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Il fascismo, forma che si dà a un vuoto

Matteo Marchesini

Il comunicato degli skinhead a Como, col suo tono da polveroso editoriale, suona tanto più sinistro in quanto sembra scollato dalla violenza che minaccia

Davanti ai rigurgiti squadristi, e all’esibizione di simboli neri o bruni, le molte diagnosi sembrano allineare pezzi di verità senza riuscire a saldarli, un po’ come lo psicoanalista che suggerisce associazioni tutte plausibili ma non dà il senso irrefutabile di aver trovato il bandolo. Forse in questa situazione non è inutile risfogliare l’album di famiglia dove si sono accumulati i luoghi comuni, i fraintendimenti, le analisi nate dal regime che abbiamo alle spalle. Sotto la copertina, ecco subito la tesi dell’invasione degli Hyksos, che si oppone frontalmente all’idea del fascismo come autobiografia della nazione. Poi c’è Pannella, figlio sia di Croce sia delle spericolate sintesi gobettiane, che insisteva su un punto: negli anni Venti il nostro paese provinciale e arretrato esportò nel mondo un fenomeno mostruosamente nuovo.

 

Certe nazioni, pur eccentriche rispetto alla storia europea e occidentale, funzionano da sue cavie: si pensi alla Spagna del Novecento o di oggi. E a proposito di patrie, nell’album si trova anche l’idea del fascismo come patriottismo deforme degli italiani, un patriottismo che la crisi attuale dello stato scarica sulle regioni. Un’altra sezione, fitta di foto e aforismi, lo imputa anche agli antifascisti, facendone il carattere metastorico di un popolo fazioso, illiberale, immobile. Un’orecchia va poi messa alla pagina in cui sgorga dal rancore dei ceti medi declassati, e dai discorsi di intellettuali che giocano con ideologie aberranti perché nelle democrazie il senso comune appare prosaico e poco remunerativo. Qui si legge una nota di Brancati, che giudicò il Novecento totalitario il secolo nel quale la Stupidità “si getta (…) su quelli che l’hanno aizzata”, cioè appunto sui chierici pronti a legittimare le brutali semplificazioni dei nuovi movimenti di massa. Ma altre note dell’album ci ricordano quanto c’è di decrepito in queste novità. Più che una parentesi o un parente Savinio vide nel fascismo una paresi, un passato putrido destinato a intossicare il presente, e una versione politica di quell’estetismo che è per lui un “cadavere mascherato”, un morto che tira nella tomba il vivo.

 

I travestimenti in costume storico, che puntellano identità incerte e forse per questo si diffondono nelle scuole, rivelano la natura funerea del bovarismo.

 

Il comunicato degli skinhead a Como, col suo tono da polveroso editoriale, suona tanto più sinistro in quanto sembra scollato dalla violenza che minaccia. Ma anche il linguaggio che lo condanna è gravato da vecchi cascami. Per troppi decenni le fini disquisizioni sul fascismo metastorico e metaforico sono scivolate nel vizio grossolano di dare del fascista a chiunque: così quando il termine serve ci si ritrova in bocca una moneta inflazionata. E se ci sono morti che provano a uccidere i vivi, specularmente i cadaveri dei corpi intermedi democratici mostrano decomponendosi cosa covava sotto le loro membra: gli emiliani ex comunisti che ora parlano come leghisti non hanno subìto una mutazione genetica, sono solo stati spogliati della stoffa istituzionale che ne copriva gli istinti. A estremizzare questi istinti contribuiscono poi le bolle mediatiche, le sovrainterpretazioni virali che distorcono tutto per esigenze di “dibattito” di rado coincidenti con le necessità civili. Esporre una maglia repubblichina è imbecille: ma diventare un succulento piatto mensile per corsivisti, tv e social renderà il goleador che l’ha fatto migliore dei ragazzi che fino al Duemila si esibivano in quotidiane oscenità revisioniste senza avere puntati addosso eserciti di smartphone, obiettivi e link pronti a impiccarli a un episodio? Scorso l’album, dovremmo comunque meditare su un’ultima sfumatura di nero.

 

Il “fascismo” è spesso la forma che si dà a un vuoto, a tendenze vaghe e magari diversissime. E’ un modo verbale e gestuale che rimanda le scelte vere alla presa del potere, un nome dato dopo a ciò che prima non ne ha o ne ha altri perché cresce parassitando il resto (ancora Pannella: “Mussolini non sapeva che stava inventando il fascismo”). Qui sta il rapporto col cosiddetto populismo, che nella società del web si presenta prima come farsa e poi come possibile tragedia, e che cavalca qualunque tema, dai vitalizi all’ecologia. Forse nessuno ha descritto questa retorica “messa in forma” di un contenuto indifferente come il Zavattini del “sogno dell’uomo al balcone” incastonato in “Straparole”: “Un uomo sogna un balcone: vuol proprio un balcone, un bel balcone, nella sua casetta, tutto per sé. Si affaccia al balcone, guarda la natura intorno, respira la bella aria, sente il bisogno di esclamare: ‘Come è bella la natura’; ma compiacendosi del balcone, sul cui parapetto poggia con le mani, ripete la esclamazione e quasi senza accorgersene a poco a poco la ripete con un timbro dittatoriale e inizia un discorso sulla natura retoricamente: ‘Italiani! Come è bella la natura!’ e sembra di udire l’eco stentorea di un’altra voce conosciuta da tutti gli Italiani: ‘Italiani questi alberi, questo verde…’. Uno scroscio di applausi copre le sue parole, insieme a grida scandite: ‘Al-be-ri al-be-ri’ ”.

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