La sigla della serie tv cult "Friends"

Netflix e la crisi-relax

Simonetta Sciandivasci

Cosa accomuna Salvini-Conte in tv al successo delle serie anni ’90? La “non-event tv” ci culla meglio

Crisi di governo, quanto ci siamo divertiti a seguirla in televisione. E a twittare, maratoneti allenati da Mentana, come stessimo guardando Sanremo, o X Factor, o il calcio, però quello dei maschi. Ha scritto Repubblica: “Il Senato come la Nazionale. Tv, in 14 milioni per Conte”. Lo share delle “ore delle trattative” è stato, considerato che il paese è per metà in vacanza, sorprendente, il sogno di tutte le dirette streaming grilline. E dire che i talk politici (e la politica, quindi) sono dati per morti, da mesi, da anni, quasi quanto i giornali. Invece, casca il governo e tutti giù per terra con gli occhi fissi sullo schermo. Cos’è successo? E’ stata la preoccupazione per le sorti del paese, il voler capire se la situazione sia grave ma non seria o viceversa, il desiderio di colpo di scena, abituati come siamo a “Game of Thrones”, che è finito (attenzione, spoiler) in un cumulo di macerie, che è il finale di partita politica che ciascun italiano, almeno una volta nella vita, s’è segretamente augurato? In parte. Però forse c’è anche un’altra spiegazione, visto che lo spettacolo di Conte e Salvini è stato più che una battaglia navale una sceneggiatura anni Novanta, senza deus ex machina e pathos ma con molto sarcasmo, e visto anche che appassionarsi a questa fase precisa è piuttosto complicato perché, parola piuttosto incontestabile di Mughini, siamo al “niente contro il niente, e a nessuno di noi cambierà niente di niente”.

 

Va bene Netflix e va bene GOT, dice il Guardian, ma “le persone continuano segretamente a guardare ‘Friends’ e ‘The Office’”, due telefilm che non smettiamo di rivedere, citare, rimpiangere e ci siamo sempre accontentati di credere di farlo per nostalgia, “tanta nostalgia degli anni Novanta, quando il mondo era l’arca e noi eravamo Noè”. Non che “Friends” fosse “niente”, ma era un telefilm dove non capitavano cose, ci si appassionava ai dialoghi, ai perdigiorno che si perdevano in chiacchiere. Tornavamo a casa e questo volevamo vedere: amici che si ritrovavano nello stesso posto, alla solita ora, con le solite storie. Torniamo a casa, vent’anni e parecchi fantasy dopo, e non cerchiamo qualcosa di completamente diverso. GOT non batte “Friends”, che è il secondo spettacolo più visto su Netflix (il primo è “The Office”, telefilm feticcio degli anni Zero; e “Gilmore Girls” batte “Stranger Things”). E non c’è niente di cui stupirsi, visto lo stress, l’ansia, il burn out, il precariato, la psicoterapia, le sparatorie, la geopolitica ubriaca, gli anni di esagerazioni, scorrettezze, urla, grida, uno vale uno, nessuno vale centomila, e la storia che anziché finire ricomincia dai soliti vecchi errori e le vite private pure, deragliano sui soliti vecchi errori, forse perché “niente di niente spiega alla gente cosa vuole dire amare l’amore senza mai fare neanche un errore”. 

 

Scrive il Guardian: “Sembra che la maggior parte di noi voglia guardare ancora puntate di mezz’ora su persone mediamente simpatiche a cui va tutto bene. Puntate che, preferibilmente, abbiamo già visto molte volte. Benvenuti nell’era della non – event tv”. Con un po’ di fantasia, non è quello che abbiamo visto in Senato tre giorni fa? Diverse puntate già viste su persone a cui non succede niente, e in fondo va tutto bene (tranne che a Salvini, direte; non siate precipitosi, diciamo).

 

Le abitudini di fruizione di questi vecchi (eterni?) spettacoli che abbiamo visto e rivisto, scrive il Guardian, rispondono a esigenze nuove, non solo di relax psicofisico, ma pure di impegno pratico: i millennial lasciano andare “Friends” mentre compilano bollette, riassettano casa, scongelano la cena, controllano Fb. La tv di compagnia non è più prerogativa degli anziani e dove c’era il sottofondo musicale ora c’è l’episodio delle ragazze Gilmore che traslocano a Yale. Non è “Stranger Things” o la qualità delle serie tv che fa il successo di Netflix, bensì l’offerta ampia di prodotti e modalità di fruizione che serve ai suoi abbonati, ha spiegato Matthew Ball, un esperto di piattaforme streaming. 

 

In YouTube non ci sono che conferme: se è vero che il canale è, come ha scritto il New York Times, un grande radicalizzatore, perché usa un algoritmo che propone agli utenti contenuti sempre più spinti ed estremi, è altrettanto vero che gli youtuber hanno decelerato il passo. Sfide mirabolanti e imprese megagalattiche non se ne vedono quasi più, e la youtuber più influente del momento (così l’hanno battezzata l’Atlantic e il New York Times) è una diciottenne, Emma Chamberlain, che si filma mentre prepara pasticcini, rifà il letto, scassa inavvertitamente un elettrodomestico, si prova un vestito. Non è quasi mai truccata. Non urla. Non piange. Non è vittima di niente. Il suo segreto è l’ottimo montaggio dei video (che cura da sola) e, naturalmente, la parlantina, che ha poco da invidiare a quella di Jennifer Aniston in “Friends”. La guardi, ridi, ti rassicuri, ti rilassi, ne vuoi ancora, hai perso un pomeriggio, o una sera, e non hai pensato a niente. Cara tv, sii il relax svuota-cervello che abbiamo pagato a lungo (troppo a lungo) nei centri benessere, ricavando emicranie, a volte pure verruche.

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