Niente di nuovo sul fronte occidentale. Ecco a voi il trionfo del turpiloquio

Mario Sechi
Dai primi esperimenti di Radio Radicale, che tra i primi provò a dare voce al popolo, alla bestemmia su Rai Uno. Quando agli italiani viene data l'occasione di esprimersi, questi rivelano tutta la propria anonimia. La fuga del sapere, il fenomeno Zalone e la comunità di solitudini online del M5s.

“Ma voi chi vi credete di essere? Siete solo audience: mi assalite come un branco di lupi affamati perché non sopportate la vostra realtà e il vostro modo di essere! Sì, il mondo è veramente un posto terribile! Sì, il cancro e le immondizie”.

Talk Radio, 1988.

 

Niente di nuovo sul fronte occidentale. “C’è la bestemmia reiterata, gridata, annunciata come in un cupo rullio di tamburi”. Corre l’anno 1993, Radio Radicale apre i suoi microfoni al popolo (esperimento fatto anche nel 1986), il risultato è una sconvolgente eruzione di violenza verbale senza boccaccesca poesia che inonda i microfoni. Per giorni e giorni va avanti il cupo tam tam di Radio Parolaccia, Radio Oscenità, Radio Bestemmia, Radio Turpiloquio, Radio Insulto, Radio Sconcezza, Radio Blasfemia, Radio Rutto, Radio Scoreggia, Radio Coprofagia. Ventidue anni fa, nel pieno della magnifica era di Mani Pulite & Lingue Sporche, Marco Pannella mette on air le voci dei mostri dell’isola del dottor Moreau, libera le fiere dell’Italia dell’odio, sventola il contratto sociale in fiamme, fa urlare il giustizialismo che desidera frustare il corpo, mette a nudo la pornografia del linguaggio che nasconde il demone dell’invidia, della frustrazione, della psicosi, della deviazione verbale come primo sintomo della malattia democratica, della società aperta ma così blindata da apparire come un mostro anonimo, un ruggito che esce dalla gabbia. 

 

Le trenta segreterie telefoniche di Radio Radicale diventano lo specchio babelico di una dimensione no limits. Pierluigi Battista intervista Pannella per la Stampa, ne esce un ritratto psicologico del paese che fa rabbrividire, con la clava in mano, idrofobo, con gli occhi iniettati di sangue e “l’ossessivo, maniacalmente ripetitivo desiderio di “spaccare il culo”. Segno di una nevrosi sociale diffusa che dovrebbe far riflettere psicologi e psichiatri. Simbolo linguistico di una società in cui affiora un elemento patologico di impotenza e insoddisfazione sessuale in cui il sesso, come fosse un totem, diventa un simbolo di catartica violenza in grado di appagare istinti ben piantati nel nostro immaginario”. Toc toc, sono il mostro che è in te. Profetico? No, contemporaneo. 

 

Niente di nuovo sul fronte occidentale. La bestemmia di Capodanno del 2015 sugli schermi della Rai è la versione reloaded di quel mondo, il download anonimo del Trojan che penetra nel sistema operativo dell’Italia. E l’antivirus? In un sistema aperto e connesso, nel social network elevato a nuova agorà c’è il moderatore. Ecco cosa ha raccontato il moderatore messo a selezionare lo tsunami di sozzerie in bit: “Per almeno tre ore ho tolto dal video cento sms impresentabili. Insulti, cori razzisti, inni alla jihad e decine di bestemmie, il centunesimo ci è scappato. E' inspiegabile che sia finito sotto processo soltanto io. Sono rimasto schiacciato tra due responsabilità che non mi appartengono. Avrei dovuto essere protetto dal software di Telecom, che chiaramente non ha funzionato. Poi dietro di me doveva esserci una struttura editoriale, almeno un giornalista". Protetto dal software. Quando in realtà sarebbe servito l’autospurgo. 

 

Disse Pannella, in un’era che sembra lontanissima e invece fu l’inizio di questa contemporaneità che si rotola nel fango: “Un gorgo, un gorgo da incubo. Ma come, c’è da domandarsi, vi si dà la possibilità non solo di parlare ma di presentare per così dire il vostro biglietto da visita e cosa scegliete di lasciare di voi stessi? L’anonimia. Non l’anonimato, che è un’altra cosa, ma la torbida, paurosa anonimia di chi non riesce ad articolare più di quaranta, massimo cinquanta parole. Un numero infinito di fotocopie in cui variano soltanto gli accenti ma come in una parodia terrorizzante di unità nazionale, si adoperano le stesse, consunte parole a Trapani e a Milano”. L’unità nazionale realizzata nel turpiloquio, l’Italia dissestata dal crollo dei valori trasformato in ascesa dei livori. La disgregazione del linguaggio in trivialità è uno dei primi segni di quella che Ernest Junger chiamava “la scomparsa del meraviglioso” dal nostro orizzonte. Trionfa il brutto. 

 

Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il dibattito di ieri non è diverso da quello di oggi. La Grande Sorella, la televisione, è il mezzo e il messaggio della vertigine dell’ascolto, l’audience come metrica dell’esistere, fino allo sminuzzamento della parola in materiale da social e il suo svuotamento di significato, la caccia ossessiva ai “follower” e agli “amici”, il proselitismo 2.0, la formazione del partito leggero, talmente leggero da essere bit, con l’epilogo già scolpito nella performance elettorale condotta a colpi di like e retweet. Pigiare. Non votare, please. Un dedalo, Cnosso e il Minotauro. Tutto scandito dall’algoritmo in diretta video.  

 

Niente di nuovo sul fronte occidentale. E’ un’onda lunga, viene da lontano, basta mettere insieme i frammenti del “dibattito” pubblico degli ultimi vent’anni e catapultarli in rete. Grazie a questa fuga dal sapere, alla sua disarticolazione, è potuto nascere in Italia il Movimento 5 stelle, naturale prosecuzione del mito della società open, enciclopedica ma senza conoscenza, una deregulation della (e dalla) responsabilità che culmina nella costruzione di una “comunità” di solitudini online dove la messa all’indice, l’epurazione, l’espulsione e la gogna elettronica sono precedute dalla lapidazione verbale. Un processo di distruzione della persona, la sua progressiva e inesorabile diluizione – guarda caso – nell’anonimato che culmina nella realizzazione del mondo distopico raccontato in Veni, Vidi Web di Gianroberto Casaleggio, un incubo totalitario che si nutre delle atmosfere raccontate da Dave Eggers in The Circle (ma senza alcun estro letterario) e dispiega l’utopia del management dell’anima. Ancora una volta, l’oscenità precede il silenzio, l’ordine assoluto. L’annientamento della volontà. 

 

[**Video_box_2**]Niente di nuovo sul fronte occidentale. La parolaccia, la bestemmia, il doppiosenso senza filtro, sono cronaca e storia della nostra visione sul piccolo e grande schermo. Alla longevità del cinepanettone scosciato e smutandato s’è affiancato il fenomeno dello “zalonismo”, prova definitiva al box office del carattere degli italiani e dell’inconsistenza anacronistica del suo presunto ceto intellettuale più flessivo che riflessivo. Fa ridere, Checco Zalone, perché è un altro aggiornamento automatico del sistema Made in Italy, la sua genialità è l’esorcismo dell’ignoranza, il pastiche del turpiloquio dosato come un oppiaceo, lo stordimento e il disinnesco nel ridicolo della parolaccia e del doppio senso. Come Alberto Sordi (dovrà incontrare un Fellini per essere tale) Zalone è un costruttore “di immagini straordinariamente negative dell’italiano tipico”, ma con l’happy end che ne mitiga la ferocia, ne addolcisce lo scartavetrare in faccia una realtà burlesque

 

In assenza di quest’arte, di questa (re)citazione, di questa collettiva seduta psicanalitica, la volgarità e il turpiloquio dell’Italia presente (e assente) si riprendono il palcoscenico, scorrono con brutalità prosaica sui titoli di coda di un anno, entrano in quello nuovo inzaccherati, maleodoranti, gli scarponi pieni di fango che scandiscono il tempo di una marcia funebre e, improvvisamente, per un infinito istante claustrofobico, mettono il mito della ggente al posto che merita: quello del disonore.