Leningrado 1941, primi mesi dell'assedio tedesco

Novelle made in Urss

Mariarosa Mancuso
Quattro racconti di Zaslavsky che all’assurdo della vita in Unione sovietica – cucine comuni con le pentole incatenate perché nessuno le rubasse, la grossezza delle catene misurava la rissosità – uniscono l’assurdo della letteratura assistita dallo stato. “Il mio compagno di banco Ramón Mercader” è proprio il sicario che a Città del Messico ammazzò Trotsky.

L’ultimo libro dell’estate: oggi, in allegato gratis nel Foglio, l’ultimo libro della nostra serie “Un libro per l’estate”. Per gentile concessione dell’editore Sellerio, pubblichiamo in tre puntate i quattro racconti di Victor Zaslavsky (1937-2009) della raccolta intitolata “Il mio compagno di banco Ramón Mercader” (2011).


 

Storie che sembrano arrivare da “Racconti dell’età dell’oro”, film a episodi scritto e prodotto da Cristian Mungiu: le leggende metropolitane che i rumeni raccontavano sotto Ceausescu (su un tono più malinconico, trovate in sala il suo bellissimo “Un padre, una figlia”). La volta che il dittatore in una foto risultò più basso di De Gaulle con il colbacco, quindi la foto fu ritoccata disegnando il colbacco in testa anche a Ceausescu (salvo accorgersi, quando il giornale era stampato, che il colbacco Ceausescu se lo era tolto e lo teneva in mano). La volta che allevarono un maiale di nascosto, mancò il coraggio di ammazzarlo con il coltello, cercarono di ucciderlo con il gas e saltò in aria il caseggiato. Storie provenienti dall’Unione sovietica, vita vissuta prima che Victor Zaslavsky – nato nel 1937, studi da ingegnere minerario e insegnamento di sociologia all’Università di Leningrado – riuscì a scappare in occidente.

 

Nel 1975, qualche anno prima di Sergej Dovlatov: agli ebrei fu consentito di mettere le proprie cose in una valigia (una sola) e andarsene dove potevano. Dovlatov a New York, Zaslavsky prima in Canada e poi in Italia. Storie spassose nella loro assurdità, per noi che le leggiamo a distanza di sicurezza. I protagonisti stavano un pochino più in pensiero. Bastava uno sketch clownesco vecchio come il circo – il malato con il dottore – per farsi arrestare, torturare, processare e condannare (assieme ad altre migliaia di persone, era il 1948 e Stalin non aveva finito di far fuori gli avversari politici). L’accusa: propaganda antisovietica e calunnia verso il sistema sanitario. Tale era sembrato ai burocrati il martellone con cui il pagliaccio provava i riflessi del paziente, mentre le gambe si allungavano come elastici. Seguiva controllo dell’orecchio, trovato sporchissimo e liberato con un clistere gigante (dall’altro orecchio volavano fuori “certi oggetti scuri che sembravano tappi di bottiglia e sterco di cavallo”).

 

Storie che all’assurdo della vita in Urss – cucine comuni con le pentole incatenate perché nessuno le rubasse, la grossezza delle catene misurava la rissosità – uniscono l’assurdo della letteratura assistita dallo stato. Victor Zaslavsky racconta un amico che traduceva poesie inesistenti dalle lingue centro-asiatiche. I poeti delle remote repubbliche socialiste in cerca di gloria – leggi: contratti vantaggiosi e piccoli poteri locali – abbozzavano in prosa russa molto sommaria le loro intenzioni liriche. L’amico prendeva appunti, e dopo pochi giorni era in grado di fornire “un fiume di versi in cui la potenza sovietica trionfava sul deserto, e il felice kirghizo o kazako o qualunque altro abitante dell’Asia centrale inneggiava alla sua nuova felicità”. Pagato con uva, meloni, cognac armeno invecchiato, tappeti turcomanni, il traduttore commentava: “Sotto altri regimi giocherebbero in borsa o farebbero i mafiosi. Qui diventano poeti e soci dell’Associazione Scrittori”.

 

“Il mio compagno di banco Ramón Mercader” è proprio il sicario che nel 1940 a Città del Messico ammazzò Trotsky con un piccone. Il narratore se lo trova accanto in biblioteca, trent’anni dopo i fatti. Lo vede firmare schedine del prestito con lo pseudonimo di Carrasco, preso dal “Don Chisciotte”, e subito si insospettisce. Stesso cognome di Maria Mercader, madre di Christian De Sica. Erano parenti, infatti, e neppure alla lontana: Ramón Mercader era lo zio di Maria.

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