L'umanesimo quasi estinto di cui Mario Andrea Rigoni è un maestro indiscusso

Matteo Marchesini

In libreria i "Disinganni" dello scrittore leopardiano

Non conosco bene Mario Andrea Rigoni, ma credo di sapere da cosa dipende la simpatia istintiva che ho provato per lui durante i nostri pochi dialoghi, e che presto è diventata altrettanto forte della stima in cui tengo lo studioso e lo scrittore. Malgrado la carriera universitaria, e i riconoscimenti editoriali o mondani, in Rigoni un’erudizione rara convive con un grado di machiavellismo sorprendentemente basso. Le sue richieste d’attenzione sono perfino ingenue – timide come il suo sguardo un po’ stralunato, e come i modi in cui la sfumatura dandy è riassorbita da una secolare cortesia veneta. Rigoni tende ad attribuire all’interlocutore molta più cultura di quanta ne abbia, quasi che l’ambiente circostante fosse ancora tutto tramato di una conversazione civile da umanisti. Astratto dalla cronaca e dalla politica culturale, accosta incredulo i dibattiti spesso grotteschi sull’attualità letteraria, informandosi col tatto di chi sospetta che qualcosa gli sfugga.

 

Ecco allora la domanda che ci si pone sfogliando i suoi racconti, usciti ora da Elliot sotto il titolo recanatese di Disinganni: cosa succede quando questo rappresentante di un umanesimo pressoché estinto, che però è anche un critico esperto delle più complicate astuzie novecentesche, si mette a scrivere narrativa? Se non si tratta di un violino d’Ingres, si è comunque tentati di pensare a un esercizio confinato su un tavolino ben più angusto della scrivania alla quale sono nati gli studi sugli emblemi e le introduzioni a Leopardi. Invece l’unione di talento e carattere produce un sapore inatteso; e qua e là il miscuglio di perizia e candore infonde un senso di felicità liberatorio a un lettore ormai stretto tra l’industria dello storytelling e gli sperimentalismi di seconda mano. Lo stile rigoniano, attico e conciso, nobilmente sostenuto e ricoperto da un leggero strato di polvere, ritrova almeno un filo della voce del “narratore” che quasi un secolo fa Walter Benjamin vide scomparire. Secondo Benjamin, la sua scomparsa dipendeva dall’assedio dell’informazione e dalla vittoria del romanzo.

 

Infatti Rigoni compone racconti, in genere brevissimi; e anche quando sfrutta le tecniche hemingwayane, e le cifre del più armato Novecento, il suo tono riecheggia quello di un XIX secolo ancora legato a un’aura premoderna. E’ il tono della novella morale che confina con la fiaba, qui rappresentata esplicitamente dalla “Ferita di Kaleb”. Rigoni trucca il suo studio da vecchio salotto in penombra, da spazio conviviale dove i sigari, i bicchieri di whisky e le rilegature dorate sugli scaffali rimandano a loro volta a una situazione più arcaica: la sosta intorno a un fuoco che innesca il puro gusto di narrare accadimenti minuscoli e leggendari, storie la cui misteriosa ciclicità sfugge alla Storia. Spesso i suoi racconti si presentano come aneddoti vissuti in prima persona, o riferiti da altri, che un lavoro di artigianato “migliora” appena, rendendoli più coerenti senza privarli della gratuità. L’io narrante ricorda un po’ Soldati e un po’ Conrad, un po’ Moravia e un po’ Landolfi: è un anonimo borghese colto, insofferente e al tempo stesso affetto da una sorta di nevrosi pietistica, che ci mette quasi sempre davanti a un dilemma o a una mostruosità etica, ma soprattutto all’azione rapida e beffarda del Caso, alla sua nemesi paradossale perché senza misura. Narrare è appunto narrare un caso, un’avventura. E non di rado quest’avventura ha a che fare col femminino. Se da un lato evocano nostalgie paradisiache, dall’altro le donne dei “Disinganni” aprono squarci da thriller, e lasciano intravedere un mondo ferino che agghiaccia. Si pensi alla ragazza avignonese di “Tristesse”, conosciuta su Skype in un dialogo che però mantiene la distinzione dei carteggi cartacei. Qui l’inganno della virtualità diventa doppio o triplo, sfiorando la prova fiabesca e rovesciando la disillusione in euforia: eppure questa euforia coincide nel finale con l’indizio perturbante di un livido. Si veda, ancora, “Il confessionale”, dove un io più giovane, in un impeto di goliardia studentesca, gioca a confessare un amico e un’amica in una chiesa vuota, scoprendone relazioni e desideri, ma prima di potersi togliere i paramenti viene avvicinato da una signora che lo prende davvero per un prete e gli comunica di avere ucciso il marito. Più avanti la incontrerà con un uomo, e il sipario calerà su un sorriso tenero di lei che suggerisce di nuovo l’incipit di un giallo. E’ il sorriso della vita stessa, enigmatica e terribile come l’espressione di una statua antica – la vita che nell’epifania collettiva di “Un giorno qualunque” rivela all’improvviso il suo fondo, liberando per un attimo dalla quotidianità irreale e imponendo uno spaesamento angoscioso, e che in “Sacrificio” e in “Amicizia” mescola futilità, assurdità, violenza cieca. Ma a volte il disinganno è più circoscritto, e riguarda un protagonista che sembra sovrapponibile all’autore: come il giornalista ingenuo di “Anni settanta”, che mette il suo buon mestiere al servizio di amici estremisti, e si fa manovrare perché crede ancora a valori ridotti dagli altri a gusci vuoti in cui nascondere i propri delitti. Se nella maggior parte dei pezzi l’orrore e l’assurdo fanno apparire il loro riflesso nella trama, c’è anche una zona della raccolta che li fissa apertamente.

 

Così avviene nell’allegoria kafkiana di “Tra le erbe”; nel “Dubbio”, operetta che discute le ipotesi sull’aldilà; e in quel “Capitolo conclusivo” dove una riflessione da saggio di età ellenistica si volge verso la biblioteca di casa, ultimo residuo identitario in cui resiste l’eleganza di un individuo che, a differenza dei suoi antenati classici, non può contare su tradizioni in grado di dare un senso al trascorrere del tempo. In sintesi, nel leopardiano Rigoni convivono un moderno che narra e un antico che commenta – o viceversa. Questa doppia identità partorisce una narrativa come exemplum laico: non troppo lontana, quindi, da quel genere del microsaggio saporoso, dell’elzeviro centrato sulla situazione esistenziale e morale di un personaggio o di una persona storica, nel quale lo scrittore è da decenni un riconosciuto maestro.

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