Colombia, Festival mondiale della Salsa a Cali (Foto LaPresse)

Vamos a bailar

Maurizio Stefanini

Tango, samba, merengue e gli altri. Da Montezuma, cinque secoli fa, al mambo salentino oggi. Balli sensuali, colonne sonore di ogni estate

Da Montezuma al mambo salentino, che Boomdabash e Alessandra Amoroso ripropongono 65 anni dopo il successo del “Mambo italiano”, adattato alla recente moda revival della Pizzica. Ma anche da Montezuma alle atmosfere giamaicano-africane di Jambo: passando per il calipso di Charlie Charles-Sfera Ebbasta-Mahmood-Fabri Fibra; per la bachata “Señorita” di Shawn Mendes e Camila Cabello; per il reggae ma con sapore messicano nel testo “Tequila e San Miguel” di Loredana Bertè; e anche quel “Viva da morire” con cui Paola Turci ripropone di soppiatto lo stesso baile funk già alla base di “Amore e capoeira” di Giusy Ferreri. Insomma, anche l’estate del 2019 è martellata da una colonna sonora “latina”. Forse nessuno di chi la balla se ne rende conto, ma quest’anno questi ritmi celebrano il loro quinto centenario. Il 21 aprile del 1519, infatti, Hernán Cortés sbarcò in Messico. Il 16 agosto partì la sua spedizione per la conquista di Tenochtitlan. E il 14 novembre prese prigioniero il “Primo Oratore” azteco Montezuma, anche se ci sarebbe voluto un altro paio di anni per completare la conquista. Da lì i Conquistadores riportarono in Europa non solo una quantità di oro e argento ma anche il mais, il cacao, i fagioli, i pomodori, i peperoni, i peperoncini, i tacchini, le zucche e, appunto, un nuovo tipo di balli. Anche se la cultura ufficiale se ne sarebbe accorta quasi a fine secolo.

  

Nel Seicento dal Messico arrivano i ritmi selvaggi di maya e aztechi. E in pochi decenni l’intera Europa ne è travolta

E’ infatti nel 1583 che Juan de Mariana scrive: “In questi anni hanno fatto la loro comparsa una danza e un canto dal testo così lascivo e dai movimenti tanto osceni che perfino le persone più rispettabili se ne sentono infiammate”. E aggiunge, questo gesuita spagnolo oggi ricordato soprattutto come apologeta del tirannicidio: “Generalmente il nome è zarabanda”. Gli fa eco dall’Italia, nel 1623, il cavalier Giambattista Marino, padre dell’ampollosa poesia barocca. “Pera il sozzo inventor che tra noi questa / Introdusse primier barbara usanza / Chiama questo suo gioco empio e profano / Saravanda e Ciaccona il novo Ispano”. La Nuova Spagna è il Messico, da cui appunto sono arrivati i ritmi selvaggi di maya e aztechi. E in pochi decenni l’intera Europa ne è stata travolta. File di uomini e donne danzano a occhi chiusi in mezzo alla strada, al ritmo di nacchere e tamburelli. Si baciano, si toccano, strofinano i corpi gli uni contro le altre. Soprattutto, muovono i fianchi con furore, mentre la donna alza la gonna. In tutte le culture contadine a sfondo animista questa chiara simbologia sessuale è una sacra celebrazione volta a risvegliare l’energia della natura. Ma l’Europa, da quando il cristianesimo ha imposto la sua nuova morale, ha dimenticato l’antico rituale. E ora lo riscopre con lo stesso misto di scandalo ostentato ed entusiasmo effettivo con cui i marinai di Colombo e Vespucci hanno visto le indigene dei Caraibi andare in giro completamente nude. In quello stesso 1583, dunque, le leggi di Spagna vietano la nuova danza. La pena: duecento colpi di frusta; sei anni di galera per gli uomini; l’espulsione dal regno per le donne. Dai pulpiti, i preti fanno di “sarabanda”, in origine il nome di un flauto maya, un sinonimo di “confusione infernale”.

 

Le mode, come le idee, non le fermano i tribunali. Nel 1618, il ballo proibito arriva alla Corte di Madrid. Nel 1625, sfonda in quella di Parigi. Il successo mondano, però, lo svilisce. Già nel 1621, in una commedia di Lope de Vega una dama rifiuta di danzarlo perché “fuori moda”. Dopo il 1697, la sarabanda resta solo come “movimento” di alcune suite orchestrali, e oggi non si sa più neanche quali fossero i suoi passi esatti. Per 200 anni, l’Europa sembra dimenticare i balli latino-americani. Poi, verso il 1890, sbarcano all’improvviso a Parigi la maxixe e il tango. E lo scandalo della sarabanda si rinnova. Nella maxixe brasiliana il mulinare dei fianchi è appena attenuato da un sentore di polka, importata a Rio dalla corte imperiale dei Braganza. Danza d’origine africana, si balla coi passi stretti cui una volta gli schiavi erano costretti dalle catene ai piedi. Anche il tango è inventato da negri: i chitarristi afro-uruguayani di Montevideo, che ne impongono la moda nei bordelli della vicina Buenos Aires. Scrive Trilussa: “Er Papa nun vo’ er tango perchè spesso / er cavajere spigne e se struflna / sovra la panza de la ballerina / che su per giù se regola lo stesso”. Pio X ne è talmente scandalizzato che, per combatterlo, propone di sostituirlo con la furlana, una danza campestre del suo Veneto.

 

Balla la macarena anche la convention democratica, nel festeggiare la nomination di Clinton. Ma durerà una sola stagione

“Il tango è un modo di procedere nella vita”, scrive Jorge Luís Borges. Malgrado decenni di assimilazione nelle scuole da ballo europee, ancora nel 1974 sarà un “Ultimo tango a Parigi” che Bernardo Bertolucci vorrà associare a uno dei più grande scandali nella storia del cinema. Sull’onda della moda, altri balli sudamericani si rovesciano sull’occidente a cascata. “A prima vista, tali danze sono il prodotto di un mondo straniero”, osserva nel 1933 il musicologo tedesco Curt Sachs. “In realtà esse si sono mantenute più fedeli delle danze europee a quello stadio originario in cui la danza nasce per un bisogno fisiologico e psichico”. L’America latina, grande area di incontro e fusione tra le culture europea, africana e amerindia, è a un tempo abbastanza esotica da riscaldare l’immaginario dei borghesi annoiati, ma non tanto da risultare incomprensibile. Dalla maxixe, epurata dai passi di polka, nasce nel 1917 il samba, subito elevato a simbolo stesso del grande carnevale di Rio de Janeiro. Da Cuba arriva invece un’altra danza ancheggiata di origine africana, la rumba. Della Repubblica Dominicana è il merengue. Mentre l’Europa si limita a ripeterli, gli Stati Uniti adattano questi balli al proprio gusto. Dalla fusione tra jazz e ritmi caraibici nascono tra anni 30 e 50 il mambo, il cha cha cha, il calipso. Ma, osserva sempre Sachs, “la rapida trasformazione subita dal tango, e dopo di esso da tutte le altre danze americane, il subitaneo abbandono del movimento a cesoie delle braccia e dello scuotimento delle spalle, è un sintomo chiaro della legge generale di adattamento sociale: la civiltà esige il movimento chiuso”.

 

Nuovi balli appena canonizzati sono sostituiti da balli ancora più nuovi, in un avvicendarsi frenetico. Tra 1944 e 1956 i ritmi sudamericani gareggiano alla pari, nei gusti europei, con il boogie-woogie insegnato dai soldati Usa nei giorni frenetici della liberazione dal nazifascismo. Tra ’56 e ’66 col rock’n roll, il twist, il fugace hully-gully si afferma sempre più esclusiva la potenza economico-culturale degli Stati Uniti. Preparando, fra gli anni 60 e 70, l’affermarsi di shake e disco-music. Apoteosi e potenziale morte finale della danza allo stesso tempo.

 

Come la poesia moderna ha abolito rima e metrica, come l’arte astratta ha distrutto la forma, come la musica dodecafonica ha cancellato l’armonia, anche il ballo in libertà uccide ogni regola in un’esplosione di soggettività libertaria. Nell’oscurità delle discoteche, ognuno va da solo, inventando i movimenti secondo l’estro del momento. Tutto è ballo e, proprio per questo, non è ballo più niente. Ma tutte le rivoluzioni, passato il loro momento, si fanno conformismo.

 

L’America latina, abbastanza esotica da riscaldare l’immaginario dei borghesi annoiati, ma non tanto da risultare incomprensibile

Alla fine degli anni 80, nella stanchezza generale per il ballo non ballato made in Usa, il mondo è maturo per una nuova infornata di ritmi latino-americani. In realtà, già nel 1977 la “Febbre del sabato sera” nella sequenza della gara tra italo-americani e portoricani mostra come in contrapposizione alla disco music gli ispanici Usa abbiano legato la propria identità a un tipo di danza che invece certi passi “di scuola” li ha conservati. Il son, ritmo cubano a sua volta nato dalla fusione tra danza europea e passi africani, non è che l’ennesimo dei balli caraibici che si contamina con il jazz. Ne nasce la salsa, in un periodo compreso tra gli anni 30, quando i turisti Usa invadono l’isola, e gli anni 60, quando sono invece i profughi cubani anticastristi a riempire gli Stati Uniti. Dal Nord America rimbalza in altri paesi ispanici, dando vita agli stili portoricano, venezuelano, colombiano. Tra 1968 e 1980 diventa famoso anche il reggae giamaicano. Attorno al 1972 le mosse dell’arte marziale brasiliana della capoeira interpretate come passi di danza a un ritmo di musica funk potrebbero essere state all’origine della break dance. Gli anni 60 e 70 vedono l’America latina sopravvivere nelle hit grazie anche a bossa nova e musica andina: ma, per lo meno da noi, è musica più di ascolto che da ballo.

 

Ma torniamo al 1977 della “Febbre del sabato sera”. E’ anche l’anno in cui lo scrittore colombiano Andrés Caicedo descrive l’affermarsi della salsa di Cali in “Viva la musica!”: il libro uscì la mattina del 4 marzo e l’autore si suicidò la sera, a 26 anni non ancora compiuti. Nel 1983 uno spot di Nescafè porta nelle hit parade europee anche “La colegiala”: una canzone proposta da un gruppo peruviano, ma che è a tempo di cumbia. Una danza tradizionale della costa atlantica della Colombia. Insomma, si creano le premesse per il boom della “Lambada”, che dal punto di vista filologico è un pasticcio oltre i limiti della pirateria. Quella che diventa “La lambada” per antonomasia è infatti in origine una canzone boliviana, dalla melodia tipicamente andina. Il titolo vero è “Llorando se fué”, e il ritmo è in effetti una saya: danza tipica della piccola minoranza afro-boliviana.

 

Un complesso francese però tradusse “Llorando se fué” dallo spagnolo al portoghese e la lanciò senza autorizzazione con un look alla brasiliana, e adattandola a un ballo inventato nel 1937, ma nelle scuole di danza europee mescolato a passi di mambo e movimenti di tango. Nell’Europa assetata di libertà di quell’indimenticabile 1989 fece l’effetto di un ciclone. Come “In the Mood” dell’orchestra di Glenn Miller era stata la colonna sonora della liberazione di Roma e Parigi, così “La lambada” dei Kaoma fu la colonna sonora della caduta del Muro di Berlino, della rivoluzione di velluto a Praga, dell’insurrezione di Bucarest. La grande sbornia non durò che lo spazio di una stagione. Ma i giovani avevano imparato di nuovo a danzare in coppia. A frequentare le scuole di ballo. A divertirsi al suono di strumenti etnici, ed al ritmo di lingue diverse dal solito onnipresente inglese. La grande emigrazione dal Terzo mondo aveva intanto lanciato anche la moda della World Music. Nelle discoteche irruppe appunto, per restare, la salsa. Si riscoprono merengue, samba, cha cha cha, rumba. Nel 1991 è un successo folgorante “Sopa de caracol”: un ritmo dell’Honduras proveniente dall’etnia indigena garifuna, cantato in un patois anglo-spagnolo e con passi di un ballo che si chiama punta e che imita i movimenti di un contadino che semina.

 

A ruota, arrivarono menaito e macarena. Anche quest’ultima è filologicamente un pasticcio stile lambada. Si parte da una vecchia rumba venezuelana dei primi anni 60, dedicata a una ragazza chiamata come la Madonna andalusa della Macarena che aveva vinto il titolo di reginetta del carnevale. Riarrangiata in chiave flamenca da un duetto spagnolo, è coreografata dalle majorettes degli stadi di baseball americani, con passi vagamente ispirati alla ginnastica aerobica. Ma anche questo guazzabuglio diventa un fenomeno di costume. Balla la macarena anche la convention democratica, nel festeggiare la nomination di Clinton. Come la lambada, anche la macarena è destinata a durare sostanzialmente lo spazio di una stagione. Ma annuncia, dopo il ritorno del ballo di coppia, anche quello del ballo collettivo.

 “La lambada” fu la colonna sonora della caduta del Muro di Berlino, della rivoluzione di velluto a Praga, dell’insurrezione di Bucarest

Dagli anni 90 arriva anche il reggaeton: contaminazione tra reggae e salsa nata a Porto Rico e cantata in spagnolo. E la zumba: una variante della ginnastica aerobica creata dal colombiano Beto Pérez sostituendo alla disco music ritmi e anche passi di salsa e di altre danze caraibiche. L’uno e l’altra fanno irruzione massiccia in Europa dopo il 2000, parte di una moda che vede anche il moltiplicarsi della scuole di salsa, di danza latina generica, perfino di tango. La cumbia sfonda meno, anche se nel 2012 Jovanotti scrive per Adriano Celentano “La cumbia di chi cambia”. Nel 2002 il successo di “Obsesión” degli Aventura lancia i compenso la bachata: ritmo dominicano nato negli anni 40, che riporta il ballo di coppia allacciati.

 

Passata la sbornia della lambada, resta invece un po’ fuori il Brasile: a parte un Carnevale di Rio più visto in tv che imitato e a parte “Disco Samba”, il celebre medley creato nel 1978 del trio belga Two Man Sound mettendo assieme ben 21 canzoni diverse, e che è da allora un must di Capodanno e Carnevale. Ma praticamente mai ballato con i passi originali carioca. Dalle favelas di Rio de Janeiro, però, sempre per una ulteriore contaminazione con le sonorità made in Usa l’ultimo grido è il funk carioca: o baile funk, come è pure chiamato. O meglio: in realtà esiste dal 1982. Ma in Italia sta facendo furore adesso, anche se per ora le coreografie si vedono soprattutto nei video.