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Il fantasma del Mibac, Alberto Bonisoli

Marianna Rizzini

L’uomo che in nome del “cambiamento” smonta cose già montate (e funzionanti). Notte al museo

Riforma della riforma: e già l’assurdo s’affaccia nel titolo del progetto, anzi controprogetto, uscito dalle stanze del ministro della Cultura Alberto Bonisoli, negli ultimi giorni al centro delle cronache (e delle polemiche) per l’imminente, annunciata anzi ormai approvata, rivoluzione (involuzione) attorno alla precedente rivoluzione (dei musei) fatta sotto il predecessore ministro, Dario Franceschini. Ma anche, si può dire, cambiamento del cambiamento: perché Bonisoli, che con il sedicente “governo del cambiamento” è appunto assurto al Mibac nel ruolo che doveva essere di Vincenzo Spadafora, ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle Pari opportunità, ha preso talmente alla lettera la parola “cambiamento” che sembra quasi quasi fare apposta, per dirla con un funzionario del ministero che ha visto all’opera vari ministri, “per smontare ciò che è stato montato e per far marciare a testa in su ciò che marciava a testa in giù”. Dopodiché, al momento, e nel momento in cui il presidente emerito del Consiglio superiore dei Beni culturali e paesaggistici del Mibac Giuliano Volpe, archeologo, definisce, nel suo blog sull’Huffington Post, “francamente un pasticcio” la riforma Bonisoli (approvata di fatto e nottetempo due giorni fa), e la descrive come “priva di una visione complessiva, con un insieme di interventi scollegati e più o meno casuali, alcuni fatti solo per recuperare posizioni dirigenziali, altri per dare almeno un’impressione di discontinuità rispetto all’odiata riforma Franceschini” – in questo momento, dunque, lui, il ministro Bonisoli, non si indigna con chi si è indignato (molti direttori di musei, per esempio) ma, intervistato dal Corriere della Sera, va a prendersela direttamente (manovra diversiva?) con gli americani della West Coast, e precisamente con il Getty Museum di Los Angeles, a proposito della restituzione del Lisippo, l’Atleta di Fano. Dice il ministro dunque che “il Lisippo deve rientrare in Italia. Il Getty Museum ha fatto sapere che ricorrerà alla Corte europea dopo che la Cassazione (italiana, ndr) ha confermato l’istanza di sequestro del giudice di Pesaro, Giacomo Gasparini. Noi andiamo avanti senza esibizioni muscolari ma con coerenza difendendo la dignità del nostro paese”. E dice anche che a lui, Bonisoli, “non sembra normale” andare al Louvre e dover “chiedere a quel museo quali opere siano in arrivo dai musei italiani… Ne va dell’immagine dell’Italia, credo. E’ persino una questione di buonsenso”.

 


La “riforma della riforma” (Franceschini), approvata di fatto nel silenzio, e il ministro “tecnico” che conosceva Casaleggio


 

Fatto sta che intanto, a inizio maggio, il ministro è stato protagonista dell’angoscioso caso anche detto “caso Leonardo da Vinci” (nelle parole di Bonisoli, intento a “correggere” l’omologo francese: “Sono costretto a smentire le parole del ministro della Cultura francese Franck Riester che ha annunciato il prestito di questi due nostri capolavori al Louvre. Preciso che, nel corso della mia visita istituzionale con il Capo dello stato Sergio Mattarella, nulla è stato deciso da entrambe le parti”. Cambia che ti cambia (anche nei modi?), il ministro “del cambiamento” che vuole fare “una finissima rivoluzione culturale” (annunciata in marzo al grido di: ci sono i soldi), procede per balzi all’indietro più che per balzi in avanti. Indietro e cioè, per esempio: non più autonomia per il Parco Archeologico della Via Appia, il Museo Etrusco di Villa Giulia, il Museo delle Civiltà, la Galleria dell’Accademia di Firenze, una controffensiva rispetto alla riforma precedente che per Sergio Rizzo (che al tema ha dedicato un lungo articolo su Repubblica del 18 giugno), si sviluppa lungo linee diverse ma convergenti: “L’obiettivo è chiarissimo: smontare pezzo per pezzo la precedente riforma di Dario Franceschini. Che peraltro fin dalla sua concezione aveva scatenato nell’apparato violente reazioni. Fino a determinare nel mondo delle soprintendenze una scuola di pensiero apertamente contraria, il cui esponente di punta può essere considerato il direttore generale Archeologia, arti e paesaggio Gino Famiglietti. Come le due linee di offensiva contro l’eredità di Franceschini si intreccino non è chiaro. Ciò che appare assolutamente chiaro, tuttavia, è che dietro il paravento di una nuova riforma si sviluppa una enorme partita di potere. In ballo c’è il castello di nomine dei direttori. E pure un sacco di soldi. C’è un miliardo di fondi europei da spendere quanto prima, per non dire del più massiccio piano di messa in sicurezza di tutti i musei: 800 milioni. Tanto basta per dare l’idea della posta in gioco…”. Eppure, al momento dell’insediamento come ministro – ministro annunciato anche nella fase preliminare alla tribolata formazione del governo gialloverde, come esponente a Cinque stelle ma tecnico (già manager alla Naba, Nuova Accademia di belle Arti, a Milano, e già presidente di una piattaforma di collegamento di accademie anche molto frequentate da rampolli di grandi famiglie asiatiche) – Bonisoli della riforma Franceschini aveva già parlato, sempre al Corriere della Sera, e quando gli era stato chiesto “riforma Franceschini e direttori stranieri nei musei italiani. Favorevole o contrario?”, aveva risposto: “A me piace pensare che un direttore debba essere bravo. Per struttura mentale, vorrei attenzione per gli italiani. Ma ragionare in base al passaporto mi sembra desueto, così come trovo provinciale che la scelta di uno straniero, solo perché straniero, sia segnale certo di modernità. Se un direttore bravo non è italiano, perché no? Ma no alla nomina ‘solo’ perché straniero…”. Ma aveva anche detto, come ha ricordato Filippo Facci su Libero, all’indomani della presentazione delle linee programmatiche, di voler “continuare il processo avviato da Dario Franceschini”, giacché doveva “riconoscere” che chi era venuto prima di lui aveva “già fatto parecchio e aveva già aumentato il bilancio del ministero”. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo anche la definizione, e Bonisoli, un anno fa, si era definito per tempo e “per radice un conservatore”, ma anche “un evolutore”, cioè uno che porta avanti le sue idee “con tenacia ma senza fratture”. “So ascoltare gli interlocutori, metodo non sempre adottato in questo ministero”, diceva.

 


La Naba, “nuova accademia di Belle Arti”, e la “piattaforma” moda-design che ha facilitato il balzo del “manager” in politica


 

E infatti: altro che fratture. Una certa inquietudine serpeggia nel mondo dei musei non soltanto per via del ministro che, in alcune foto, sfodera lo sguardo sorridente e solcato da ombre scure che un burlone cinéphile del ministero paragona “a un fotogramma di un film di Mel Brooks”, e non soltanto perché il ministro una volta, poi correggendo in parte la dichiarazione, ha fatto sobbalzare pure i professori dicendo che la storia dell’arte l’avrebbe volentieri abolita perché “al liceo era una pena”. Non da solo si muove infatti il ministro-tecnico già manager e già presidente di piattaforma attraverso cui le accademie “moda e design”, non economicissime, potevano diventare veicolo di laurea e di contatti istituzionali poi preziosi per il salto in politica (del futuro ministro), salto facilitato dalla non recente conoscenza con i Casaleggio (prima il padre, poi il figlio), sempre lungo la direttrice innovazione-moda-web. E insomma attorno al ministro Bonisoli operano coloro che vengono chiamati (a turno) “ministri ombra” o “ventriloqui” del medesimo, anche se bisogna sempre vedere, di volta in volta, se è nato prima il verbo (o l’idea) dell’uno o quella dell’altro. E dunque al Mibac e fuori dal Mibac viene indicato come “plenipotenziario assoluto”, tanto per cominciare (oltre al suddetto direttore generale Archeologia Gino Famiglietti), il dottor Giovanni Panebianco, segretario generale ai Beni Culturali nonché, in precedenza, dirigente di seconda fascia alla presidenza del Consiglio con esperienza nel mondo della finanza. E oltre a Panebianco e a Famiglietti aleggiano, nella galassia di ispiratori-fautori-caterpillar-paladini della “riforma della riforma” , in modo meno diretto ma costante, lo storico dell’Arte Tomaso Montanari (da un suo libro le parole che hanno fatto da traccia nientemeno che a un tema dell’esame di maturità), e di Salvatore Settis, storico dell’arte, archeologo e nome ricorrente nelle consultazioni online grilline genere Quirinarie: entrambi esponenti dell’area per così dire “benecomunista” del grillismo, da cui evidentemente il ricasco statalista nella “riforma della riforma”.

 


Musei autonomi? Giammai. E vuole farsi restituire il Lisippo, non vuole trasferire Caravaggio, smentisce i francesi su Leonardo


 

Ma non tutto si tiene nell’arcipelago ideologico in cui si muove il ministro, prima di tutto il curriculum estremamente privatistico del ministro medesimo (che però poi, grazie alla suddetta Nuova Accademia di Belle Arti, ha cominciato a frequentare le cosiddette istituzioni). Per non dire della suddetta “piattaforma sistema moda”, per autodefinizione “un osservatorio di analisi sulle realtà formative nazionali ed estere, da un punto di vista quantitativo e qualitativo”, piattaforma che “sviluppa annualmente approfondite ricerche del settore e ne fornisce i dati a chi ne fa richiesta dietro approvazione del consiglio direttivo” e “seleziona gli istituti che si candidano al processo di accreditamento presso il ministero della Pubblica istruzione e ne promuove il riconoscimento istituzionale che dia la possibilità di rilasciare il titolo di laurea”. E, sempre lei, la piattaforma del ministro, “crea iniziative che, chiarendo l’importanza dei nuovi ruoli professionali, aiutino gli studenti nel processo di orientamento e placement e allo stesso tempo corrispondano alle necessità reali delle aziende del territorio italiano”. E ancora: “L’attività di relazioni istituzionali di PSFM si incentra, a livello nazionale, sulla costruzione di rapporti con il ministero della Pubblica istruzione e del Lavoro e con gli assessorati di competenza in Comuni, Province e Regioni e con le associazioni sindacali di categoria al fine di ottenere il riconoscimento dei titoli di studio rilasciati dai propri soci, di sviluppare una politica di accoglienza per gli studenti esteri, ottenere finanziamenti per progetti di sviluppo e ricerca e, in generale, di svolgere la funzione di cerniera tra mondo della formazione e del lavoro”. In tutto questo, quel che salta agli occhi è l’intreccio, gia allora, poco virtuoso tra istituzione pubblica, un privato velleitario a vocazione parassitaria e un linguaggio burotecnico che cerca di accreditarsi come innovativo. E’ la cifra che, passo dopo passo, informerà tutta l’opera del ministro. Di contatto in contatto, e con i Casaleggio come numi tutelari, Bonisoli si è ritrovato dunque alla mattina di poco più di un anno fa, quando, davanti a una platea a Cinque stelle, neoministro, si è messo a rimembrare i tempi in cui, compulsando il blog di Beppe Grillo, l’ex comico parlava di abolizione del canone tv e di politici come “dipendenti dei cittadini”. E, davanti alla folla plaudente, il neoministro così ha salutato la propria investitura: eccomi, sono il vostro dipendente, ci metto la faccia.

 


Il ruolo del segretario generale Giovanni Panebianco, le parole di Tomaso Montanari, e quelle di Grillo e Settis sullo sfondo


 

Tutto il resto è storia di ieri, oggi e (forse) domani, con contorno di discussioni sulle soprintendenze e sui trasferimenti (il no al trasferimento delle Sette opere di Misericordia di Caravaggio da una chiesa di Napoli al Museo di Capodimonte aveva fatto sobbalzare, qualche mese fa, persino il maestro Riccardo Muti. “Danno per l’Italia”, aveva detto Muti, ottenendo in cambio la risposta non molto anglosassone di Bonisoli: “Muti ha una certa età”). Ma ci sono stati anche scambi non amichevoli di vedute collaterali, per esempio quello intercorso sulle pagine del Fatto quotidiano tra Montanari e il critico Philippe Daverio a proposito della vendita del “Grande legno e rosso” di Alberto Burri. Per non parlare delle photo opportunity a Pompei, degli annunci non mantenuti (le assunzioni ancora non fatte in un settore afflitto dalla penuria di personale), il sovrano disprezzo per il lavoro dei grandi musei di cui pure è il responsabile ultimo.

 

Ma tanto, la mission era un’altra. e così, in Consiglio dei ministri, in una notte (al museo, verrebbe da dire), la “riforma della riforma” è stata approvata come “nuovo regolamento”, e senza neanche uno straccio di dibattito.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.