristezza o a riso – ancora – suggeriva già subito allo spettatore quale doveva essere l’identità posticcia che l’attore veniva a sovrapporre alla propria.

 

Spesso, la maschera teatrale serviva a conferire al debole essere umano l’identità di un dio, o di un eroe semidivino. Allo stesso modo in molte culture arcaiche la maschera è lo strumento che permette allo sciamano di mettersi in comunicazione con il sovrannaturale, nel momento in cui si aliena dalle convenzioni spazio-temporali e si proietta in un mondo “altro”. Inizia nella Preistoria, come testimoniato da alcune pitture rupestri sparse in varie zone: dalla Francia al Sahara e all’Africa meridionale. Va avanti fino a noi e alle maschere di Carnevale, che sono ancora ben vive. Sempre la doppia valenza, Arlecchino era stato un demonio dell’Inferno di Dante, prima di diventare il servo bergamasco sempre affamato. Ma Arlecchino e i suoi compagni della Commedia dell’Arte, da Pulcinella a Brighella passando per Pantalone, Pierrot, Stenterello, Meneghino, Balanzone o Gianduja, assieme a portatori di simbologie infere, sono anche eredi del teatro classico, e grande ponte verso la Commedia all’Italiana. Che a sua volta passata attraverso la lezione del neorealismo toglie ai personaggio la maschera fisica, ma ne mantiene il prototipo psicologico.

 

Poiché la maschera permette dunque di acquisire qualunque tipo di nuova identità, con alcune si diventa giustizieri: da Zorto all’Uomo Mascherato. O addirittura super-eroi: e se il costume di Superman, Batman o Spider Man serve solo a celare l’identità segreta, la maschera del dio burlone norreno Loki in “The Mask” film e fumetto è essa a dare i super-poteri. Al contempo diminuisce però le inibizioni del suo portatore e ne amplifica le parti represse della sua personalità. Ma la maschera dei Bassotti disneyani è invece iconica dei malviventi: in quel caso sgangherati, ma maschere sofisticatissime le ha pure Diabolik.

 

Rapine e furti a parte, la maschera consente comunque di compiere azioni di ogni tipo senza identificarsi. Può essere sovversione politica: in “Un ballo in maschera” Giuseppe Verdi ambienta infatti una congiura, e la maschera baffuta del cospiratore seicentesco Guy Fawkes del film e fumetto “V per Vendetta” è infatti ormai diventato un must nelle proteste di strada di tutto il mondo, oltre che nei video di hacker. Può essere semplice trasgressione, come le maschere che durante il Carnevale di Venezia permettevano a Casanova di andare per avventure amorose senza troppo impegno, oppure sono quelle delle orge di “Eyes Wide Shut”. Più banalmente, però, una maschera può servire a proteggere non una reputazione, ma semplicemente una faccia. Avevano maschere di metallo i soldati della cavalleria imperiale romana, avevano maschere i guerrieri giapponesi evocati dagli Immortali alle Termopili di “300”, avevano maschere protettive le armature medioevali, e portano maschere i giocatori di ben tre dei quattro sport più popolari degli Stati Uniti: baseball, football, hockey su ghiaccio. La guerra moderna ha pure prodotto la maschera antigas, usata anche dalla Polizia. 


Alcune hanno una doppia simbologia. Per esempio, quelle che in molte culture antiche venivano messe sul volto dei morti 


All’ultimo punto del percorso, però, ci sono anche le Maschere Nude. Il titolo che Luigi Pirandello volle per la raccolta dei propri testi teatrali. Un curioso ossimoro, che però vuol essere immagine di un teatro nel quale l’uomo che si è dato o al quale è stata imposta una maschera ne scopre la nudità. Influenzato dalla filosofia irrazionalistica di fine secolo e in particolare da Bergson, il grande drammaturgo siciliano vedeva nell’universo un continuo divenire, e nella vita sia una mobilità inesauribile e infinita. In balia di questo flusso dominato dal caso, l’essere umano a differenza degli altri esseri viventi tenta di opporvisi, col costruire forme fisse in cui potersi riconoscere, per dare un senso alla propria esistenza. Le maschere, appunto. Ma se l’essenza della vita è un perenne divenire, provare a fissare il flusso equivale a non vivere. Alla fine solo il folle “riesce” a volte a fuggire alle convenzioni per vivere una esistenza autentica, ma paga ciò con la sofferenza e l’emarginazione.

 

“Dietro quella maschera lo sai ci sono io”, appunto, cantava il cantante nel cui pseudonimo c’è il grado Zero dell’esistenza. Ma dietro ogni maschera ce ne può sempre essere un’altra. “Una maschera ci dice più di un volto”, era l’idea di Oscar Wilde. “Nessun uomo può, per un tempo considerevole, portare una faccia per sé e un’altra per la moltitudine, senza infine confonderle e non sapere più quale delle due sia la vera”, osservò Nataniel Hawthorne. “C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro, e quando stai solo resti nessuno”, spiegava sempre Pirandello. E secondo Piero Angela non c’è maschera più grande di internet. “È come andare a un ballo in maschera e fare un giro di valzer con un cavaliere anche lui mascherato. Parlando con uno sconosciuto, sotto anonimato, si possono dire cose che non si direbbero forse neanche alle migliori amiche, aprendosi e raccontando i propri pensieri e le proprie fantasie”. Ti saluto, mascherina!

Di più su questi argomenti: