"Gibellina" di Guido Guidi (foto presa dal sito dell'autore)

Il ritorno alla realtà di Guido Guidi

Luca Fiore

Il fotografo pellegrino che ritrae la via Emilia e le “robe da barbun”. “Ovunque tu guardi c’è qualcosa da vedere”

Borello, Cannuzzo, Gambellara, Forlimpopoli, Macerone, Martorano, Meldola, Montaletto, Metellica, Sorrivoli, Piavola, San Giorgio, San Martino, San Vittore. Il rosario di località sulla via Emilia è composto da paesini che poco si discostano da Ronta, comune di Cesena, il villaggio dove vive Guido Guidi. Dei maestri della fotografia italiana, quelli della generazione di Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Luigi Ghirri e Olivo Barbieri, Guidi (classe 1941) è quello che meno si è allontanato da casa propria per scovare quello che da cinquant’anni va cercando.

 

Che poi, non è così facile capire che cosa vada cercando, quest’uomo che parla e fotografa un po’ come un pellegrino medievale, un po’ come un monaco zen. Sulla sua opera, in occasione della retrospettiva alla Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi del 2014, la curatrice Agnès Sire lo aveva descritto come un artista che vuole “portare alla luce una realtà in cambiamento che non desideriamo vedere, dove pensiamo che non ci sia niente da vedere”. Dal canto suo, Guidi ama ripetere appena ne ha l’occasione una citazione del Talmud: “Ovunque tu guardi c’è qualcosa da vedere”. E aggiunge, elevando la disciplina a religione laica: “Per me fotografare è un atto devoto”.

Il suo ultimo libro, uscito a settembre per i tipi di Mack e già andato esaurito, si intitola “Per strada” e raccogliere il frutto del suo girovagare tra Rimini e Ravenna tra gli anni Ottanta e Novanta: 285 fotografie, quasi tutte a colori, suddivise in tre volumi. Villette anonime, portoni consunti, muri sbrecciati, vie secondarie, cartelli stradali, utilitarie malmesse, pali della luce. Un giorno, racconta Guidi, mostrò queste immagini a Bologna, a una platea di architetti dell’Emilia Romagna: “Intervenne l’allora Presidente regionale dell’Ordine degli architetti dicendo che era stranito nel vedere le mie immagini. Sosteneva che io fotografavo con grande cura manufatti che lui avrebbe abbattuto”.

Dei maestri della fotografia italiana, è quello che meno si è allontanato dalla propria casa per scovare ciò che va cercando 

Ci sono fotografi che escono di casa dopo aver studiato la mappa del territorio, come fanno gli urbanisti. Guidi sorride e dice che per lui la via Emilia è una via come un’altra: “E’ un viaggio iniziato nei dintorni di casa mia. La via Emilia è una strada che porta da un luogo a un altro. Non è neanche l’unica che ho battuto: ho fotografato anche la Romea e la B.1, dalla Russia fino a Santiago de Compostela. Esco di casa e la mia mappa è la strada. La seguo e vedo dove mi porta. Anche quando ho lavorato con gli urbanisti mi è capitato di deviare, uscire dal percorso programmato. Ciò che conta per me è viaggiare, vedere che le cose si incontrano. E’ scoprire. Scoprire se stessi. Conoscere, arricchirsi. Imparare ad avere meno paura dell’altro”. Guidi, per spiegare quale sia il suo atteggiamento verso le cose che guarda, cita Ezio Raimondi, il grande filologo, che parlando dell’esperienza della lettura spiegava che doveva essere non quella del turista, ma quella del pellegrino.

Ciò che colpisce della scelta dei soggetti e del modo in cui vengono ripresi è l’assenza di retorica: “Ha a che fare con il fatto che è stata la fotografia a scegliermi. Nel senso del caso. Non è che ho scelto io, è che sono stato attratto da questa disciplina. Da bambino mi piaceva disegnare poi, all’università, mi sono imbattuto in un libro di Siegfried Kracauer, “Film: ritorno alla realtà fisica”, in cui si analizza la differenza tra cinema e teatro. Nel cinema, come nella fotografia, non c’è bisogno di enfasi per simulare la realtà, anzi è dannosa. Io non cerco retorica, cerco di tornare a un grado zero, a quella che Roland Barthes chiama ‘intrattabile realtà’”.

 

I teologi dell’Alto medioevo che davano indicazioni ai pittori, spiega Guidi, sostenevano che le figure dei santi non dovevano “rappresentare” la persona, ma dovevano “presentarla”. “In Piero della Francesca, il contadino deve apparire come tale davanti allo spettatore. Così noi ci troviamo di fronte al ‘contadino’, a ‘Sigismondo Malatesta’ o alla ‘Madonna’ che è soprattutto una donna. Sono innanzitutto persone reali, poi sono anche metafore. Stanno davanti a noi come delle apparizioni concrete”.

Le immagini di Guidi appaiono all’osservatore superficiale come istantanee di luoghi insignificanti, riprese senza alcun tipo di “tecnica”, o, per usare una brutta espressione, senza alcuna “artisticità”. Non è affatto così. Da ormai quasi quarant’anni il fotografo di Ronta si porta in giro una pesante camera di grande formato, che produce negativi di 20 per 25 centimetri, che lui stampa senza ingrandirli. E’ una scelta poetica precisa. Che vale quanto quella di soffermarsi su luoghi lontani dai centri storici, privi di qualsiasi forma di “aulicità del monumentale”, come la chiama lui. E’ la ricerca di quella zona franca dove l’uomo ha costruito in modo spontaneo, dove la lingua del paesaggio urbano è una sorta di “dialetto periferico, volgare”. Il fotografo racconta di quella volta che andò a sentire una conferenza del poeta Franco Fortini: “Diceva che solo scrivendo una poesia in dialetto si può parlare del pane senza inciampare nella retorica. Dante non ha usato il latino, ma il volgare. Le pare poco? Così, rispetto alla pittura, alla scultura o all’architettura, che sono linguaggi aulici, la fotografia è come la lingua volgare. Se io le metto davanti agli occhi un foglio di carta che è una fotografia, lei avrà di fronte un oggetto che le indurrà molto meno rispetto reverenziale piuttosto che una tela dipinta a olio. Walker Evans diceva che per chi lo sa provare, c’è un particolare piacere a usare un linguaggio disprezzato dai più”.

Per Guidi, il punto è il modo di guardare il mondo. “Occorre essere colti, purché la cultura visiva non faccia dell’occhio un occhio troppo armato. L’armatura dello sguardo è negativa”. E’ necessario, dice, tornare ad avere un approccio semplice per poter vedere le cose, per poter decostruire un’immagine, per saperla leggere. “Ma non si decostruisce senza cultura. Io non credo nell’atteggiamento naïf e alla presunzione di chi dice di non aver avuto maestri. Il Beato Angelico era un uomo colto, viveva nella biblioteca del Convento di San Marco, dove c’era una quantità di codici antichi. Oltre a leggere, bisognerebbe imparare a ‘guardare’. Ma nessuno ce lo insegna. Da bambini ci dicono che, prima di attraversare la strada, bisogna guardare a destra e a sinistra. Ma poi la mamma ci dice: ‘Non guardarti intorno e cammina!’. Oppure: ‘Non guadare con insistenza, è da maleducati’. Tutto il contrario di ciò che bisognerebbe fare. Barthes, in una lettera aperta a Michelangelo Antonioni, definisce ‘l’insistenza dello sguardo’ come una delle virtù dell’artista”.

Il percorso di Guido Guidi parte da lontano. Alla fine degli anni Sessanta, nelle aule del corso di Disegno industriale all’Università di Venezia, incontra maestri come Italo Zannier e Carlo Scarpa. Con Zannier, racconta, “feci esercizi molto precisi con la macchina sul cavalletto, operazioni che poi si sarebbero dette in qualche modo ‘concettuali’ o anche “minimali’ basate sulla reiterazione metodica: ad esempio fotografare un oggetto da due metri, tre metri, quattro metri e così via. Poi montavamo le fotografie in pannelli creando delle serie”. In Laguna, pochi anni prima, nel 1964, era approdata la Pop Art. Il suo artista preferito di quel periodo è Jasper Jones, ma ammette che più o meno direttamente è stato influenzato da molti altri.

 

I maestri incontrati a Venezia alla fine degli anni Sessanta. Il lavoro con Ghirri. Il tentativo di “rendere le cose in presenza”

Nel 1984 Luigi Ghirri inserisce Guidi, con immagini del decennio precedente, tra gli artisti di “Viaggio in Italia”. E nello stesso anno realizzano un progetto insieme: “Due fotografi per il Teatro Bonci”, di cui alcune immagini sono confluite in “Per strada”. Ma il suo lavoro, e quello degli altri fotografi della sua generazione, aveva innegabilmente qualcosa di nuovo e di diverso da ciò che la fotografia italiana aveva prodotto fino a quel momento. E creava disagio. “Ci dicevano: ‘Tu vuo’ fa l’americano’. Perché fotografavamo ‘robe da barbun’, direbbe Jannacci, o ‘cose da nulla’, come le chiamerebbe Pasolini”.

“Non sono mai riuscito o non ho mai voluto usare l’ironia”, spiega tornando a usare il registro della sua religione laica: “Se fotografando è come se pregassi, come faccio a essere ironico?”. L’ironia si è spesso usata, in fotografia, facendo il verso alle cartoline che, secondo Guidi, piacciono tanto all’uomo della strada quanto all’intellettuale. In questo senso, dal punto di vista editoriale, un libro d’autore che gioca sul tema della cartolina ha certo più appeal commerciale. “Ma il rischio è di finire per mettere in ridicolo tutto quanto. Io, invece, uso la fotografia come protesi, come il bastone dei ciechi di cui parla Cartesio: uno strumento per entrare in rapporto con la realtà, toccarla. L’arte per me è un modo di conoscere il mondo, così non riesco a fare ironia sui mezzi che mi aiutano in questa avventura così difficile”.

Le immagini di “Per strada” sono state per lui la palestra per affrontare questa avventura, che definisce come il tentativo di “rendere le cose in presenza”. Una cosa difficile, se non impossibile, dice, da realizzare con il linguaggio verbale. “Non è solo l’uso della parola ‘mare’, ma il fatto che leggendo mi ritrovi in presenza del mare, o di una persona, o di una cosa. In pochi ci riescono”. Qui cita il Carlo Emilio Gadda de “Il castello di Udine”: “Era studente di matematica, e divenimmo amici: un’amicizia fragile e secca, nel gelo morale della disperazione, come quei fiori, vitrea piuma, che un soffio dissolve”. Commenta Guidi: “Leggendo mi trovo in presenza sì dei fiori, ma anche della vita. Non è solo il fiore, ma anche la piuma che il soffio dissolve. Se siamo in fotografia o in pittura, come diceva Leonardo, il vento non si può dipingere se non attraverso il moto delle nuvole che si muovono. Rendere visibile la presenza, rendere visibile la casa, il paracarro, l’albero e allo stesso tempo il vento…”.

Rispetto a questo tentativo di ritorno alla realtà, conclude Guidi, aveva ragione Susan Sontag quando scriveva: “Tra due alternative fantastiche, quella di un Holbein il Giovane vissuto abbastanza a lungo per poter fare il ritratto di Shakespeare e quella di un prototipo della macchina fotografica inventato talmente in anticipo da riuscire a fotografarlo, la grande maggioranza dei ‘bardolatri’ sceglierebbe la fotografia. Non solo perché, presumibilmente, mostrerebbe com’era realmente Shakesperare, ma perché, anche se l’ipotetica fotografia fosse sbiadita e appena leggibile, una mera ombra brunastra, la preferiremmo con ogni probabilità a un ennesimo splendido Holbein. Avere una fotografia di Shakespeare sarebbe come avere un chiodo della Vera Croce”.

Di più su questi argomenti: