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Aleksandr Solgenitsin e il cerchio degli dèi

Edoardo Rialti

In tutta l’opera dell'autore russo l’immagine del cerchio, ben più che una metafora, costituisce l’espressione d’una condizione effettiva, perenne, tanto invisibile quanto concreta

L’ultimo capitolo di un suo romanzo lo lessi in piedi, come percorso da ondate d’una corrente invisibile, e solo dopo l’ultima pagina sedetti, in silenzio. Era “Padiglione Cancro”, con la sua storia d’amore in un reparto oncologico, parte d’un più vasto arazzo dove, attraversando la medesima condizione di limite e morte, chi perde vita, reputazione o affetti, può vincere all’unico livello che conta, e chi invece procede superficialmente nella salute e nel trionfo pubblico, è solo un morto che cammina.

 

In tutta l’opera di Solgenitsin, l’immagine del cerchio, ben più che una metafora, costituisce l’espressione d’una condizione effettiva, perenne, tanto invisibile quanto concreta. Quando finalmente ottenne lo stesso Nobel per il cui rifiuto aveva tanto severamente criticato Pasternak, lui che desiderava solo “tirare avanti”, arrivare a quella tribuna e tuonare contro il regime sovietico, nel discorso di accettazione si definì circondato dalle “ombre dei caduti” e citò Solov’ev, per il quale “anche in catene, dobbiamo completare da solo / quel cerchio che gli dèi hanno tracciato per noi”. Il cerchio. E’ proprio questa intuizione che lo assimila tanto a Dante. Anche il poeta fiorentino, a sua volta esule, sapeva che alle verità ultime non si giunge in linea retta, ma a gironi concentrici, a spirali che percorrono il tempo e lo spazio, confrontandosi e interrogando le anime “ad una ad una”. Come il bacio di Francesca o la lacrimetta di Buonconte morente, anche per Solgenitsin le discrete gentilezze della vecchia Matriona o la bara d’un bambino rovesciata dalla polizia in cerca di documenti compromettenti non sono dettagli patetici o orrendi, ma icone da contemplare, giacché l’eternità è solo la profondità del tempo stesso. Anche per questo, all’inizio di “Arcipelago Gulag”, l’ex detenuto domandava perdono ai morti: “A tutti coloro cui la vita non è bastata per raccontare. Mi perdonino se non ho veduto tutto, se non ricordo tutto, se non tutto ho intuito”. Già dal titolo, “Nel primo cerchio” (Voland, meritoriamente tradotto nella sua versione integrale da Denise Silvestri) esplora la stessa dimensione personale e collettiva. Il Limbo qui è la Saraska, la prigionia “leggera” di scienziati e studiosi che continuano a lavorare per il regime, dove anche il sistema di detenzione forzata dimostra “che la resa di lana tosata dalle pecore dipende dal loro nutrimento e dalla loro cura”. Un punto di sospensione tra la libertà e condizioni ben peggiori, dominato da silenzi imbarazzati, appesantito dalla “tragica discrepanza fra la perfezione ideale degli ordinamenti statali e la miserabile imperfezione umana”, minato dal sospetto e dal tradimento. Un mondo separato da un muro quasi invisibile, eppure invalicabile: “A milioni di detenuti pareva che la vita in libertà senza di loro si fosse fermata, che non ci fossero più uomini, e le donne si tormentassero per eccesso di amore non condiviso con nessuno, e che a nessuno servisse quell’amore”.

 

Stavolta a percorrere il proprio cerchio, volenti o nolenti, sono filologi, matematici, delatori, ma anche il vecchio Stalin, trasformato in icona collettiva: “Il popolo non poteva reggere senza certezze. La rivoluzione aveva trasformato il popolo in un orfano, in un senzadio, cosa davvero pericolosa. Già da vent’anni Stalin, per quanto in suo potere, correggeva la situazione. A quello erano serviti milioni di ritratti in tutto il paese (non di certo a Stalin, lui era modesto), il continuo ripetersi altisonante del suo glorioso nome, il continuo accenno in ogni articolo”. Un autore ideologico e minore si sarebbe fermato qui, ma Solgenitsin sa mostrarci il contemplato, poco importa se con adorazione o odio, che a sua volta si osserva in un vecchio scatto: “Ogni volta che Stalin guardava quella fotografia il cuore gli traboccava di compassione (poiché non esiste cuore incapace di provarla). Com’è tutto difficile, com’è tutto avverso per quel caro giovane sistematosi gratis nella fredda dispensa dell’osservatorio e già espulso dal seminario”. Concludere un’opera percorsa da uno sguardo simile non si limita certo a insegnare qualcosa. Il suo dono primo e fondamentale è il respiro che comunica, e tale occhi rinnovati. Non ci limitiamo a sapere, ma letteralmente vediamo che “un Popolo non è formato da quelli che parlano la stessa lingua, e neppure da privilegiati, segnati dall’ardente marchio del genio. Le persone non si uniscono in un popolo né per nascita né in base al lavoro delle loro mani, e nemmeno sotto le ali del loro grado di istruzione. Ma con l’anima. Ognuno se la forgia da solo anno dopo anno”. Un crogiuolo e un’incudine che comprendono le nostre estasi amore (“come spesso accade nella vita, quando la felicità arriva, non ha limiti”) e i nostri tradimenti, i cavalli della nostra infanzia e le unghie gialle di nicotina. Passare accanto a una sconosciuta mentre ci stanno arrestando. “Incrociò una ragazza, lei gli lanciò uno sguardo. Poi un’altra. Molto carina. Augurami di sopravvivere”.

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