Mozart e il suo librettista Daponte, per il quale ogni elogio risulta vano

Mario Bortolotto
Città teatrale per eccellenza, la musicalissima Vienna non riusciva a ignorare, ancora in tardi anni, una commedia di Beaumarchais, Le mariage de Figaro, accolta da un furore di applausi, quale risposta a un decreto che, a Parigi almeno, ne vietava severamente la rappresentazione.

Città teatrale per eccellenza, la musicalissima Vienna non riusciva a ignorare, ancora in tardi anni, una commedia di Beaumarchais, Le mariage de Figaro, accolta da un furore di applausi, quale risposta a un decreto che, a Parigi almeno, ne vietava severamente la rappresentazione. Ma che poteva un tal documento, che replicava al giudizio degli illuministi più virulenti, raddoppiati dagli accoliti e, sulla loro statura, dalle signore più ansiose di partecipazione mondana? In tempi non eccessivi, le signore avevano aperto i loro salotti, e pertanto la strada, al capolavoro.

 

Non si può, oggi, immaginare quella luce, a cominciare dalla corte. Non fu troppo difficile abbattere le resistenze paciose del sovrano. Sta di fatto peraltro che la regina Marie-Antoinette aveva smaltito quel libretto in breve tempo, lasciando poi che le cose andassero per il loro verso. La gioia s’era diffusa: fu così che l’intelligente ascoltatrice – l’allieva di Gluck – fu la prima Susanna: anche dopo l’affaire di Varennes, che pesava su quel successo. (Si tacque, senza eccessi, anche su un affascinante svedese, persino agli ultimissimi giorni).

 

Quel testo comparve sotto i più vari climi, inclusa la bigotteria madrilena, la sicumera prussiana, San Pietroburgo. Ma è ben sicuro che fosse meritevole della concessione tardiva? L’abbé Daponte nelle Memorie attribuisce l’editto proprio al re: tutto nel tardo Settecento era suscettibile di doni magnanimi. Tuttavia, la tattica era ben chiara, evidente l’italianismo dell’acuto prelato. Infine, tutto restò avvolto nelle nebbie della capitale e subito, alla prima comparsa, scatenò la claque regale.

 

Vi sarebbe da scrivere su un rapporto fra il committente e il suo librettista, per il quale ogni elogio risulterebbe vano. Era, letteralmente, esperto oltre che infoiato davanti alla bellezza. Da eccellente politico, sapeva ammirare una pastorelleria di Rousseau o Boucher. Mozart sembrava fatto per lui: piaccia o no ai suoi seguaci, proprio lì, nell’analisi di possibilità sceniche sta la decisa presenza sui testi che gli venivano sottoposti. Quale giudizio! E, naturalmente, la pratica era ben duplice: si potrebbero, di volta in volta, indicare i passi offerti al musicista dal letterato onnisciente: li esaurì con il corso accademico su Dante, ma a New York, primo di un’autorevole successione di filologi. Un tale lavoro analitico non ci risulta efficiente: basti un minuscolo esempio. Vi è un momento in cui fanciulle della piccola corte spagnola accolgono il conte d’Almaviva con manciate di petali rosa come alla Madonna di maggio. Un tale ossequio è perfettamente nelle corde del collaboratore, ma è decisivo, giacché solo quella minima pioggia simbolica richiamava il sentimento del Veneto di Ceneda, patria dell’antico devoto, e, come tale, poteva essere compreso anche altrove: anzitutto sul Ring viennese: s’intende: laus castitatis, che il focoso patrizio non si degna di accogliere.

 

Con altrettale vaghezza si ascolti tutta la parte, non facile, affidata ai vari personaggi di imminente colore borghese – don Bartolo, medico dubbio, e poi Basilio il giardiniere, Curzio – e questa leggera patina di eloquenza ecclesiastica che piomba sulle loro pagine, con insistenza melensa, capolavoro di riprese: ecco il seminario veneto, anticipo del Fogazzaro più azzeccato.

 

In Daponte, i singoli aspetti si sommano, s’avvolgono e definiscono l’oggetto, la figura, rendendoli definitivi. Sospettare, all’inizio dell’opera, e attendere una caricatura di aristocratico veemente segnerebbe un falso accento. L’aria del Conte (“Vedrò, mentr’io sospiro, / felice un servo mio”) è ritratto virile in piena regola, con tutti gli ansimi del cattolico difficile: la verità della negazione viene così raffigurata in tutta la sua efficienza.

 

Passiamo alle ragazze. Ecco un attacco di capriccio, quando Susanna rimprovera il fidanzato distratto, disattento all’esame dei suoi mobili: Figaro è troppo attento a esaminare il suo letto nuziale, e pertanto se ne distrae. Ma è bufera di secondi, e la pace amorosa torna in incantevole serenità. Su quella pratica – come si diceva un tempo – si evoca Londra, affidata al talento del Conte come ambasciatore: incarico pericoloso. E’ città protestante quella, attenzione…! E la versificazione si fa davvero dapontiana, di un sapore arcaico, classicheggiante: l’Arcadia in Brenta, infine, il Trionfo della continenza: fra i Due, i ritmi si acuiscono, in perfetta classicità.

 

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I giovani invitati ad affrontare la commedia musicale si dimostrarono degni di tale proposta: una scena alla Tiepolo con raffigurazioni anche più esatte ma anche più deliziosamente acidule. Emergevano naturalmente le grandi figure: la Contessa e Susanna, Cherubino, Figaro e il Conte, straordinarie di eleganza e fascino arcadico, sullo sfondo di una luminosità già ideata da Strehler alla Scala in un’occasione insuperabile: c’eravamo… Stavolta guidava il tutto un maestro espertissimo: Roland Böer, con Roberto Gabbiani maestro del coro; Alessandro Luongo era Almaviva, Eleonora Buratto la Contessa, Rosa Feola Susanna, Markus Werba Figaro, Michaela Selinger Cherubino. Orchestra vibrante, splendide scenografie e affascinante, incantevole regia.

 

“Le nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart sono andate in scena a Roma, al Teatro Costanzi, per la stagione del Teatro dell’Opera. Direttore Roland Böer, regia di Giorgio Strehler ripresa da Marina Bianchi (l’allestimento era del Teatro alla Scala di Milano), maestro del coro Roberto Gabbiani, Orchestra e coro del Teatro dell’Opera.

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