"Orfeo ed Euricine", fino al 22 Marzo al Teatro dell'Opera di Roma (foto Fabrizio Sansoni)

Orfeo, un mito d'oggi

Marina Valensise

Amore e morte secondo Gluck. Ieri è tornata a Roma l’opera che ha rivoluzionato la storia del teatro musicale

Torna all’Opera di Roma Orfeo ed Euridice, il capolavoro di Christoph Willibald Gluck e Ranieri de’ Calzabigi. L’opera che nel Settecento rivoluzionò la storia del teatro musicale torna dopo 50 anni, con un nuovo allestimento in coproduzione col Théâtre des Champs Elysées, il castello di Versailles, e la Compagnia dell’Opera canadese. Dopo la prima di ieri, quattro recite in programma (il 17, 19, 21, 22 marzo), con la direzione di Gianluca Capuano, per la regia di Robert Carsen e con le voci di Carlo Vistoli, Mariangela Sicilia e Emöke Baráth. Capuano, grande specialista del repertorio barocco, di casa a Salisburgo e nei principali teatri internazionali, è attento sino allo spasimo a restituire “la verosimiglianza” della musica di Gluck, a ricostruirne il lessico perduto e ricreare quello che fu un codice essenziale nella storia del belcanto.

 

Il canadese Carsen, oggi fra i migliori registi in circolazione, anche lui al debutto romano, tratta l’Orfeo come se fosse stato scritto ieri, come se quel dramma di amore e morte fosse il frutto della fantasia di un contemporaneo alle prese con la favola di un vedovo che ha il permesso di scendere all’inferno per ritrovare la moglie e riportarla in vita, a patto però di non guardarla in faccia, pena la perdita di nuovo e per sempre. “È un essere umano come tutti noi”, dice Carsen senza badare troppo al mito classico, al fatto che Orfeo in origine era un cantore trace e un semideo e Euridice una ninfa, morsa da un serpente mentre fuggiva a un tentativo di stupro. “Orfeo vive la condizione umana di chiunque ami e perda il suo amore, sapendo che un giorno non sarà più qui, anche se nessuno è stato programmato per accettare la fine della vita”.

 

È così che Carsen riattualizza il mito, spogliando l’opera di tutti gli orpelli, le stravaganze, le dotte superfetazioni, per restituirne l’essenza nuda e cruda. Del resto, la stessa cosa fece Gluck, ispirato dal suo librettista, quando mise mano alla riforma del teatro musicale. Bisognava concentrarsi sulla linearità del dramma, che infatti fu ridotto a “un’azione scenica in tre atti”, affidata a soli tre personaggi, oltre ai cori. Banditi gli accessori, le ridondanze, i lunghi recitativi secchi, il capriccio dei cantanti, all’epoca castrati e vere star, che aggiungevano colorature e variazioni a volontà. E invece largo alla semplificazione, al rigore della partitura che doveva rispondere alla metrica del libretto. La trama si scopriva dalle arie, perché bisognava puntare sulla melodia, piegare la musica alla poesia, per dare voce all’espressione drammatica di due sposi avvinti dal mistero della vita oltre la morte, dalla forza dell’amore che trionfa, se animato da virtù, e ravviva la speranza.

 

Il regista canadese Robert Carsen spoglia l’opera di tutti gli orpelli e le stravaganze, per restituirne l’essenza nuda e cruda

Fedele a Gluck e alla sua riforma, Carsen non fa che esasperare l’economia di mezzi per regalarci una regia scabra e severa, dove nulla è lasciato al caso e tutto corre verso il sublime, verso l’epurazione dell’ascesi. Niente coturni, pepli, corone di alloro, niente cetra e libagioni, niente danze delle furie e amorini svolazzanti su altalene inghirlandate. Un’unica scena funge per i tre atti, con un crinale di sabbia e sassi che scivola verso una fossa, che è la tomba di Euridice e al tempo stesso il lago d’Averno, porta di ingresso agli inferi, come avvertiva il librettista dopo aver spostato il dramma dalla Tracia alla Campania felix. Posta la scena unica, cambia solo l’atmosfera e il sortilegio per Carsen, che da decenni lavora mano nella mano con Peter van Praet, avviene col semplice variare della luce che segna il passaggio dal grigio funereo al rosso spettrale dei Campi Elisi, con le ombre dei morti che strisciano come larve, avvolte in un lenzuolo, mentre il nero del dolore alla fine si stempera nel lucore dell’alba dorata, che riaccende la speranza.

 

Orfeo, l’aitante Carlo Vistoli, intenso controtenore trentaduenne nato a Lugo ma di fama internazionale, compare in giacca e cravatta come uno yuppie frastornato che piange la morte della moglie, circondato da una folla in abiti scuri, che poco ha a che fare col coro di pastori e ninfe danzanti, ma resta la comunità stretta nel cordoglio di un giovane disperato. Anche Euridice è vestita di nero quando segue Orfeo poggiandogli la mano sulla spalla, e risale dagli inferi aggrappandosi alle sue gambe, senza capire perché il marito, che pure insiste per riportarla in vita e si preoccupa delle sue reazioni, sia così distante, così tiranno da non degnarla nemmeno di uno sguardo. Così il mito si piega ai modi d’oggi, all’angoscia, al disamore, all’incomprensione, finché non spunta fuori Amore, alias Emöke Baráth che a Parigi cantava con Philippe Jaroussky, Patricia Petibon e i Barocchisti diretti da Diego Fasolis. Come un’ombra del teatro del Nô, solo mimandone i gesti, Amore neutralizza l’intento suicida di Orfeo, restituendo a lui la speranza e a Euridice la vita, secondo il lieto fine settecentesco. “Per adattar la favola alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe”, avvertiva infatti Calzabigi, rinviando al IV libro delle Georgiche e al VI dell’Eneide.

 

Liszt diresse l’opera a Weimar, Berlioz la riorchestrò. Wagner vide in Gluck un pioniere del Gesamtkunstwerk

In tanta attualizzazione, allora, è bene ricordare quanto quest’opera sublime debba al caso, e all’incontro fortuito di tre personaggi improbabili. Innanzitutto Gluck, il compositore boemo, figlio di una guardia forestale, che aveva fatto il suo tirocinio a Praga, Milano, Londra, e Napoli. Dieci anni prima di scrivere Orfeo ed Euridice aveva coronato il suo sogno d’amore impalmando una ricca fanciulla, libera finalmente di disporre di sé dopo la morte del padre banchiere, che delle nozze con un saltimbanco non ne voleva sapere. Poi il conte Giacomo Durazzo, già ambasciatore a Vienna della Repubblica di Genova e ormai assoldato dagli Asburgo come intendente per gli spettacoli teatrali. E infine il livornese Ranieri de’ Calzabigi, letterato, libertino, finanziere, avventuriero eclettico.

 

Anche lui aveva alle spalle un tirocinio napoletano. Per dieci anni aveva vissuto di espedienti (riesumati ora da Luigi Tufano, I viaggi di Orfeo, Edicampus 2012) cercando di piazzare almeno tre libretti al San Carlo, offrendosi di descrivere le scoperte archeologiche di Ercolano, supplicando a più riprese il re perché lo nominasse bibliotecario a palazzo. Dopo aver sfornato varie odi, canzoni e serenate ufficiali, a metà degli anni Cinquanta, coinvolto in un processo per avvelenamento, lascia Napoli per approdare col fratello a Parigi, al seguito dell’ex ambasciatore francese, il marchese de l’Hôpital. Lì inizia a pubblicare le opere di Metastasio, dodici volumi presso la vedova Quillau, e scrive la famosa Dissertazione per la riforma dell’opera (ristudiata da Paolo Gallarati, L’Europa del melodramma. Da Calzabigi a Rossini, Edizioni dell’Orso, 1999 e 2015) che anni dopo realizzerà a Vienna con Gluck. 

 

Ma il poeta è anche un uomo d’affari. Entrato nelle grazie di Madame de Pompadour, nel 1757 concepisce per il finanziere Pâris Duverney il sistema di calcolo probabilistico per una lotteria, che in tempi di crisi delle finanze pubbliche serve a raccogliere i fondi per la costruzione della scuola militare. Fu così che, pur vivendo appartato, Calzabigi conobbe Casanova, altro avventuriero sciupafemmine col pallino della lotteria, che l’immortalerà nelle sue Memorie: “Incontrai un uomo dall’aspetto poco attraente, poiché era coperto di una specie di lebbra; ma ciò non gl’impediva né di mangiare né di scrivere né di assolvere perfettamente a tutte le funzioni fisiche e intellettuali; parlava bene e aveva un carattere molto allegro. Non si mostrava in pubblico, perché, oltre a questa sua malattia che lo sfigurava, aveva in certi momenti e piuttosto spesso, un’irresistibile voglia di grattarsi dappertutto; e dal momento che grattarsi a Parigi è ritenuto una cosa abominevole, preferiva lasciare muovere le sue unghie in libertà alla gioia che gli avrebbe procurato il vivere in società. Gli piaceva dire che credeva in Dio e alle sue opere, e che era persuaso che gli aveva dato le unghie perché si procurasse la sola consolazione che si poteva permettere nel momento di rabbia di cui era divorato […] Egli era più anziano e celibe, grande calcolatore, abile in tutte le operazioni finanziarie, conoscitore del commercio di tutte le nazioni, dotto in storia, bel esprit, poeta e gran donnaiolo”.

 

L’opera deve molto all’incontro di personaggi improbabili, come il compositore boemo e il librettista livornese, un avventuriero

Non sappiamo per quali ragioni nel 1760 Calzabigi si dimette dall’incarico alla lotteria, e grazie al conte di Coblenz finisce in Belgio, come consigliere aulico alla Camera dei conti dei Paesi Bassi austriaci e autore di un apprezzato rapporto in materia. L’anno dopo lo ritroviamo a Vienna, in veste di segretario del cancelliere Kaunitz. Entra così nella cerchia del genovese Durazzo, e passando con nonchalance dalla scienza della finanza alla mitologia e dal debito pubblico alla lotta di eros e thanatos, riceve la commissione dell’Orfeo che Gluck musicherà. Sarà dunque lui, il perfetto libertino, l’avventuriero itinerante, educato alla “nécessité de plaire” dall’abate Galiani, il vero artefice della riforma del teatro musicale.

 

È quanto lo stesso Gluck riconosce nel 1773 in una lettera al Mercure de France: “Sarei degno di un rimprovero ancor più sensibile se acconsentissi a lasciarmi attribuire l’invenzione del nuovo genere d’opera italiana il cui successo ha giustificato il tentativo. E’ a Monsieur de’ Calzabigi che ne appartiene il principale merito; e se la musica ha incontrato qualche favore fra il pubblico, credo di dover riconoscere che è a lui che sono debitore, poiché è lui che mi ha consentito di sviluppare le risorse della mai arte. Questo autore pieno di genio e di talento ha seguito una strada poco conosciuta dagli Italiani nei suoi libretti d’Orfeo, Alceste e Paride. Queste opere sono piene di quelle situazioni felici, di quei tratti terribili e patetici che forniscono al compositore il mezzo per esprimere grandi passioni, di creare una musica energica e toccante”.

 

E infatti era stato proprio Calzabigi, una volta sperimentate le sue innovazioni col Don Juan ou le Festin de pierre del maestro di danza Gasparo Angiolini, a presentare a Gluck il suo Orfeo. “Gliene declamai più pezzi a più riprese, indicandogli le sfumature, che mettevo nella mia declamazione, le sospensioni, la lentezza, la rapidità, i suoni della voce ora caricata, ora affievolita e trascurata, nel modo in cui se ne facesse uso nella sua composizione. Lo pregai, nel frattempo, di bandire i passaggi, le cadenze, i ritornelli e tutto ciò che si è messo di gotico, di barbaro, di stravagante nella nostra musica. Il signor Gluck aderì ai mei punti di vista”. Il grosso del lavoro insomma era suo. Era stato lui a trasformare l’archetipo dell’Euridice di Virgilio, che Caccini, Jacopo Peri e Monteverdi avevano ridotto a un’eroina passiva addirittura esclusa dall’azione, in una figura attiva, in una donna vera, viva, che dubita, piange, si dispera, tormentata dal dubbio – “Dimmi: son bella ancora qual era un dì? Vedi che forse è spento il roseo mio volto?” – rosa dal sospetto e dalla paura di ritornare in vita senza sapere cosa l’aspetti… “Qual vita è questa mai, che a vivere incomincio! E qual funesto terribile segreto Orfeo m’asconde…”.

 

Calzabigi immortalato da Casanova nelle sue Memorie: “Abile nelle operazioni finanziarie, poeta e gran donnaiolo”

La prima di Orfeo ed Euridice, per l’onomastico di Francesco d’Austria, fu il 5 ottobre 1762, con Gluck alla direzione e tre cantanti di grido, il castrato Gaetano Guadagni, grandissimo allievo di Derrick, Marianna Bianchi e Lucia Clavareau. Ebbe un tale successo che venne seguita da centinaia di repliche in tutta Europa. L’imperatrice regalò a Gluck una borsa con cento ducati e a Calzabigi un anello con diamante. Nel 1769 l’Orfeo approdò a Parma e poi a Parigi, dove nel 1774 Gluck ne fece una revisione, con l’aggiunta di balletti e libretto in francese di Pierre Louis Moline. Da allora l’Orfeo divenne una pietra miliare nella storia del teatro musicale. Liszt lo diresse a Weimar, componendo un suo poema sinfonico. Berlioz lo riorchestrò, riadattando al mezzosoprano, per Pauline Viardot Garcia, la scrittura per haute contre del ruolo di Orfeo, che dopo la scomparsa dei castrati veniva affidato a voci femminili; Wagner vide in Gluck un pioniere del Gesamtkunstwerk.

 

Ai primi del Novecento, Toscanini, incurante della tiepida accoglienza milanese (“Morfeo alla Scala” titolò un giornale nel 1907), rilanciò l’Orfeo al Metropolitan di New York, eliminando l’ouverture e interpolando arie e cori di altre opere. Ma bisognava aspettare la fine del Novecento, con la rinascita della musica barocca e il rispetto filologico per gli strumenti e per i ritmi antichi, per riscoprire un capolavoro che tocca le corde dell’emozione umana, e passando dalle tenebre dell’inferno alla luce della beatitudine mette a nudo i nostri errori, di poveri mortali, di fronte alla forza di irradiazione dell’amore.

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