Roberto Frontali e Carlo Cigni (Monterone) in scena. Il regista Daniele Abbado ha ambientato “Rigoletto” in un cortile anni Quaranta, all'epoca di Salò (Foto Yasuko Kageyama - Opera di Roma)

Una sfida ostinata alla censura. Così nacque "Rigoletto"

Marina Valensise

Con il titolo preferito dall'autore ed esaltato da Strawinsky contro Wagner si è aperta la stagione del Teatro dell'Opera di Roma

Verdi era già Verdi quando si mise in testa di musicare Le Roi s’amuse, il dramma shakespeariano di Victor Hugo che diventerà Rigoletto. Era la primavera del 1850 e il musicista di Busseto aveva già trionfato col Nabucco, già attinto al genio francese con Ernani, e già testato la pazienza di Francesco Maria Piave, poeta stabile presso La Fenice. La vicenda, per quanto nota, merita di essere ricordata dopo che il Teatro dell’Opera di Roma, dopo il successo dell’ultima stagione (14 milioni di introiti dai biglietti venduti) ha inaugurato la nuova stagione domenica 2 dicembre proprio col Rigoletto.

 

Dopo il Tristano e Isotta di Wagner, dopo La damnation de Faust di Berlioz, che con l’allestimento di Damiano Michieletto ha vinto il Premio Abbiati, il direttore Daniele Gatti ha scelto la prima opera della trilogia popolare, un’opera per niente magniloquente e quasi da camera, con un coro ridotto e la bella spolverata nella regia di Daniele Abbado, che ha fatto fuori palazzo e costumi rinascimentali per ambientare il tutto in un cortile anni Quaranta, all’epoca di Salò… Dunque Rigoletto. Perché l’opera preferita di Verdi (“Delle mie opere – avrebbe detto – come maestro preferisco Rigoletto, come dilettante la Traviata”), esaltata da Strawinsky contro Wagner (“C’è più sostanza nell’aria ‘La donna è mobile’, in cui l’élite vide soltanto deplorevole facilità, che in tutta la retorica e le vociferazioni del Ring”), è un’opera rivoluzionaria in cui domina il mélange de genres, dove il comico si fonde al tragico, il grottesco al patetico, e i personaggi vivono una sorta di straniamento riflettendo di continuo su sé stessi e i loro drammi, tanto Verdi costruisce la scena portando al punto di incandescenza l’evoluzione psichica e la sofferenza di ognuno di loro, come se anticipasse il Wozzeck di Alban Berg. Quanti di voi l’hanno dimenticato devono recarsi per una delle sette repliche in programma dal 4 al 18 dicembre con un cast di prim’ordine (Roberto Frontali e Sebastian Catana Rigoletto, Ismael Jordi e Ivan Ayon Rivas il Duca di Mantova, Lisette Oropesa e Claudia Pavone Gilda, Riccado Zanellato Sparafucile, Alisa Kolosova Maddalena).

 

Ma per ricominciare dall’inizio, Verdi era già Verdi, col suo bel carattere tirannico e determinato, quando decise di musicare il terzo dramma di Hugo. Abbandonata l’idea di un Re Lear per il San Carlo di Napoli, a causa dell’indisponibilità del librettista Salvadore Cammarano, quando La Fenice di Venezia gli chiese un nuovo libretto per il Carnevale del 1851 scrisse subito a Piave: “Avrei un altro sogetto (sic) che se la polizia volesse permettere sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro moderno. Chi sa! Hanno permesso l’Ernani, potrebbero permettere anche questo, e qui non ci sono congiure. Tentate! Il sogetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il sogetto è Le Roi s‘amuse, e il carattere di cui ti parlo sarebbe Triboulet, che se Varese è scritturato nulla di meglio per lui e per noi…”. Senza tergiversare intimò al librettista di non perdere tempo: “Appena ricevuta questa lettera, mettiti quattro gambe: corri per tutta la città, e cerca una persona influente che possa ottenere il permesso di fare Le Roi s’amuse. Non addormentarti: scuotiti: fa presto”. Era il 20 aprile 1850. Piave dovette esitare non poco, se tre settimane dopo Verdi tornò alla carica: “Oh, Le Roi s’amuse è il più gran sogetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet (sic) è creazione degna di Shakespeare. Altro che Ernani! E’ sogetto che non può mancare… quando mi passò per la mente Le Roi fu come un lampo, un’ispirazione… Ebbene, adunque, interessa la Presidenza, metti sottosopra Venezia e fai che la Censura permetta questo soggetto”.  

 


  

 Il presidente del Teatro dell'Opera Carlo Fuortes e il sindaco di Roma Virginia Raggi

  


 

Per l’inaugurazione il direttore Daniele Gatti ha scelto la prima opera della trilogia popolare. La regia è di Daniele Abbado

Non era facile. La censura aveva già colpito a Parigi. Dopo la prima alla Comédie française nel 1832, la rappresentazione di Le roi s’amuse di Hugo era stata sospesa e sarebbe rimasta sepolta sotto il peso del divieto per cinquant’anni, nonostante la monarchia orleanista nata dalle barricate di Luglio, la libertà di stampa riconosciuta dalla Charte, e il processo contro il Théâtre Français intentato dallo stesso Hugo, autore di una arringa sensazionale, e difeso da un principe del foro come Odilon Barrot. Niente da fare. Hugo si dimise da ogni incarico e dovette rinunciare a quell’opera in alessandrini considerata un’offesa alla morale e un oltraggio alla monarchia. Da repubblicano impenitente, Hugo aveva immaginato una vicenda alquanto scabrosa alla corte del re di Francia Francesco I, dove un buffone malato e deforme, Triboulet, aizza il sovrano a rapire la moglie di un cortigiano, deride un padre infelice che piange la figlia disonorata, e infine cade vittima della maledizione di quest’ultimo. Padre a sua volta di un’unica figlia che tiene nascosta, Triboulet sarà colpito dalla provvidenza come Saint Vallier: anche sua figlia verrà sedotta, rapita e disonorata dal re, e per vendicarla, Triboulet cercherà di ordire una trappola al re, finendo per esserne la prima vittima, con la morte di quanto ha di più caro al mondo, sua figlia.

 

Difficile pensare che dopo la censura nella “liberale” Parigi, l’Imperial regia monarchia che dal 1797 dominava Venezia mostrasse indulgenza. E infatti, nonostante le esortazioni di Verdi (“Non avere ostacolo, né per la divisione della scena, né per il sacco. Stai pure attaccato al francese”, insisteba con il librettista), nonostante il nuovo titolo ( “La maledizione di Vallier o per essere più corto La maledizione. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande”, scriveva il 3 giugno da Cremona), e malgrado le remore del mite Piave, che intanto continuava a tramare per conto suo, l’approvazione mancò. L’11 novembre 1850, Verdi fu informato dal presidente della Fenice Carlo Marzari che la locale Imperial regia Direzione centrale dell’ordine pubblico aveva chiesto di esaminare il libretto tratto dal dramma di Victor Hugo, date le voci in circolazione circa “la sfavorevole accoglienza tanto a Parigi, che in Germania per la dissolutezza di cui va gonfio”.

  

  

Le voci erano false, come si è visto, ma Verdi non si perse d’animo. Di ritorno da Trieste dopo la prima di Stiffelio, chiese a Piave di sollecitare la direzione del teatro veneziano perché gli fosse trasmessa l’autorizzazione politica, esortandolo a evitare “trattamenti che portassero alterazioni ai caratteri, al soggetto, alle posizioni”, e usando persino la minaccia: “Tu avrai una grande responsabilità se per caso, non voglia il Diavolo, non si permettesse questo dramma”. Ma il Diavolo lo volle. E il governatore militare, cavaliere de Gorzkowski, vietò la rappresentazione di quell’opera, deplorando “che il poeta Piave e il celebre Maestro Verdi non avessero saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità ed oscena trivialità, qual è l’argomento del libretto intitolato La Maledizione”.

 

“Avrei un altro soggetto, che se la polizia volesse permettere sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro moderno”

 Verdi parve sconvolto. “Il decreto che lo rifiuta mi mette alla disperazione, perché ora è troppo tardi per scegliere altro libretto che mi sarebbe impossibile di musicare per questo inverno”, scrisse a Marzari il 5 dicembre. Ma siccome anche a Venezia con una mano si proibiva e con l’altra si trattava, lo stesso Imperial regio direttore Carlo Martello mentre avvertiva i responsabili del teatro di non insistere, suggeriva al librettista le modifiche da fare. E Piave obbedì. Cambiò il contesto, sostituì al re di Francia un gentiluomo privo di lascivia, levò la gobba al buffone, cambiò i nomi dei personaggi, tolse pure il sacco in cui veniva finiva moribonda la figlia del buffone, e intitolò il tutto Il duca di Vendôme. Quando Verdi lesse le modifiche andò su tutte le furie, sciolse il contratto e chiese a Piave di ridargli i soldi: “Ti incaricai di fare il Roi s‘amuse colla condizione che tu ottenessi il permesso dalla Polizia. Non essendo stato permesso, con mio grave danno, resta naturalmente sciolto il nostro contratto, e mi restituirai le 300 lire austriache che sopravanzano”. Dopo vari tira e molla, Verdi scrisse al presidente della Fenice Carlo Marzari una lettera di fuoco che “è un meraviglioso saggio di drammaturgia in cui spiega il suo intendimento”, come dice Gatti, e che dunque trascrivo integralmente, copiandola dall’antologia di Franz Werfel e Paul Stefan (Verdi, l’uomo nelle sue lettere, Castelvecchi 2013):

 

“Ho avuto ben poco tempo per esaminare il nuovo libretto: ho visto però abbastanza per capire che ridotto in questo modo manca di carattere, d’importanza ed infine i punti di scena sono divenuti freddissimi. S’era necessario cambiare i nomi, dovevasi cambiare anche la località, e farne un Duca, un Principe d’altro luogo, per esempio un Pier Luigi Farnese o altro, oppure portare l’azione indietro prima di Luigi XI quando la Francia non era regno unito, e farne o un Duca di Borgogna o di Normandia etc. etc., in ogni modo un padrone assoluto. Nella scena quinta del 1° atto tutta l’ira de’ cortigiani contro Triboletto non ha senso. La maledizione del vecchio, così terribile e sublime nell’originale, qui diventa ridicola, perché il motivo che lo spinge a maledire non ha più quell’importanza e perché non è più il suddito che parla così arditamente al suo re. Senza questa maledizione quale scopo, quale significato ha il Dramma? Il Duca è un carattere nullo: il Duca deve essere assolutamente un libertino; senza di ciò non è giustificato il timore di Triboletto che sua figlia sòrta dal suo nascondiglio: impossibile il Dramma.

 


  

 

Il presidente Fuortes con i protagonisti del “Rigoletto” (Foto Yasuko Kageyama - Opera di Roma)


  

Dopo la prima alla Comédie française, la rappresentazione di “Le roi s’amuse” di Hugo era stata sospesa. Il buffone là è Triboulet

Come mai nell’ultimo Atto il Duca va in una taverna remota solo, senza un invito, senza un appuntamento? Non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa importava del sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta dire: perché ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può fare da Maestro? Chi può dire questo farà effetto e quello no? Una difficoltà di questo genere c’era pel corno d’Ernani: ebbene chi ha riso al suono di quel corno? Tolto quel sacco non è probabile che Triboletto parli una mezza ora a cadavere prima che un lampo venga a scoprirlo per quello di sua figlia. Osservo in fine che s’è evitato di fare Triboletto brutto e gobbo!! Un gobbo che canta? Perché no!… Farà effetto? Non lo so; ma se non lo so io non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, e internamente appassionato e pieno d’amore. Scelsi appunto questo soggetto per tutte queste qualità. E questi tratti originali, se si tolgono, io non posso farvi musica. Se mi si dirà che le mie note possono stare anche con questo dramma, io rispondo che non comprendo queste ragioni, e dico francamente che le mie note o bello o brutte che siano non le scrivo mai a caso e che procuro sempre di darvi un carattere (…)”.

 

Alla fine, salvo poche concessioni insignificanti, Verdi riuscì a spuntarla, mantenendo i punti che gli stavano più a cuore. Il 30 gennaio, presente Piave, siglò a Busseto un accordo con i responsabili della Fenice, perché il duca fosse “libertino, e padrone assoluto del suo stato”, il buffone deforme e si mantenesse il sacco, “coi riguardi dovuti alla scena”. Ebbe pochissimo tempo per terminare l’opera, in tutto quaranta giorni, ma dopo lunga maturazione: “Per scriver bene, occorre scrivere rapidamente, quasi d’un fiato – raccomandava da esperto – riservandosi poi di accomodare, vestire, ripulire, l’abbozzo generale, senza di che si corre il rischio di produrre un’opera a lunghi intervalli con musica a mosaico, priva di stile e di carattere”. La strumentazione la completò durante le prove e il tenore Raffaele Mirate ricevette “La donna è mobile” soltanto alla vigilia delle generali. Rigoletto andò in scena alla Fenice l’11 marzo 1851 e fu un successo, venti repliche a Venezia e a seguire in tutte le capitali d’Europa, tranne a Parigi, dove arrivò solo nel 1857, perché Hugo con l’accusa di plagio tentò invano di impedirne la rappresentazione, salvo arrendersi al Quartetto del terzo atto: “Meraviglioso! Potessi anch’io far parlare contemporaneamente quattro personaggi, e ottenerne lo stesso effetto, in modo che il pubblico ne colga le parole e i sentimenti”.

 

L’accusa di plagio di Hugo, che si arrese al Quartetto del terzo atto: “Meraviglioso! Potessi anch’io far parlare insieme quattro personaggi” 

Daniele Gatti torna dunque alla partitura originale di Verdi, come fosse stata scritta due mesi fa, senza le aggiunte, le note di collegamento, gli ornamenti e le appoggiature accumulati in un secolo e mezzo. “Non pensate che a Verdi, seduto al pianoforte a Busseto, venisse in mente un’idea e la buttasse giù. Non è così”, avverte Gatti annunciando un’esecuzione diversissima da quella che ha diretto a Bologna nel 2004. “Verdi medita. Quando dice ‘sto cercando la tinta’, non pensa all’orchestrazione, ma a quel qualcosa, a quel linguaggio musicale che dà ai suoi personaggi per chiuderli con un lucchetto. Rigoletto, per esempio, lo concepisce in una tonalità di Do, mentre la figlia ha un colore diverso, è concepita in una tonalità di Mi, e all’80 per cento reagisce in quella tonalità, e invece Sparafucile è scritto nella tonalità di Fa. E altre note sono legate a momenti drammatici, la maledizione di Monterone è in Re bemolle, il Re naturale connota l’atto criminale, il pugnale, l’uccisione di Gilda, la tempesta.

 

Francesco Maria Piave si adattò, d’accordo con La Fenice, a un compromesso sul libretto. Verdi allora scrisse una lettera di fuoco 

Dunque, se abbiamo pensato di eseguire l’opera come Verdi l’ha scritta, è perché Verdi non ha previsto note arbitrarie al di fuori del Dna originale dei personaggi, che ne tradiscano l’idea primaria. Perciò abbiamo chiesto ai cantanti di calarsi nei personaggi, di comprendere perché Verdi ha preso quell’indirizzo e non un altro. Il pubblico forse non se ne accorgerà, ma sarà obbligato a scoprire le differenze. Per esempio, il primo acuto di Rigoletto, ‘Ah è follia’, è nel sogno: avviene dopo l’incontro con Saparafucile e prima del suo ritorno a casa. Di solito, quando il baritono canta questo acuto è come se dicesse ‘non è successo nulla, buttiamoci tutto dietro le spalle’. Ma allora perché canta al presente? Perché quando torna a casa e vede la figlia le dice ‘a te dappresso trova sol gioia il core oppresso?’ Il ritmo musicale è lento, accorato. Poco dopo, per la prima volta, Rigoletto racconta a Gilda della madre. E c’è anche altro.

 

Gli attori di Rigoletto ricevono gli applausi del pubblico al termine dello spettacolo teatrale
(foto Yasuko Kageyama-Opera di Roma)

 


 

Gatti: “Verdi non ha previsto note arbitrarie al di fuori del Dna originale dei personaggi, che ne tradiscano l’idea primaria”

 Hugo nel suo dramma allo stesso punto fa dire a Triboulet ‘quel vecchio mi ha maledetto, certo mi capiterà qualcosa di male’, e poi aggiunge ‘stringendosi sulle spalle, si chiede sarà pazzo?’. Punto di domanda. Perché? Rigoletto è colpito da una maledizione, ma qualche misura prima una nota particolare riconduce all’ambito tonale di Sparafucile: la prima maledizione è l’incontro con questo fantasma che per strada gli si offre come sicario. Il dramma che matura nella testa di Rigoletto dunque è un insieme di cose: la maledizione di fronte a tutti, la maledizione di essere nato deforme, la reazione di Monterone, il padre che torna a corte per prendersi la figlia rovinata dal duca… Passano le ore, Rigoletto resta a corte, forse bevendo, cercando di dimenticare, poi torna casa, verso sera incontra il fantasma di Sparafucile, che gli dice quando vuole mi trova qui… io impazzirei… che bisogno ha di terminare il monologo con uno squillo eroico? E del resto, il brano seguente inizia nel Mi, la tonalità di Gilda. Dunque non è Rigoletto a gettarsi il problema dietro le spalle, ma è la gioia di Gilda per ricevere il padre, la gioia della figlia che ha trovato il coraggio di dirgli ‘da tre mesi a messa incontro uno e ci guardiamo’…”.

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