Estate sull'Oceano Padano

La bellezza salvifica di annoiarsi a morte nella lunga stagione calda

Mirko Volpi
Il vecchio saggio di Nosadello, rappresentante esemplare e malmostoso di questo microscopico paese piantato nel cuore dell’Oceano Padano di fronte a chiunque parta, si muova per svago dal borgo rurale, si azzardi addirittura ad “andare in vacanza”, ha una sola, scabra sentenza da esalare: “Ma indue l’è che ta voueret andà ’n gir a fà ’l cretino…”.

Il vecchio saggio di Nosadello, rappresentante esemplare e malmostoso di questo microscopico paese piantato nel cuore dell’Oceano Padano – il piatto, fertile, infinito slargo di Lombardia verde compreso all’incirca tra l’Adda e il Mincio –, di fronte a chiunque parta, si muova per svago dal borgo rurale, si azzardi addirittura ad “andare in vacanza”, ha una sola, scabra sentenza da esalare: “Ma indue l’è che ta voueret andà ’n gir a fà ’l cretino…”. Ma dov’è che vuoi andare in giro a fare il cretino…

 

Fedele alle orgini, memore degli oracolari pronunciamenti dei peraltro quasi sempre muti sciamani padani, consapevole che là fuori, nel mondo moderno e fighetto, lungo i brulicanti lidi del mare salato, c’è solo pericolo e tentazione e salmastra fatuità, io ho deciso di trascorrere l’estate sulla mia sperduta isola padana: a Nosadello. Come l’anno scorso. E l’anno prima. E forse anche quello prima ancora, e ancora, e ancora. Non lo saprei dire con esattezza: qui dove la vita è scolpita nella ripetizione dell’uguale, la memoria non ha quasi più senso. Ma non è che proprio ho deciso, razionalmente, discernendo tra opzioni possibili, valutando su Booking le migliori offerte o le più pregiate destinazioni (“cascinale mezzo diroccato a Scannabue, per due notti, a 30 euro, ma le lenzuola ve le portate voi: prenota ora, se no va’ a dà via i ciapp!”), o scegliendo davvero il mio trascurabile destino agostano. Ho soltanto aderito all’atavico richiamo del sangue e della plurisecolare tradizione paesana di immobilismo e stasi, di operosa fissità e sterminata rottura di balle.

 

Lascio Pavia, la città (quante case!, quanta gente!, che frenesia!, e quanti urluch, quanti sifui da gaba – quanti allocchi, quanti sciocchi, tutti belli pronti alla partenza: mica mi ci sono ancora abituato, all’assenza di vuoto), tiro giù i finestrini nel breve tragitto che mi separa da Nosadello, annuso l’aria che prima sa di catrame, poi di niente, poi di erba tagliata, poi di nafta: poi, di letame di vacca. Finalmente, eccomi a casa.

 

Arrivo che sono le due di pomeriggio. Mentre il cancello, nientemeno, elettrico, si apre con congruente lentezza, da sotto il portichetto mio padre a torso nudo e braghette mi fissa e fuma; mia madre, apparendomi tremolante e fantastica nei quarantuno gradi percepiti dell’afa oceanica, ramazza quattro foglie rinsecchite. “Uè, alura?”, e torna a raccogliere sterpaglie, a pulire dove è già pulito. “Ciau, neh, Mirko: vado al bar, gh’è Mario che ma speta per la partida a carte”, mi dice mio padre inforcando la bici nera, e fischietta un motivetto antico che si è inventato lui, o forse è di Mimmo, l’amico cantante da balera e matrimoni.

 

La mia villeggiatura in campagna inizia così, sotto il segno del calore e della più tenera accoglienza. Contemplo l’inamovibile panorama famigliare: i cortili riarsi, la siepe dei vicini, i vicini che mi fanno un floscio cenno con il capo, la strada deserta, i campi di melga dietro casa, il trattore che passa perdendo liquami, i vecchi che passano a piedi con sfibrata tenacia, le sciure in grembiule che non passano, pietrificate come sono sui cadreghini di vimini all’ombra di decorose verande. Ho tutto quello che mi occorre.

 

Estasiato in mezzo al vialetto di casa, progetto giornate di niente, di rogge e di pasti pesanti nella canicola. “Uè”, mi riscuote mia madre che deve dar giù l’acqua, chissà perché, sul cemento, “non è che sei qui per rompere le balle, eh?”. Adesso sì, adesso posso coltivare davvero la cosa che più si addice alle mie, alle nostre estati campagnole, al senso più autentico del nostro vivere qui, lontani dal resto, da turismi di masse inconsapevoli, da spiagge sabbiose e sterili inondate di puzzo di oli abbronzanti, calzoni fritti, umanità soddisfatta del viaggio. Adesso posso sul serio, in questa lunga stagione calda sull’Oceano Padano, iniziare a fare ciò per cui sono più portato: annoiarmi a morte.

 

Mirko Volpi ha scritto “Oceano Padano” (Laterza) e racconterà sul Foglio la sua noiosissima estate passata lontano da mare e montagna.

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