Il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli (Foto LaPresse)

L'insostenibile leggerezza della riforma Bonisoli

Maurizio Stefanini

La logica invertita dei beni culturali: dare poteri senza obiettivi. Parla l'ex consigliere giuridico del Mibac

Roma. Tra i tanti che criticano la riorganizzazione dei Beni culturali, quella di Lorenzo Casini è una posizione particolare. Prima di tutto perché, in qualità di consigliere giuridico del ministro negli anni 2014-2018, fu uno degli autori delle riforme Franceschini. Poi perché, mentre la maggior parte delle prese di posizione viene da archeologi e operatori dei beni culturali, la sua invece è l’analisi di un professore ordinario di Diritto amministrativo alla Scuola Imt Alti studi di Lucca e presidente dell’Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione. C’è differenza tra i due tipi di critica? “Sì, certo. Quando si esaminano norme vi sono profili tecnici che possono sfuggire a non giuristi, soprattutto nel caso della riorganizzazione di un ministero: alle specificità del settore – in questo caso il patrimonio culturale – si aggiungono regole e princìpi che valgono per tutta l’amministrazione dello stato e che possono non essere noti ad archeologi o a storici dell’arte. Per esempio, non è un regolamento di organizzazione che può mutare le dotazioni organiche o i fabbisogni, che sono decisi altrove. A volte, basta solo buon senso: che accorpare l’Accademia con gli Uffizi sarebbe un errore lo abbiamo detto tutti. Perché il patrimonio culturale, in Italia, sembra che ancora non abbia trovato tra i giuristi l’attenzione che meriterebbe? Soprattutto negli ultimi anni, l’impegno di trattare e ricostruire in modo sistematico i temi riguardanti il patrimonio culturale, anche sotto l’aspetto normativo, è stato assunto principalmente da non giuristi. Questa è una peculiarità”.

 

Lei in particolare ha parlato di “insostenibile leggerezza”. Cosa intende? “Questa ultima riorganizzazione procede in modo insostenibilmente ‘leggero’, senza adeguati studi, indagini, analisi, come invece fu fatto per la riforma del 2014. Allora si partì dagli atti della Commissione Bray e da un rapporto della Bocconi realizzato nel 2011-2012, documenti che, con dovizia di dati, avevano indicato i passi da compiere. Tra questi, vi era la necessità di trasformare i musei in istituzioni pubbliche con tutti i caratteri riconosciuti a livello internazionale dall’’International Council of Museums (Icom, ndr) e dallo stesso ministero già nel 2001: statuto, direttore, consiglio di amministrazione, comitato scientifico, bilancio. La riforma Franceschini ha prodotto grandi trasformazioni – come la creazione dei musei autonomi o delle soprintendenze uniche, con tutte le difficoltà derivanti dall’accorpare e dallo spacchettare uffici – e non può essere perfetta, ma ha almeno un disegno chiaro. Nella riorganizzazione in corso invece si procede a tentoni, senza certezze per gli uffici e per il personale”.

 

Lei ha individuato quattro tipi di difetti in questa riorganizzazione. “Sì. Il primo è che aumentano gli uffici centrali e molte attività vengono spostate a Roma. Ma nessuno ha valutato l’impatto amministrativo (procedimenti, personale, tempi) di queste scelte. Secondo: la periferia si indebolisce, perché diminuiscono le posizioni dirigenziali e sono soppresse le commissioni regionali del ministero. Terzo: il sistema museale nazionale perde efficacia, in quanto sono soppressi tre istituti autonomi e ogni polo avrà più regioni da gestire, con le stesse competenze. Quarto: le esportazioni rischiano di andare in tilt, perché dopo oltre un secolo non saranno più le soprintendenze a occuparsene. Eppure sono compiti tra loro strettamente collegati: se l’esportazione è negata, va subito avviato il procedimento di dichiarazione di interesse culturale”.

  

Ma qual è la logica di questa riorganizzazione? “Manca una logica di sistema, mentre ce ne sono altre settoriali, anche in contrasto tra loro: rafforzare il Segretariato generale, avere un mega ufficio Contratti a Roma, potenziare le direzioni generali: sono tutte azioni non in linea con gli obiettivi dichiarati che puntavano a preservare l’autonomia dei musei e di assicurare un vero potere decisionale agli uffici periferici del ministero. Ideologie ci sono sempre state, purtroppo, soprattutto in questo settore. Questa volta intravedo però più una somma di scelte puntuali non coordinate tra loro, in presenza di una coperta troppo corta: ne è prova il modo rapsodico con cui si è proceduto a cambiare di volta in volta l’elenco degli istituti museali di cui sopprimere l’autonomia”.

Le critiche si soffermano anche su due personaggi: Giovanni Panebianco e Gino Famiglietti. Ma chi sono? “Sono rispettivamente l’attuale segretario generale e l’attuale direttore generale di Archeologia, belle arti e paesaggio del Mibac. Non ho idea di quale ruolo abbiano avuto in questa fase. Il problema mi pare sia un altro. Nell’amministrazione italiana, quasi mai sono messe ‘in principio’ le funzioni, come auspicava negli anni Sessanta del XX secolo Massimo Severo Giannini. Lo si è fatto con la riforma Franceschini, quando si è puntato sui musei, rendendoli capaci di svolgere le funzioni di tutela, educazione, ricerca e comunicazione che questo tipo di istituzioni ha in tutto il mondo. Sarebbe dunque bene guardare innanzitutto alle funzioni che il ministero è chiamato a svolgere. I poteri vengono alla fine, quando si sono già definiti gli obiettivi e si è deciso con quali strutture, mezzi e procedure vanno raggiunti. Invertire il circolo logico virtuoso della teoria organizzativa – funzioni, uffici, poteri, titolari degli uffici – è un errore che produce sempre altre patologie”.

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