Jesse Hughes (foto LaPresse)

Quel dito medio al Bataclan

Giulio Meotti
“Sono pro armi, pro Trump, pro life”. Così Hughes, leader degli Eagles of death metal, diventa persona non grata in Francia. “Il 13 novembre non fu un caso:  i terroristi sanno che là fuori ci sono ragazzi bianchi stupidi e ciechi”.

Roma. La storia d’amore fra gli Eagles of Death Metal e la Francia è durata sei mesi. C’era la band americana dentro al teatro Bataclan la sera del 13 novembre, quando due kamikaze dell’Isis hanno sterminato 89 persone in un tiro al piccione (compreso Nick Alexander, addetto al merchandising degli Eagles). Per settimane, la Francia si è stretta attorno a questo gruppo di anarcoidi californiani di Palm Desert dalla barba folta, la voce arrochita, i capelli a spazzola, i tatuaggi, la cultura da middle America, quella della frontiera mischiata con la morte e il testa o croce dell’esistenza. Tutti che ripetevano il loro slogan: “Peace, Love and Fuck Terrorism”. E mostravano le lacrime copiose del frontman, Jesse Hughes.

 

Adesso gli Eagles of Death Metal sono radioattivi e ben due festival della musica, Rock en Seine e Cabaret Vert, ne hanno cancellato l’esibizione. “Essendo in totale disaccordo con le recenti affermazioni rese da Jesse Hughes in un’intervista, abbiamo deciso di cancellare la performance della band”, recita la nota congiunta degli organizzatori (la band era in cartellone a fine agosto). Lo scorso febbraio, Hughes era stato intervistato dalla tv francese iTélé e aveva già deluso non pochi benpensanti: “Non posso permettere che i cattivi l’abbiano vinta. La legge francese che limita le armi ha forse fermato la morte di una sola f…a persona al Bataclan? So che molte persone non saranno d’accordo con me, ma le armi possono rendere le persone uguali, o almeno così avrebbe potuto essere quella notte. Finché rimarrà anche solo una persona con una pistola, tutti dovrebbero averne una. Perché non ho mai visto morire una persona che aveva una pistola, e voglio che tutti possano averne una. Ho visto morire persone che forse avrebbero potuto vivere”. Poi Hughes aveva rivolto il dito medio al musicista dei Pink Floyd, Roger Waters, che gli aveva chiesto di aderire al boicottaggio di Israele.

 

Hughes nei giorni scorsi è tornato a scuotere la Francia con una lunga intervista apparsa sul magazine Taki. E, oltre ai festival, ora lo scaricano anche molti fan, sostenuti dalla stampa. Tony Scott, uno dei fan degli Eagles presenti al concerto la notte del 13 novembre, sui media francesi definisce Jesse Hughes “scioccante” e “razzista”. Il Guardian pubblica una lettera aperta a Hughes di Ismael el Iraki, un altro sopravvissuto al Bataclan di fede islamica: “Caro Jesse, la tua stupidità è fottutamente pericolosa. Il rock and roll è amore. Tu sei diventato un diffusore di odio”. Segue il settimanale l’Express: “Hughes insulta la memoria delle vittime del Bataclan”. E il Monde fa notare che le dichiarazioni di Hughes sono state raccolte da Gavin McInnes, “uno dei fondatori di Vice, noto per le sue idee politiche conservatrici e le dichiarazioni sessiste”. Già dopo il 13 novembre, l’International Documentary Film Festival ad Amsterdam aveva deprogrammato “The redemption of the devil”, un film incentrato su Hughes.

 

Ma cosa ha detto di tanto scandaloso l’artista? “E’ pro gun, pro Trump e pro life”, scrivono i giornalisti a colloquio con il chitarrista e cantante. Ce ne sarebbe già abbastanza. Poi inizia un soliloquio tragico che non ti aspetti da gente con gli anelli al naso, il piercing e i capelli verdi. Jesse Hughes è un pick-up che viaggia nel deserto:  “A una ragazza davanti a me hanno sparato e la testa le è esplosa”, racconta. “Avevo suoi pezzi di ossa e denti in faccia (…) Quando hanno sparato i primi proiettili, la gente mi ha guardato. Non avevano mai sentito un colpo di pistola in vita loro. Ho visto la paura stendersi su tutta la folla e la gente è caduta come grano al vento, al modo in cui si fa di fronte a Dio”. Pensa che la correttezza politica ci renda vulnerabili? “Sicuramente”, risponde Hughes. “La paura di offendere i musulmani è l’arma più grande di un terrorista. La correttezza politica uccide. Basta prendere la parola ‘islam’ e sostituirla con ‘comunismo’. I Rosenberg potevano vendere segreti nucleari da dentro l’America e allo stesso modo i terroristi islamici ci possono attaccare dall’interno”.

 

E’ solo colpa nostra? “Ovviamente no. Quando in una partita di calcio in Europa si vede la scritta ‘Emirati Arabi Uniti’ sai che ci sono un sacco di soldi arabi che influenzano il dialogo. Pensano che siamo sciocchi. Il denaro arabo è un inquinante. George Clooney non bacia il culo degli arabi senza ragione. Non si vedono mai i terroristi arabi nella parte dei cattivi nei film. Sono sempre tedeschi o francesi… O cristiani conservatori”. E ancora: “Il giorno dopo, allo stadio, dei musulmani hanno fischiato il momento di silenzio. Ho visto musulmani che celebravano in strada durante l’attacco. L’ho visto con i miei occhi. In tempo reale!”. Ancora: “E’ come una metafora per tutta la civiltà occidentale. Mi ricordo di una donna in piedi con le mani in segno di resa. Il terrorista la vide e tutto quello che lei ha fatto è stato dire, ‘no no no’. Io la chiamavo, ‘hey’, ma si arrese alla morte davanti ai miei occhi”.

 



 

La mentalità liberal ha creato questo bisogno di arrendersi, domanda Gavin McInnes?. “Quando dici alle persone che non possono aiutarsi e che sono bambini, li indebolisci al punto che a tre passi da loro c’è la vita ma non la vedono perché hanno troppa paura”, risponde Jesse Hughes. “Siamo letteralmente disarmati e siamo anche mentalmente disarmati. E’ come la pecora belante della ‘Fattoria degli animali’. Quando suggerisci qualcosa che devia dalla narrativa, un coro belante ti tira giù. Questo attentato non è successo per caso”.

 

E conclude così: “Fuori c’erano un sacco di parigini incazzati, ma erano in gran parte poliziotti e militari”. L’islam grida al lupo sull’islamofobia, al fine di anestetizzarci e renderci facile preda. “Sanno che ci sono ragazzi bianchi là fuori che sono stupidi e ciechi. Questi ragazzi bianchi benestanti che sono cresciuti in un programma di studi liberal fin dalla scuola materna, inondati con queste nozioni arroganti che sono soltanto aria calda. Guardate dove li stanno portando”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.